Relazioni Internazionali

PROVE TECNICHE D’INDIPENDENZA – La politica italiana nell’era delle superpotenze

La posizione geografica dell’Italia determina in larga parte gli orientamenti della sua politica estera anche se, almeno negli ultimi decenni, l’impressione è stata quella che la politica estera italiana sia in effetti stata orientata passivamente da spinte esterne, provenienti da attori sia regionali che globali, non di rado favorite da carenze della sua stessa struttura socio-politica interna.

Il problema che accomuna le nostre esperienze di politica estera attiva è stato, e rimane, la quasi totale assenza di un quadro dottrinario e strategico che le accompagni e ne dia sostanza.

di Andrea FortiLaureato in lingue orientali, studioso di relazioni internazionali

L’Italia, Paese mediteranno d’Europa

Sarebbe difficile delineare anche brevemente e per sommi capi le principali direttrici della politica estera italiana senza tenere conto della particolare posizione geografica e geo-politica del nostro Paese, un prolungamento peninsulare del continente europeo che idealmente proietta il nucleo latino-germanico (e la sua estensione orientale slava) nel mezzo del mare Mediterraneo, che a sua volta è confine, e trait d’union, fra l’Europa e il mondo islamico, nordafricano e mediorientale.

È la stessa posizione geografica dell’Italia quindi a legarla ad una dimensione a un tempo occidentale, mediterranea e mitteleuropea, e non è poi così peregrina l’idea di accomunare la posizione del nostro Paese ad un altro, apparentemente così lontano geograficamente e culturalmente, come la Russia, proiezione europea nel “mare terrestre” costituito dalle immense steppe eurasiatiche.

In Italia, diversamente dal caso russo, non si è diffusa un’ideologia che apertamente e organicamente rivendichi un’alterità rispetto all’Europa basata proprio su un fattore geografico, come nel caso dell’Eurasismo, ma non mancano, specialmente in ambienti politico-culturali sensibili a richiami “multiculturalisti” di vario orientamento voci che vorrebbero ricondurre l’identità storica e nazionale italiana a una non meglio specificata comune matrice pan-mediterranea che, di fatto, accomunerebbe Il Cairo a Udine e che non è meno ideologicamente costruita di alcune narrazioni separatiste che esaltano esclusivamente il carattere celtico dell’Italia del Nord.

La stessa netta divisione fra un Nord Italia esclusivamente “mitteleuropeo” o addirittura celtico (ma allora celtica potrebbe rivendicarsi pure la Turchia, un tempo patria dei Galati) e un Sud mediterraneo e levantino, deve tener conto di una storia che ha visto il nostro Mezzogiorno fiorire sotto dinastie germaniche come normanni e svevi e d’altra parte una gloriosa Repubblica settentrionale, come quella di Venezia, aprirsi a influssi “levantini” bizantini e vicino orientali.

La posizione geografica dell’Italia determina in larga parte gli orientamenti della sua politica estera anche se, almeno negli ultimi decenni, l’impressione è stata quella che la politica estera italiana sia in effetti stata orientata passivamente da spinte esterne, provenienti da attori sia regionali che globali, non di rado favorite da carenze della sua stessa struttura socio-politica interna.

La “policentricità” politica italiana, tra interni ed esteri

“Calpesti e derisi perché non siam popolo perché siam divisi”, è questa la strofa del nostro inno nazionale che stigmatizza la secolare divisione politica della Penisola durata dalla caduta della Roma d’Occidente alla riunificazione di cui si è appena celebrato il centocinquantesimo anniversario; eppure sembra che l’Italia sia ancora destinata a soffrire gli effetti di un’endemica frammentazione interna che mette a serio repentaglio non solo la sua stabilità politica (anche se seri rischi di disintegrazione politico-territoriale sono poco probabili) ma anche l’elaborazione di una coerente politica estera.

La frammentazione politica italiana non è solo, anzi non è tanto, quella territoriale, da sempre esistita ma resa politicamente visibile dallo sviluppo nell’ultimo ventennio di forze politiche localiste, a Nord come al Sud, ma è soprattutto quella politico-istituzionale.

L’Italia, nello scenario europeo deciso a Jalta sembrava ricalcare a livello politico interno la stessa polarizzazione che divideva il continente europeo in un campo orientale “socialista”, dominato dai sovietici, e in un campo occidentale “democratico”, dominato dagli Stati Uniti d’America.

Se la divisione in due blocchi dell’Europa aveva prodotto in Germania la nascita di due Stati-Nazione distinti e contrapposti, una Repubblica Federale Tedesca a guida democristiana e poi socialdemocratica ad Ovest, e una Repubblica Democratica Tedesca di stretta obbedienza sovietica ad Est, in Italia tale bipolarismo si consolidò all’interno delle stesse istituzioni repubblicane, che rispecchiavano un Paese pienamente inserito nel sistema politico-economico-militare occidentale (NATO e Piano Marshall) ma che allo stesso tempo ospitava il più grande e radicato Partito comunista occidentale, il PCI.

Nell’ordine europeo della Guerra Fredda non sarebbe stata accettata, ovviamente un’Italia “sovietizzata” ma neppure completamente de-comunistizzata, e per questa ragione i sovietici non incoraggiarono mai tentativi insurrezionali comunisti, neppure nei delicati giorni successivi all’attentato a Togliatti, e gli americani non presero mai sul serio ipotesi golpiste alla greca o alla cilena; le due potenze mondiali infatti si scontravano indirettamente su vari fronti extra europei, soprattutto in quello asiatico (Corea, Vietnam e Afghanistan), ma in Europa mantennero sempre fede agli accordi di Jalta, sicché uno spostamento di campo dell’Italia, così come un suo radicalizzarsi in politica interna in senso eccessivamente anti-comunista, avrebbe provocato reazioni difficilmente controllabili da entrambe le potenze.

L’Italia, negli anni della Guerra Fredda, fu un Paese politicamente bloccato, con una Democrazia Cristiana saldamente al potere ma con un Partito Comunista Italiano sempre più presente nella gestione dei poteri locali e del “soft power” dell’istruzione, della cultura e della “società civile”; tale blocco fece in modo che il nostro Paese non solo non riuscisse ad elaborare una politica estera attiva, ma che al contrario fosse sempre di più oggetto di manovre politiche di Paesi esteri.

Anche se non è ancora accertata l’entità del loro coinvolgimento è sicuro che durante il sanguinoso decennio fra la fine degli anni ’60 e la fine dei ’70 l’Italia fu percorsa da mai del tutto chiarite manovre e ingerenze di servizi segreti, tanto di Paesi “nemici”, come URSS, Cecoslovacchia e Germania Orientale, che di Stati almeno teoricamente “amici” come gli Stati Uniti, Israele, l’Inghilterra, la Francia e la Germania Occidentale.

L’Italia fu teatro di scontri sotterranei fra est e ovest, fra arabi e israeliani (vedasi Argo-16) e anche fra orientamenti diversi in seno agli stessi apparati politici e di intelligence occidentali e orientali (In USA: CIA contro Dipartimento di Stato, in URSS: KGB contro GRU) ed è facile intuire come in un quadro del genere, aggravato dal succitato dualismo politico interno, il compito dei governanti italiani fosse di gestire, riducendo al minimo i danni, queste manovre incrociate, un impegno arduo che rendeva pressoché impossibile l’elaborazione di una strategia politica internazionale che andasse oltre ad una generica professione di fede atlantica edulcorata da dichiarazioni neutraliste atte a soddisfare i sovietici e le frange di opinione pubblica legate al PCI.

Alcuni tentativi

Il primo tentativo di politica estera italiana “attiva” fu opera non di un politico di professione, benché fosse stato deputato dal 1948 al 1953, ma di un esponente del mondo economico-industriale degli anni della ricostruzione, quell’Enrico Mattei che riuscì a salvare l’Ente Nazionale Idrocarburi dai tentativi di smantellamento imposti dagli anglo-americani all’indomani della guerra, utilizzandolo come punta di lancia della politica energetica italiana, tramite un’audace diplomazia che lo portò a destreggiarsi fra i blocchi contrapposti e a scommettere sulle leadership dei Paesi emergenti dalla decolonizzazione.

Mattei coltivò rapporti con pressoché tutta la classe politica italiana, dal PCI al MSI passando ovviamente per la Democrazia Cristiana (specie della corrente fanfaniana), ma ciò non si rivelò sufficiente perché la politica nazionale desse un adeguato appoggio alla spregiudicata ma efficace “diplomazia energetica” matteiana, la quale costò la vita al suo fondatore, scomparso in un misterioso incidente aereo nel 1962.

Non miglior fine fece Aldo Moro, prosecutore parziale e ben più timido di alcune linee di Mattei.

Chi in Italia diede una svolta non di poco conto alla politica estera fu però il leader socialista Bettino Craxi.

Da un lato egli ruppe con la prudenza consuetudinaria dell’Italia, schierandosi apertamente e senza riserve con la NATO e il campo occidentale durante la crisi degli “Euro-Missili”, quando l’installazione degli SS-20 sovietici alterò l’equilibrio delle forze in Europa e spinse l’Alleanza Atlantica a schierare i Pershing, sfidando, da socialista, il pacifismo a senso unico mobilitato dai comunisti.

Dall’altro, lo schieramento aperto non impedì a Craxi di svolgere una politica privilegiata con il mondo arabo, di difendere a Sigonella la nostra sovranità nazionale di fronte agli stessi Stati Uniti, di condannare l’intervento americano nell’isola caraibica di Grenada e di prendere apertamente posizione in favore dei palestinesi.

L’autonomia di Craxi dagli schemi della Jalta europea e di quella, in scala minore, che regolava la vita politica italiana contribuì ad accelerarne la caduta all’indomani di Tangentopoli.

Un minimo della sua eredità e di quella di Mattei è stata ripresa dall’attivismo berlusconiano che, sugli scenari esteri, spesso segue i tracciati dell’ENI.

Il problema che accomuna queste esperienze di politica estera attiva è stato, e rimane, la quasi totale assenza di un quadro dottrinario e strategico che le accompagni e ne dia sostanza.

Si compari solamente l’attivismo internazionale delle fondazioni e dei think tank dei partiti tedeschi (la fondazione Ebert socialdemocratica e la Adenauer democristiana) e il provincialismo di quelli italiani, fondati spesso su logiche correntizie e personalistiche, e si comprenderà come mai la politica estera del nostro Paese ancora arranchi, nonostante alcuni positivi sviluppi.

Tratto da “Polaris – la rivista n.5 – RESETTARE L’ITALIA” – acquista qui la tua copia

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