Economia & Finanza

A SPESE NOSTRE – L’Italia invecchia ma non cresce, conseguenze di una mala educación

A trent’anni dal divorzio e dallo Sme, e a vent’anni da Maastricht, lungo una traiettoria che ha visto fasi di contrazione e fasi di sviluppo, contenimento e aumenti di inflazione, riduzioni e ascesa dei tassi di interesse, il Paese mostra una crescita asfittica, un prelievo fiscale ben superiore al 40%, un debito pubblico che non accenna a diminuire nonostante la dissoluzione del patrimonio pubblico avvenuta con le privatizzazioni degli anni ’90.

Soffre soprattutto un debito pubblico detenuto per oltre il 40% da investitori esteri e per il 50% da banche, circostanza questa che pone seri dubbi sull’autonomia della politica economica nazionale (e sull’autonomia della politica stessa).

di Antonio Bovo Operatore finanziario e docente di corsi master

Questa è la storia di un intervento pedagogico sbagliato. Di una adolescenza vigorosa e disordinata. Di vizi ed eccessi corretti con terapie micidiali. Non è la storia di un solo uomo: è la storia di tanti uomini, di un intero Paese, prima Contadino, poi Industriale e mai veramente Sovrano.

Crescita del Prodotto Interno Lordo superiore al 5%, pressione fiscale del 30%, rapporto debito pubblico/PIL intorno al 40%, autorità monetarie preoccupate della crescita e per questo attive mediante una politica di stabilizzazione dei tassi di interesse, accompagnata da controlli amministrativi volti a limitare la fuga di capitali.

Sembra un’arcadica preistoria. Invece sono dati macroeconomici dell’Italia. Anni ’60.

Finisce presto quel periodo a causa del sopraggiungere violento degli anni ’70, troppo presto per un paese che non ha ancora avuto il tempo di maturare.

La scala mobile, introdotta nel 1975, in un contesto di crescita del prezzo del petrolio e di svalutazione della lira, innesca con viziosa circolarità l’esplosione dei prezzi: l’inflazione tocca il 21% nel 1980.

La distribuzione dei redditi tra capitale e lavoro non si sposta, rimanendo invariata in tutto il decennio; in compenso perde competitività internazionale la forza lavoro, il cui costo è salito, e si rende disponibile, per effetto dell’illusione monetaria, più reddito “fittizio” da destinare ad acquisti di prodotti esteri.

Nel tentativo di mantenere il consenso, oltre alla scala mobile, la classe dirigente, che non ricorda la favola di Pollicino (1), fa un altro costoso regalo, introducendo un esteso sistema pensionistico di tipo retributivo che elargisce pensioni pari all’80% dello stipendio con poca considerazione per i contributi effettivamente versati.

La spesa corrente raggiunge il 39% del PIL alla fine degli anni ’80.

La politica monetaria accondiscendente asseconda le cattive abitudini e fa impennare l’inflazione, fallendo nel contempo l’obiettivo di facilitare l’espansione degli investimenti, che languono intorno al 4% del prodotto interno lordo.

E’ in questo contesto che il Paese, vigoroso anche se un po’ indisciplinato di un decennio prima, diventa un paziente da curare.

L’adesione allo SME, nel 1978 è il primo degli interventi “pedagogici”, diretti, almeno secondo la ricostruzione storiografica, a disciplinare il paese, evidentemente per il suo bene (2)

“I sostenitori dell’ingresso nello Sme affermavano che l’accettazione di un tasso di cambio stabile avrebbe imposto una disciplina al nostro sistema economico” (3).

Nel 1981, sopraggiunge una istanza moralizzatrice: l’allievo, che continua a non applicarsi sulla via del risanamento, viene curato separando i genitori, Banca d’Italia e Tesoro, perché l’unione si dice incestuosa; è il famoso “divorzio” con il quale si modifica il meccanismo di finanziamento del disavanzo.

“Si era coscienti del fatto che il venire meno del finanziamento del disavanzo attraverso la Banca centrale avrebbe spinto ad aumentare il debito pubblico; … ma si riteneva anche che il governo e il Parlamento, messi davanti al dato che un aumento del disavanzo del bilancio pubblico avrebbe implicato costi maggiori in termini di maggiori tassi di interesse e quindi di maggiori spese per interessi, sarebbero stati indotti a una maggiore disciplina. … Invece purtroppo le cose non andarono così” (4).

Gli effetti sono opposti a quelli desiderati (5): la spesa corrente primaria non diminuisce e in aggiunta i tassi, non più calmierati dall’intervento della Banca d’Italia e dai vincoli amministrativi imposti alle banche, subiscono un’impennata e fanno schizzare la spesa per interessi, che agisce da volano per il debito pubblico: il debito, intorno al 60% del PIL nel 1981, balza oltre il 100% nel 1991, e supera il 120% nel 1994.

Nello stesso tempo all’indisciplinato Paese si intensificano i prelievi: il prelievo fiscale, che nel 1980 era poco più del 30% del PIL, diviene il 40% nel 1990 e il 46% nel 2003. Una pressione tributaria degna dei più avanzati paesi scandinavi, ma qui, di scandinavo, c’è solo il gelo che percorre l’economia.

La classe politica accetta il nuovo metodo di finanziamento del fabbisogno pubblico, che consiste nel ricorso al debito anziché nella creazione di base monetaria, ma non riduce la spesa: non viene imposto ad esempio il rispetto dell’articolo 81 della Costituzione, che imporrebbe la copertura delle nuove spese, ma si opera con una pedagogia al contrario, facendo esplodere la spesa e confidando in un ravvedimento dei governanti. Un po’ la filosofia del tanto peggio, tanto meglio.

Non esistono limiti teorici alla sostenibilità del debito pubblico; è evidente, tuttavia, che una crescita esponenziale del debito aumenta a dismisura i rischi di insolvenza.

Su questo timore, e sulla spinta di una pretesa convinzione europeista degli italiani, il governo firma nel 1992 il trattato di Maastricht. Ancora una volta una manovra con, dichiarati, fini educativi:

… c’era la non dichiarata speranza che l’adesione al Trattato avrebbe permesso che il paese e le forze politiche accettassero quella disciplina fiscale che tutti ritenevano necessaria ma che nessuno osava imporre per paura di perdere consenso(6).

Invece, come dieci anni prima, gli eventi precipitano e l’Italia, sottoposta ad un attacco speculativo contro la lira, viene costretta ad uscire dallo SME.

A questo punto, di fronte al rischio di essere posti ai margini del Moloch dell’unificazione europea, i sacrifici imposti diventano pesantissimi. La manovra non è più indiretta ma drastica ed efficace come un’amputazione chirurgica:

  • tagliate le prestazioni pensionistiche con le successive riforme delle pensioni 
  • aumentata la pressione fiscale 
  • avviata una massiccia campagna di vendita di beni pubblici (7)

L’efficacia è tuttavia vanificata dagli elevati tassi di interesse che gli investitori, in particolare esteri ed istituzionali, richiedono per sottoscrivere i titoli del debito italiano.

Già, perché, nel frattempo, una quota consistente del debito pubblico è passata dai cittadini agli investitori istituzionali (fondi di investimento, banche, società) e agli investitori esteri (da percentuali vicine allo zero nel 1980 a oltre il 40% nel 2008). I titoli del debito pubblico piacciono, eccome, a questi investitori che, però, esigono ricompense elevate per comprare i titoli italiani.

L’effetto storico non è di poco conto, anzi è fondamentale: negli anni ’70 la crescita della base monetaria (con la conseguente inflazione) era destinata a finanziare il sistema pensionistico (ossia i pensionati) e, tramite il pagamento delle cedole, i cittadini; dagli anni ’90 in poi la spesa per interessi beneficia i nuovi detentori dei titoli di stato (società italiane e soprattutto estere). Carta vince, carta perde.

A trent’anni dal divorzio e dallo Sme, e a vent’anni da Maastricht, lungo una traiettoria che ha visto fasi di contrazione e fasi di sviluppo, contenimento e aumenti di inflazione, riduzioni e ascesa dei tassi di interesse, il Paese mostra una crescita asfittica, un prelievo fiscale ben superiore al 40%, un debito pubblico che non accenna a diminuire nonostante la dissoluzione del patrimonio pubblico avvenuta con le privatizzazioni degli anni ’90.

Soffre soprattutto un debito pubblico detenuto per oltre il 40% da investitori esteri e per il 50% da banche, circostanza questa che pone seri dubbi sull’autonomia della politica economica nazionale (e sull’autonomia della politica stessa)

La separazione tra Banca d’Italia e Tesoro, l’introduzione di regimi di cambio fisso e la campagna di privatizzazioni, interventi compiuti con intenti pedagogici, hanno sempre sortito effetti opposti agli obiettivi dichiarati, generando un paese sfiduciato, privo di identità e incapace di crescere. La mala educaciòn.

Bibliografia

Banca d’Italia, Supplementi al Bollettino Statistico, vari anni.

R. Ciccone, Debito pubblico, domanda aggregata e accumulazione, Aracne 2002.

I. Musu, Il debito pubblico, Il Mulino 2006.

F. Zaccaria, La spesa pubblica in Italia tra espansione e controlli, Franco Angeli 2005.

1. Un boscaiolo e sua moglie, non avendo più di che sfamare i loro 7 figli, decidono di abbandonarli nel bosco. Nella moderna riedizione, “il boscaiolo e la moglie” si nutriranno di generose pensioni a spese dei nipoti che ne saranno quasi privi. E’ l’eterno conflitto tra genitori e figli in chiave di moderno welfare, moderno ma sempre tragico.

2. Visti i risultati, ogni dubbio sui reali obiettivi della decisione è lecito.

3. Musu, 2006

4. Musu, Op. cit.

5. Vedi nota precedente.

6. Musu, Op. cit.

7. Definita, si dice, sul piroscafo Britannia,di proprietà della corona britannica: se il paziente è italiano, il medico è inglese?

Tratto da “Polaris – la rivista n.2 – STRADE D’EUROPA” – acquista qui la tua copia

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