MOSTRI NEGLI ABISSI DEL DEBITO – Dallo Stato-Leviatano al Leviatano sopra gli Stati
Dopo il Trattato di Maastricht il Debito Pubblico, principale capo d’accusa contro la sostenibilità delle politiche sociali, ha continuato a crescere ininterrottamente ed esige sempre nuovi e più dolorosi tagli e sacrifici.
Con lo scopo dichiarato di sconfiggere il Leviatano fiscale e l’obiettivo occulto di insediare il Kraken eurocratico, l’ultimo decennio del millennio scorso ha visto l’inizio della devastazione dello stato sociale, del mondo del lavoro e della politica industriale.
di Antonio Bovo – Operatore finanziario e docente di corsi master
Negli anni ’70 lo Stato, il Leviatano fiscale secondo la definizione di Francesco Forte [1], regalava pensioni e sussidi, e insieme inflazione galoppante, comprava il consenso sociale mediante generose elargizioni, senza tuttavia spostare un granché la distribuzione dei redditi. La crescita patologica del mostro, che inglobava settori crescenti dell’economia e dello spazio sociale fino a diventare, con l’IRI, la prima azienda del Paese, venne progressivamente arrestata dall’imposizione del modello europeo negli anni ’80 (SME) e ’90 (Euro).
Con il trattato di Maastricht il Kraken [2] eurocratico e mercatista uccise il Leviatano fiscale, ma pretese un tributo altissimo in termini di innalzamento della pressione fiscale, smantellamento dello stato sociale, privatizzazioni selvagge, annichilimento della politica industriale. E, quel che è peggio, si insediò sul trono lasciato dal Leviatano, rivelandosi un tiranno genocida ben più avido e crudele del suo predecessore.
Da allora il Debito Pubblico, principale capo d’accusa contro la sostenibilità delle politiche sociali, ha continuato a crescere ininterrottamente ed esige sempre nuovi e più dolorosi tagli e sacrifici.
Il Debito Pubblico è potenzialmente iniquo: perché il meccanismo di redistribuzione messo in atto attraverso gli interessi pagati su di esso (il cui livello viene fissato dal mercato) non tiene conto di criteri di equità sociale;
perché fa ricadere l’onere del rimborso sul futuro e sulle generazioni future.
Per lo svolgimento delle attività che gli sono attribuite lo Stato sostiene delle spese (la cosiddetta spesa pubblica) che possono essere finanziate principalmente attraverso tre canali:
- entrate fiscali (imposte, tasse, tariffe, contributi, corrispettivi pubblici)
- emissione di moneta (signoraggio)
- indebitamento (debito pubblico)
La manovra di tipo fiscale (1) può avere effetti distorsivi sull’economia reale; inoltre una pressione fiscale eccessiva scoraggia l’iniziativa economica.
La “stampa” di moneta (2), se da un lato è efficace e rapida nel coprire le uscite, dall’altro, in presenza di piena occupazione dei fattori produttivi o di inefficienze strutturali del sistema economico, può generare inflazione: il ricorso a questo meccanismo è avvenuto fino al 1981, anno del divorzio della Banca d’Italia dal Tesoro [3], e il decennio 1970-1980 è infatti ricordato anche per la corsa dei prezzi. Il suddetto divorzio prima e la definitiva “indipendenza” della BCE rispetto ai governi poi hanno precluso la possibilità di ricorrere alla creazione di moneta per coprire la spesa pubblica.
Il ricorso al debito (3) si differenzia dalle modalità entrate fiscali (1) e emissione di moneta (2) poiché si limita semplicemente a spostare il ricorso a (1) o (2) in un qualche momento futuro: in altri termini, i debiti (anche quelli pubblici) vanno prima o poi estinti e per farlo non vi sono che le prime due vie.
(1) e (2) sono o dovrebbero essere determinati, nella loro entità e distribuzione, secondo criteri di equità sociale; per il debito pubblico potrebbe avvenire lo stesso. Il collocamento dei Btp e il livello dei tassi di interessi a cui questi vengono remunerati sono invece lasciati a meccanismi di mercato.
Ciò crea una evidente difformità: la fissazione delle imposte e il signoraggio sono atti d’imperio, espressione di sovranità; nessuno si sognerebbe di lasciar determinare le imposte al “mercato”. Non c’è ragione per la quale la soluzione per il debito pubblico debba essere diversa, in particolare per quanto riguarda i rendimenti.
La determinazione dei rendimenti per le nuove emissioni affidata al “mercato” contrasta con gli obiettivi sociali e rappresenta una redistribuzione non disciplinata di redditi tra i soggetti che detengono i titoli di stato e che incassano le relative cedole e soggetti che ne sono privi e che dovranno comunque sostenere il costo per il rientro del debito.
Il contrasto diventa stridente qualora lo spread legato alla rischiosità dell’emittente-Stato diventi troppo elevato. E qui emerge il secondo punto…
L’allocazione all’estero del debito pubblico costituisce una seria aggravante.
I titoli detenuti da investitori esteri sono facile strumento di manovre speculative che fanno esplodere lo spread e quindi i rendimenti;
gli interessi pagati su tali titoli costituiscono un impoverimento poiché si tratta di ricchezza che lascia il paese.
Il ricorso al prestito dall’estero, attraverso la cessione di titoli di stato sui mercati internazionali, ha senso solo se le risorse residenti nel paese sono insufficienti. L’Italia ha un patrimonio stimato in circa 8500 miliardi di €, a fronte di un debito pubblico di circa 2000 miliardi di €: collocare i titoli all’estero appare dunque un non-senso e pagare gli interessi all’estero costituisce un impoverimento netto del paese. Fiumi di denaro pubblico (e quindi di ricchezza nazionale) che ogni anno abbandonano il paese per sempre.
In presenza di attacchi speculativi mossi dai detentori esteri di titoli di stato, il costo per il finanziamento diviene insostenibile e la sovranità nazionale ne risulta compromessa; si aggiunga, come detto sopra, che una quota rilevante dei lauti interessi pagati sul debito pubblico se ne va all’estero.
Fino al 1992 il debito era detenuto in massima parte (oltre il 90%) da soggetti residenti (in particolare famiglie): poi la massiccia operazione di marketing internazionale e di dirottamento dei risparmi privati verso altre forme di investimento ha letteralmente ribaltato le percentuali; le famiglie detengono ormai percentuali inferiori al 10%, gli investitori istituzionali domestici dal 40 al 50%, il resto gli investitori esteri.
Con lo scopo dichiarato di sconfiggere il Leviatano fiscale e l’obiettivo occulto di insediare il Kraken eurocratico, l’ultimo decennio del millennio scorso ha visto l’inizio della devastazione dello stato sociale, del mondo del lavoro e della politica industriale. Il perfido pirata Davy Jones, dalla consolle del suo organo nell’oceano, o, più probabilmente, dal suo desk d’oltreoceano, guida i movimenti dell’orrenda creatura e l’ha ora condotta sulle prede più facili, Grecia e Italia, quelle più vicine ai suoi immondi tentacoli perché gravate dalla zavorra di enormi debiti pubblici. La Germania, ancora lontana dal mare ma presto circondata da relitti, continuerà a galleggiare?
1. F. Forte – Manuale di Scienza delle Finanze – Giuffrè Editore.
2. Kraken = mostro marino leggendario, dalle dimensioni abnormi (fonte: Wikipedia), comandato, nel film Pirati dei Caraibi, dal pirata-demone Davy Jones.
3. Fino al citato divorzio Banca d’Italia – Tesoro, la banca centrale era tenuta a sottoscrivere i titoli di stato rimasti invenduti durante le aste, mentre alle banche era imposto il vincolo di portafoglio che le obbligava a sottoscrivere i titoli del Tesoro; in virtù di queste misure, fino ad allora il rapporto debito pubblico/Pil si era mantenuto al disotto del 60%. A partire dai primi anni ‘80, il rapporto debito/Pil si è impennato fino a raggiungere il 120% e questo a causa principalmente dell’esplosione della spesa per interessi. In pratica, il divorzio motivato con la volontà di contenere l’inflazione causata dalla monetizzazione della spesa pubblica, ha causato la deflagrazione della spesa per interessi e la conseguente crescita abnorme del debito pubblico.
Tratto da “Polaris – la rivista n.9 – CRISI: COMBATTERLA O SUBIRLA” – acquista qui la tua copia