Economia & Finanza

SE LE REGIONI DIVENTANO UN PESO – Le funzioni vanno rimodulate

Le Regioni italiane sono i principali centri di spesa di un federalismo a metà. Il settore sanitario è la croce di una spesa pubblica ormai fuori controllo. 

Le Provincie come nuovo assetto istituzionale, nell’ottica di avvicinamento alle esigenze del territorio.

Le competenze che si possono ricalibrare sul nuovo asse, tra Stato centrale ed amministrazioni locali.

di Filippo Burla – Studente in Scienza ed Economia Politica

Sulla scia dell’ondata speculativa che si è abbattuta e si sta abbattendo sull’Europa, anche l’Italia è dovuta correre ai ripari e, ben oltre le manovre di emergenza varate dal ministro Tremonti, si è arrivati al cambio di governo ed all’inasprimento delle misure contenute nel decreto cosiddetto “salva Italia”, con tanto di notizie a caratteri cubitali sui quotidiani ed unanime apprezzamento per le scelte draconiane imposte dall’esecutivo tecnico.

Entrate ed uscite

Al di là di differenze quantitative, la scelta fatta per affrontare il nodo di un debito apparso improvvisamente insostenibile è stata di aumentare la pressione fiscale attraverso una serie di provvedimenti che vanno dall’incremento dell’Iva al ritorno della tassazione sulla prima casa, fino al ritocco delle già elevate accise sui carburanti. Sul fronte delle uscite, invece, ben pochi sono stati gli interventi, lasciano l’ammontare della spesa pubblica a saldi invariati e costante sul livello degli ultimi decenni che la vede attestarsi attorno ad una media del 50% del Pil. Un valore eccessivo, che ha già dato i suoi frutti in termini di mancato sviluppo. Per usare le parole del senatore Antonio Martino: «mai nessun paese al mondo ha avuto uno sviluppo sostenuto quando la spesa pubblica supera il 40% del reddito nazionale».

Federalismo di spesa

Tra i pochi provvedimenti presi per contenere il gigantismo della spesa pubblica è stato fortemente discusso l’intervento sulle provincie che prelude ad un loro futuro svuotamento di competenze e conseguente soppressione de facto in favore, presumibilmente, delle regioni. Non v’è dubbio che questo provvedimento produrrà dei risparmi di spesa, certo non incisivi rispetto alle esigenze di porre un freno ai dissesti di bilancio delle amministrazioni. Secondo calcoli della Cgia di Mestre infatti, se si abolissero le provincie i risparmi sarebbero nell’ordine di non più di 500 milioni annui. Questo a fronte di una spesa pubblica complessiva che si attesta sui 700 miliardi.

Ben più ampia, invece, è la spesa delle regioni, che si attesta sopra i 200 miliardi, con un incremento del 75% negli ultimi dieci anni. La forte differenza è dovuta al fatto che alle regioni sono affidate competenze ben più ampie di quelle assegnate alle provincie, il che comporta volumi maggiori di uscite. Le competenze spaziano dalla sanità al trasporto pubblico locale, dall’agricoltura al turismo fino alla formazione professionale. Una recente inchiesta de Il Sole 24 Ore (“I conti delle regioni”, apparsa sul quotidiano economico a puntate dallo scorso ottobre) ha fatto luce sul comportamento delle regioni, facendo emergere una serie di criticità che spaziano dall’incapacità di gestire le risorse a disposizione come ad esempio i fondi strutturali europei, la moltiplicazione di ridondanti strutture organizzative, l’intervento diretto in numerosi ambiti con contributi spesso a pioggia, la confusione di competenze tra diversi livelli di governo, l’inefficacia ovvero l’inesistenza di adeguate forme di controllo sulle uscite.

Sanità fuori controllo


Protagonista delle marcate inefficienze regionali è il settore della sanità, ambito a risentire di ampie diseconomie dovute ad una scarsa razionalizzazione del sistema: i centri di spesa sono molteplici e per nulla coordinati, i costi sia per gli acquisti che per le prestazioni variano sensibilmente da regione a regione e la qualità del servizio soffre di ampie differenze in specie tra settentrione e mezzogiorno. Considerando che il costo per il mantenimento del servizio sanitario nazionale supera i 100 miliardi annui, in media almeno il 60% del bilancio delle regioni è destinato a questo specifico scopo. Si tratta, nei fatti, di una misura sproporzionata rispetto all’estensione dell’ente regione, che risulta sottodimensionato rispetto al compito assegnatole. A rigor di logica, competenze di una certa entità andrebbero assegnate a soggetti in grado di farsene carico senza che la loro attività risulti paralizzata in altri ambiti, il che implica una rimodulazione del settore su base almeno macroregionale, se non addirittura nazionale. Il vantaggio derivante da questo nuovo assetto, se strutturato in maniera organizzata, sarebbe il capovolgimento delle criticità prima segnalate: una migliore razionalizzazione delle spese, l’accentramento delle stazioni appaltanti, una presumibile uniformità nelle prestazioni erogate.

Snellire

In questo modo privata la regione della sua principale funzione e voce di spesa,diventerebbe un organo ridondante da snellire e le cui competenze possono essere in definitiva assegnate alle provincie. Si tratta di ambiti di intervento non sempre residuali ma elencati dall’articolo 117 della costituzione solo per esclusione, il che ha comportato ripartizioni stratificate e senza che vi sia uniformità di applicazione. L’azione di rimodulazione delle funzioni può agire su vari ambiti: trasporto pubblico locale e navigazione interna, formazione professionale, sostegno all’occupazione, diritto allo studio. In molti casi si tratta di attività che alcune provincie già espletano, seppur non direttamente deputate. E’ il caso del trasporto sia su ferro che su gomma dove le provincie sono, spesso insieme ai comuni, azioniste dirette delle aziende concessionarie del servizio, con risultati eterogenei a seconda delle zone ma non tali da escludere a priori un’attribuzione in tal senso. D’altra parte, la dimensione e la natura di questo servizio rende la provincia l’estensione territoriale di riferimento. Lo stesso dicasi per quanto riguarda ambiti come le politiche attive per l’occupazione, ove la struttura produttiva italiana strutturata sui distretti ritrova sempre nella provincia il suo dimensionamento più adatto. Così anche le attuali attività espletate dalle regioni in merito alla gestione ed erogazione di contributivi ed incentivi alla produzione, alla ricerca, allo sviluppo, al sostegno all’export ritroverebbero una maggiore specializzazione e dunque migliore efficienza se ricalibrate sul territorio provinciale. Nel rapporto con le regioni esistono infatti, attualmente, aggravi burocratici -come ad esempio sugli investimenti in formazione- che condizionano molte piccole e medie imprese che hanno lamentano l’impossibilità di accedere a questi contributi.

Nella misura in cui le funzioni operative dovessero invece andare oltre i confini -e sempre rimanendo in ambito locale, tale da escludere un intervento diretto dello Stato- è lecito prevedere il funzionamento tramite accordi interterritoriali, con il vantaggio peraltro di superare la rigidità dell’attuale schema regionale. Il riferimento è ad esempio alle politiche per il diritto allo studio laddove le università hanno ampi bacini d’utenza che in alcuni casi oltrepassano il confine della regione per coinvolgere più provincie diverse, come anche per servizi quali l’approvvigionamento e la distribuzione dell’acqua strutturata nei cosiddetti ato (ambito territoriale ottimale) che solo rare volte coincidono con un singolo territorio amministrativo ed, in ultimo, ai trasporti strutturati su base regionale esclusivamente per decreto e, spesso, non adatti a servire con efficienza le esigenze locali.

Tratto da “Polaris – la rivista n.9 – CRISI: COMBATTERLA O SUBIRLA” – acquista qui la tua copia

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