Relazioni Internazionali

NOI E IL CORNO D’AFRICA – I leoni e la Farnesina

L’Europa potrebbe, nella questione somala e più in generale africana, assumere una posizione determinante per ragioni d’ordine storico e politico. Allo stato, però, il vecchio continente non sembra nutrire intenzioni lungimiranti, limitandosi ad affrontare, e in qualche modo contenere i flussi migratori, senza, tra l’altro una approfondita analisi sulle cause del fenomeno e sulle forze che ne reggono le fila

Proprio l’Italia potrebbe avere un ruolo di mediazione fra l’Eritrea e l’Etiopia: la guerra fra i due Paesi del Corno d’Africa è ufficialmente cessata, ma il clima di tensione rimane altissimo.

di Giuseppe ScaliciDocente di storia e filosofia

“Le chiavi del Mediterraneo si trovano nel Mar Rosso”. Così sentenziava il ministro Mancini agli inizi della politica espansionistica dell’Italia post-unitaria, dando prova di una non angusta visione geopolitica, volta, nella partita neocolonialista delle grandi potenze, a fare della penisola un soggetto d’azione autonomo e in grado di competere con i già senescenti imperi di Francia e Gran Bretagna. E’ proprio sulle rive del Mar Rosso che si concretizza, nel 1869 con l’acquisto della baia di Assab, la prima presenza politico-economica dell’Italia in Africa. Tale presenza permetterà, nel 1890, di dar vita alla prima colonia organica: l’Eritrea cui seguirono i lontani e vasti territori somali (1902), la conquista di Libia e Dodecaneso (1911-12), in un diverso quadro politico nazionale, volontarista ed interventista, in cui troviamo una sintonia dei vedute espansionistiche fra personaggi e movimenti diversi fra loro quali i nazionalisti di Corradini, i poeti D’Annunzio e Pascoli, i sindacalisti soreliani …, nel nome dei naturali diritti delle “nazioni proletarie” contro le plutocrazie degli oppressori. Nel 1936, con la conquista dell’Etiopia, venne ricreato l’Impero, fortemente voluto dal regime fascista, che si voleva erede non soltanto del Risorgimento, ma anche della vocazione imperiale di Roma antica.

Durante la guerra fredda, l’Italia della “prima repubblica” si disinteressò del continente africano, nonostante la sua oggettiva importanza, considerando il solo aspetto delle forniture di materie prime e di energia. Al nostro Paese mancò una politica estera autonoma, e i vari, instabili governi si allinearono in modo bulgaro ai Diktat di Washington. Non mancarono, comunque, positive eccezioni: il ruolo svolto, ad esempio, da Enrico Mattei, nelle relazioni intrattenute, nel nome degli interessi nazionali legati all’approvvigionamento di fonti energetiche, con Paesi arabi e africani, prima di essere assassinato avendo osato sfidare i “potenti della terra” di turno. Oppure l’azione politica di Bettino Craxi, attenta ai problemi dell’area mediterranea e alla questione palestinese.

Nello scenario attuale, obiettivo privilegiato appare l’instabile Somalia, teatro di una mai conclusa guerra civile e della contesa di interessi contrastanti e conflittuali. Fra gli “attori” spiccano il movimento Al Shabaab (la gioventù), filiazione delle Corti islamiche (UCI), longa manus, secondo gli esperti di sicurezza, di Al Qaeda, o di quel che ne rimane; gli Stati uniti o per via diretta, o attraverso l’alleata Etiopia, che ha storici interessi territoriali in Somalia. Per non parlare della Cina che da oltre un trentennio è presente nel “continente nero” in modo, forse, poco appariscente, ma molto efficace.

L’Europa potrebbe, nella questione somala e più in generale africana, assumere una posizione determinante ed esercitare una funzione positiva: questo per ragioni d’ordine storico e politico, al di là di anacronistici progetti di tipo neocolonialista. Allo stato, però, il vecchio continente non sembra nutrire intenzioni lungimiranti, limitandosi ad affrontare, e in qualche modo contenere i flussi migratori, senza, tra l’altro una approfondita analisi sulle cause del fenomeno e sulle forze che ne reggono le fila .O, in secondo luogo, ad assumere una presenza nel campo della “cooperazione internazionale” sulla quale molto ci sarebbe da dire: una cooperazione in molti casi legata a clientele politico-affaristiche dei Paesi europei, che finisce per finanziare governi corrotti, senza dunque un reale impatto a favore delle popolazioni locali e del loro progresso..

E l’Italia? Il nostro Paese si trova, dal 1945, in una posizione di terra di terra di frontiera avanzata. Prima dell’Occidente, al tempo del bipolarismo USA-URSS, poi del Nord a presidiare le acque del “mare nostrum”. Si diceva che la nostra ex colonia Somalia rappresenta una fra le aree più instabili. Non esiste, infatti, un’autorità statale in grado di governarla. L’attuale esecutivo di transizione, guidato da Shayk Sharif Ahmed col palese appoggio dell’amministrazione Obama e dell’ingombrante vicino etiope controlla, a mala pena e in parte, il sud del Paese e Mogadiscio. Singolare figura Sharif Ahmed: figlio di un sufi e già esponente di primo piano delle Corti islamiche dalle quali si è dissociato, scoprendo una vocazione moderata e filooccidentale, in sintonia col “nuovo corso” della politica Usa e dei suoi partners nella regione: l’Etiopia di Males Zenawi che pur appoggia, con l’avallo inglese, i secessionisti del Somaliland; il Kenya di Kwai Kibaki; l’Uganda di Yoweri Museveni, Paesi questi che partecipano alla missione anti islamista AMISOM e al Gruppo di contatto contro la pirateria del Golfo di Aden, vista come forza contigua all’estremismo jihadista. E’ dal 1991 che la Somalia è teatro di un conflitto di tutti contro tutti. Da quando, cioè, il generale Mohamed Siad Barre abbandonò Mogadiscio sotto la spinta anarchica dei “signori della guerra”. Personaggio complesso Siad Barre: in grado di destreggiarsi fra le grandi pote4nze in modo disinvolto. Dopo aver instaurato un regime autoritario di tipo socialista fu alleato dell’URSS fino a quando Mosca decise di appoggiare militarmente l’Etiopia. Da quel momento il presidente somalo si improvvisò amico dell’Occidente e degli Usa, dai quali ottenne aiuti non utili però a bloccare la guerra fra i clan rivali, alcuni dei quali finanziati dagli stessi americani.

Nel 1992, l’anno che avrebbe dovuto contrassegnare, con la fine della guerra fredda e delle contrapposizioni ideologiche, la fine della storia e l’aurora di una splendida pax americana, Bush senior organizzò una sciagurata e inconcludente spedizione, cui partecipò anche l’Italia – la “restore hope”- per difendere, così sosteneva, le organizzazioni umanitarie internazionali. L’anno successivo Clinton ordinò il ritiro delle truppe lasciando la Somalia in una situazione peggiore di prima.

Da allora non sono cessati gli scontri, né l’emergenza umanitaria. Oggi il Paese conta circa nove milioni di abitanti, cui si deve aggiungere un milione di profughi stipati in campi all’estero . Un’emergenza difficile, se non impossibile da gestire, visti le divisioni e i conflitti fra gli attori operanti nell’area. Debole risulta l’Unione Africana, irresoluta e lacerata la Lega araba, mossa da interessi strategici e militari eterodiretti l’AMISOM, finanziata dall’ONU, ma longa manus di Washington.

Nel 2007 la Somalia viene invasa dall’Etiopia che scaccia le Corti islamiche le quali, per un breve periodo avevano, ancorché con metodi draconiani, assicurato al Paese un minimo di stabilità e ordine (gestendo ad esempio, attraverso un proprio ufficio, il flusso degli aiuti internazionali) imponendosi ai vari despoti e capi clan . Risale al Gennaio 2009, ai colloqui di pace di Gibuti, la svolta che ha portato alla tregua fra Somalia ed Etiopia e alla presidenza di Sharif Ahmed.

Ma torniamo all’Italia. Un incisivo intervento del nostro Paese nel Corno d’Africa, magari in sintonia con le altre diplomazie europee avrebbe, visti il passato coloniale e alcuni contatti mai del tutto recisi, ragioni e motivazioni non futili. Oggi l’Italia è in qualche modo presente in terra d’Africa. Noti sono gli accordi bilaterali con la Libia, ai fini anche del contenimento dei flussi migratori, e con l’Egitto. E’ del Giugno 2008 un “accordo strategico rafforzato” fra Roma e il Cairo concretizzato con 200 milioni di Euro a titolo di credito d’aiuto. 13 milioni di Euro sono stati ,poi, stanziati per la Somalia, in cambio dell’impegno, da parte del Presidente provvisorio, ad aprire le porte del governo a tutte le formazioni non belligeranti. Tecnici italiani sono presenti presso la base aerospaziale di Malindi (Kenya) e l’ENI detiene un ruolo attivo, per quanto attiene alle concessioni di petrolio in Uganda: ci si attende, a partire dal 2014, un ricavo giornaliero di 50 mila barili di greggio. Manca, invece, un univoco e chiaro ruolo nell’altra ex colonia, l’Eritrea, come emerge anche da una recente intervista rilasciata a “Panorama” dal Presidente Isaias Afeworki. Il quale, ex leader del Fronte di Liberazione Eritreo e nemico dichiarato dell’Etiopia e di Mogadiscio, governa con metodi autoritari: in Eritrea vige, infatti, un sistema a partito unico, non si svolgono elezioni, le ONG e l’ONU hanno lasciato il Paese, non sono garantiti diritti di tutela per i prigionieri politici, molti dei quali erano membri dello stesso FLE. Proprio l’Italia potrebbe avere un ruolo di mediazione fra l’Eritrea e l’Etiopia: la guerra fra i due Paesi del Corno d’Africa è ufficialmente cessata, ma il clima di tensione rimane altissimo. Il rapporto privilegiato della Farnesina, comunque, come emerso anche dal recente viaggio africano (Gennaio 2010) del ministro Frattini, è proprio con l’Etiopia: L’Italia finanzia al 59% la diga di Gilgel Gibe e rappresenta il primo fornitore europeo di beni e servizi (e il terzo acquirente). Le mosse di Roma, guidate soprattutto da questioni contingenti (sequestro di italiani; presidio di acque territoriali e internazionali, come nel caso della lotta alla pirateria somala, appoggio a varie ONG…) mancano, ci pare, di una strategia di ampio respiro e dalle chiare finalità. Data l’estrema instabilità dell’area di cui ci siamo occupati, non sono da escludersi interventi internazionali volti ad instaurare, come è avvenuto in Irak e in Afghanistan, “libertà e democrazia”…

Visti i risultati, sarebbe auspicabile il momento di un interventismo italiano ed europeo non più al traino dell’ormai fatiscente repubblica a stelle e strisce, ma consapevole del passato storico, della dignità delle popolazioni locali e di tutti gli errori (e i crimini) commessi nel nome di astratte dichiarazioni di principio mascheranti inconfessabili interessi. 

Tratto da “Polaris – la rivista n.2 – STRADE D’EUROPA” – acquista qui la tua copia

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