Relazioni Internazionali

POSSIBILITÀ – Saltata Yalta torna infine l’Europa?

La questione dei rapporti euro-russi, e in subordine dei rapporti italo-russi, è un’ottima cartina al tornasole per valutare le contraddizioni di un’Europa che inizia a muoversi da sola ma che ancora non ha una precisa coscienza di sé stessa.

Il mondo contemporaneo nell’ultimo ventennio non è diventato unipolare, come ci si illuse a Washington, ma non ha nemmeno visto l’emergere di un nuovo assetto pienamente multipolare, non esiste ora nessun “concerto di potenze” multipolari e forse non esisterà mai

L’Europa difficilmente uscirà dalla propria crisi spoliticizzandosi o neutralizzandosi con un’ ideologia che la riduce a mero spazio di benessere economico e di diritti umani oppure con un identitarismo isolazionista e meramente difensivo che da solo non riuscirà a invertire la tendenza del declino europeo. 

di Andrea FortiLaureato in lingue orientali, studioso di relazioni internazionali, collaboratore di varie riviste geopolitiche

Le premesse dell’oblio dell’Europa

L’Europa ha celebrato da appena qualche mese il ventesimo anniversario del crollo del muro di Berlino e l’occasione è stata colta dai commentatori politici e dagli storici per riproporre le ennesime riflessioni su comunismo e anticomunismo, crisi del sistema sociale welfaristico dell’occidente e contemporanea crisi del modello economico liberista o per dibattere su quale sia il beneficiario ultimo del collasso del polo socialista sovietico, se il capitalismo, la democrazia, i diritti umani, la società civile, i paesi del “sud del Mondo” o le organizzazioni criminali internazionali, siano esse terroristiche o mafiose, più libere di muoversi in un mondo reso liquido e instabile dal collasso dell’“ordine di Yalta”.

Poco o nulla è stato accennato in Italia, almeno sui media mainstream, riguardo al problema politico aperto dal collasso fra il 1989 e il 1991 del campo socialista, secondo polo dell’ordinamento politico deciso a Yalta e Potsdam dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale, quello della perdurante assenza di una visione politica dell’Europa.

Il dato cruciale, ai fini di un discorso politico sull’Europa, del mondo bipolare durato dal 1945 al 1989 non è solamente la contrapposizione fra due modelli economici prima che politici ma il sostanziale oblio del continente in quanto entità politica, ridotta a potenziale campo di battaglia, tanto ideologico che almeno potenzialmente militare, della Guerra Fredda.

Nel lungo dopoguerra le uniche chances di rinascita europea potevano essere pensabili solamente presupponendo la completa integrazione del continente nel più vasto alveo delle nazioni “socialiste” o nel contesto di un “mondo libero” guidato dalla potenza liberal-democratica e capitalista americana, mentre la questione della sovranità politica continentale scivolava in subordine alle necessità dettate dalla contrapposizione ideologica, economica e militare fra i blocchi.

Il crollo di uno dei pilastri dell’ordine di Yalta fra il 1989 e il 1991, quello del socialismo reale, creò le precondizioni per il ritorno di una grande politica europea che tuttavia non si è ancora sviluppata secondo le proprie potenzialità, e questo per ragioni più interne all’Europa che per costrizioni esterne.

Vent’anni di transizione incompiuta

Se nel 1989-1991 è collassata una delle colonne del bipolarismo, l’Europa non sembra essere del tutto uscita da quell’oblio politico alla quale fu consegnata durante la Guerra Fredda, e questo nonostante si siano realizzate le premesse per una tale uscita.

Da vent’anni infatti assistiamo ad un lungo “dopo-guerra fredda” che vede mutare rapidamente e in modo affatto imprevedibile gli scenari geopolitici mondiali, creando equilibri, o meglio non-equilibri, caratterizzati dall’instabilità dei rapporti di alleanza e di scontro fra i vari poli di potenza mondiali e soprattutto dal carattere sempre più sfuggente degli “schieramenti” mondiali.

Il mondo dell’ultimo ventennio ha visto fallire le velleità unipolariste americane, che erano nate dall’illusione che il collasso del blocco sovietico si potesse tradurre sic et simpliciter in un’automatica investitura degli Stati Uniti a ruolo di potenza egemone mondiale.

Tale illusione unipolarista è con tutta probabilità più il frutto di errori di valutazioni da parte delle varie amministrazioni americane che non una reale e coerente “grande strategia” imperialista; da parte statunitense si sottovalutarono parecchi fattori, quali l’ascesa di potenze asiatiche come Cina e India, la graduale autonomizzazione dell’America Latina e, non da ultimo, il fatto che la Russia, liberatasi dal fardello dell’ideologia comunista e dopo i disastri economici e politici degli anni ’90, ha ritrovato grazie alla solida leadership coagulatasi attorno alla figura di Vladimir Putin una nuova dimensione di potenza, forse non più ai livelli del passato sovietico ma sicuramente in grado di muoversi con una libertà maggiore in politica estera.

Se gli Stati Uniti, non comprendendo appieno la vastità dei cambiamenti di scenario in atto, non sono riusciti a realizzare il sogno unipolare è però altrettanto vero che l’Europa non è ancora riuscita a sfruttare pienamente tali cambiamenti a proprio vantaggio.

Gli anni ’90 del secolo scorso hanno certamente visto succedersi iniziative politiche europee autonome, come l’unificazione tedesca, vista con sfavore da non pochi in occidente (basti pensare alle preoccupazioni in merito della signora Thatcher), e la formazione di un embrionale asse franco-germano-russo, culminato con il rifiuto congiunto delle tre capitali di partecipare alla guerra contro l’Iraq del 2003, ma anche disastrosi cedimenti, come l’incapacità europea di gestire i conflitti balcanici, risolti solo dall’intervento americano e con risultati certamente non favorevoli agli interessi europei.

Lo stesso asse Parigi-Berlino-Mosca emerso alla vigilia della guerra in Iraq ebbe comunque come elemento fondante non la volontà di creare un autentico e operativo asse politico, ma una semplice opposizione alle politiche unilaterali di potenza degli Stati Uniti di George W. Bush e un vago appello al rispetto delle risoluzioni dell’ONU; come è facilmente intuibile una politica basata su una negazione e non su di un’affermazione non può avere una solidità nel tempo e per questo il vagheggiato asse continentale non si realizzò mai del tutto, lasciando il passo alla più consueta dialettica dei rapporti bilaterali franco-russi, germano-russi e franco-tedeschi.

Il collasso del blocco comunista, il lento ma inesorabile declino della potenza americana e l’emergere dei succitati nuovi poli di potenza extra europei (Cina, India e Brasile, visto che la Russia è una parte seppur eurasiatica della civiltà europea) hanno senza dubbio consentito ai principali attori europei, Germania, Francia e Italia in primis, una certa autonomia di manovra in politica estera, come testimoniano il consolidarsi dell’asse germano-russo, franco-russo e italo-russo, volani del necessario riavvicinamento fra l’Europa e la Russia.

Tuttavia la ritrovata autonomia di alcuni governi del Vecchio Continente non sembra ancora tradursi in una cosciente riaffermazione di una volontà politica europea, ancora surrogata da una retorica europeista che non cessa di concepire l’unione continentale come un mero spazio economico, amministrativo e normativistico politicamente neutralizzato e privo di qualsivoglia identità, intesa sopratutto come progettualità e volontà di essere soggetto storico e politico attivo, che sta alla base di ogni unità politica umana.

L’allargamento ad est dell’Unione Europea è una mossa di per sé necessaria per aprire allo spazio russo, ma senza una precisa visione politica autenticamente europea tale processo ha creato fino ad ora più problemi che vantaggi, rendendo di fatto la politica orientale dell’Unione ostaggio delle dispute storico-politiche fra la Federazione Russa e i Paesi baltici – Estonia, Lettonia e Lituania – o delle rinnovate velleità egemoniche polacche sull’area che si estende dal Baltico al Mar Nero, ambizioni anacronistiche ma incoraggiate da scelte antirusse delle varie amministrazioni americane, come l’installazione di sistemi missilistici in Polonia e Repubblica Ceca, teoricamente in funzione anti-iraniana ma visti non a torto da Mosca come anti-russi.

La questione dei rapporti euro-russi, e in subordine dei rapporti italo-russi, è un’ottima cartina al tornasole per valutare le contraddizioni di un’Europa che inizia a muoversi da sola ma che ancora non ha una precisa coscienza di sé stessa.

Che Europa e Russia debbano collaborare e avvicinarsi pare un imperativo geopolitico fondamentale: solo collegando l’Europa centro-occidentale all’immenso retroterra russo-siberiano, per il Vecchio Continente è possibile cercare di tenere il passo con la crescita politica, ancor prima che economica, di colossi extra-europei.

Se è vero che l’Europa occidentale ha bisogno delle risorse energetiche e delle materie prime custodite negli immensi spazi russo-siberiani è altrettanto vero che la stessa Russia necessita per sviluppare la propria economia e per valorizzare le proprie risorse di ingenti investimenti esteri; la Russia potrebbe isolarsi dall’Europa ma solo a patto di affidarsi esclusivamente agli investimenti cinesi, una mossa assai azzardata e controproducente tenendo conto della pressione economica e demografica del gigante asiatico sui territori della Siberia orientale, tanto ricchi di materie prime quanto spopolati.

Eppure, di fronte alla questione euro-russa i commentatori politici nostrani esulano dal sottolinearne gli aspetti politici fondamentali per concentrarsi su quelli etico-formalistici o grettamente economicistici.

Così i commentatori di area “liberal” (inteso qui nell’accezione americana di “progressista”) condizionano l’avvicinamento euro-russo al rispetto dei “diritti umani” e degli standard democratici implicando così che qualsivoglia paese che li rispetti potrebbe in linea teorica considerarsi europeo. Da parte loro i media di area governativa elogiano l’amicizia fra Putin e Berlusconi ma sopratutto perché serve a “tenere buoni i nostri fornitori di gas”, quasi come fosse una riedizione della politica estera della DC, che pur professando e praticando l’atlantismo si concedeva, grazie ai buoni uffici del PCI, qualche lucroso affare con il “nemico” sovietico.

Ben pochi fra i commentatori di politica internazionale accennano alla necessità geopolitica fondamentale: quella di creare un grande spazio europeo aperto ad oriente e in grado di interloquire alla pari con poli di potenza extra-europei.

L’occultamento della politica europea è balzato agli occhi negli anni ’90, quando i sanguinosi conflitti balcanici furono presentati al grande pubblico non già come guerre fra interessi geopolitici contrastanti (la Croazia e la Slovenia aiutate da Tedeschi e Vaticano, i serbi da Russia e Francia e i musulmani bosniaci e kosovari da americani e sauditi) ma esclusivamente come il ritorno all’eterno male dei nazionalismi etnici centro-europei, ignorando, o volendo ignorare, che le leadership politiche delle varie parti in lotta erano figlie legittime dei sistemi e delle nomenclature comuniste.

Ancora una volta ad un’analisi politica venne preferito un approccio moralistico e ideologizzato, incapace di andare alla fonte del conflitto. 

Conclusioni: ritornare alla dimensione politica

Il mondo contemporaneo nell’ultimo ventennio non è diventato unipolare, come ci si illuse a Washington, ma non ha nemmeno visto l’emergere di un nuovo assetto pienamente multipolare, non esiste ora nessun “concerto di potenze” multipolari e forse non esisterà mai, data l’insopprimibilità del conflitto, che non si esprime necessariamente per via militare, fra gli interessi di differenti macro-entità politiche. 

Il mondo ha assunto un aspetto sicuramente plurale e tendenzialmente multipolare, ma tale evoluzione avrà con tutta probabilità l’effetto di rendere meno prevedibili gli stessi equilibri regionali e le stesse dinamiche delle alleanze: già negli ultimi anni abbiamo assistito al formarsi e al rapido disfarsi di alleanze – tanto formali che sostanziali – come quella fra Israele e Turchia, apparentemente solida negli anno ’90 e ora in crisi, ai rapidi voltafaccia geopolitici di piccoli e medi attori regionali, come i leader-dittatori delle repubbliche ex-sovietiche, schierati alternativamente con Mosca o con l’Occidente e sempre più sensibili alle sirene di Pechino, e infine al crearsi di nuovi assi geopolitici ed economici, come quello creatosi fra la Russia di Putin/Medvedev e la Turchia islamo-democratica di Erdogan, avversari geopolitici negli anni ’90 nel controllo dell’area caucasica e ora impegnati per risolvere congiuntamente i conflitti ancora aperti nel Caucaso (Armenia/Azerbaijan, Georgia/Ossezia e Abkhazia).

In questo contesto di rapida mutazione l’Europa sembra avere il fiato corto, divisa fra fedeltà ad alleanze politico-militari oramai in crisi di identità (come la NATO) e timidi esperimenti di politica estera autonoma, come le aperture alla Russia o i persistenti disaccordi con l’amministrazione americana su ambiente e gestione della crisi economica e finanziaria.

A differenza degli altri attori mondiali l’Europa, e soprattutto le leadership dei principali paesi europei (come Francia, Italia, Germania e Benelux, che ancora costituiscono la spina dorsale dell’Unione Europea), non sembra aver recuperato una propria coscienza di sé come soggetto politico operante e dotato di una visione strategica propria.

Un’Europa ancora priva di una dimensione politica, di una progettualità e di una volontà propria rimane totalmente impreparata anche a gestire i problemi legati ai flussi migratori, specialmente extra-europei, che stanno lentamente ma visibilmente cambiando il panorama etno-culturale del Vecchio Continente, un mutamento che già sta rimettendo in discussione concetti oramai dati per scontati come il significato della cittadinanza, fino a ieri di fatto coincidente con quello di appartenenza etno-culturale e religiosa.

L’Europa difficilmente uscirà dalla propria crisi spoliticizzandosi o neutralizzandosi con un’ ideologia che la riduce a mero spazio di benessere economico e di diritti umani oppure con un identitarismo isolazionista e meramente difensivo che da solo non riuscirà a invertire la tendenza del declino europeo. 

Tratto da “Polaris – la rivista n.1 – LA PRIMA VERA” – acquista qui la tua copia

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