Relazioni Internazionali

PULCINELLA NON HA SEGRETI – A proposito del G2 sino-americano, secondo i documenti di WikiLeaks

I “diplomatic cables” pubblicati da WikiLeaks coprono, per la maggior parte, gli anni fra il 2004 e l’inizio del 2010 e ci offrono un quadro assai chiaro.

Gli Usa restano ostili nei confronti della Russia e diffidenti verso l’Europa.

Non disdegnano affatto l’ipotesi di una spartizione mondiale con la Cina, anche se, in prospettiva, cercano di delimitarne le progressive avanzate.

L’astio verso Berlusconi nasce dal suo sostegno al progetto South Stream e alla politica energetica dell’ENI, giudicata troppo autonoma e non consona agli interessi americani.

di Domenico CaccamoProfessore universitario di storia dell’America del nord presso l’Università “la Sapienza” di Roma, già professore di lingue e storia dell’Europa dell’est

Dal momento che il maggior quotidiano d’America e quattro giornali europei hanno cominciato a pubblicare la corrispondenza delle ambasciate degli Stati Uniti col Dipartimento di Stato, centinaia di giornalisti e politici hanno commentato l’evento straordinario, valutando la portata delle rivelazioni. Evento straordinario, anche se non privo di precedenti: documenti confidenziali e segreti, sottratti all’archivio che avrebbe dovuto custodirli, sono stati offerti al pubblico: i giudizi della diplomazia americana sul conto di capi di Stato e di governo, i suggerimenti sull’atteggiamento da prendere nei confronti di grandi potenze come la Cina o la Russia, le considerazioni sulle conseguenze politiche della crisi finanziaria ed economica, tutto questo è oggi noto a chi doveva ignorarlo.

Sappiamo, così, che la classe politica americana vede la Russia postcomunista come un paese in declino, cui è lecito sottrarre la principale ricchezza di cui dispone (gas e petrolio), mentre vede la Cina come una potenza in ascesa, cui è necessario riconoscere una posizione di privilegio. Sappiamo che si svolge nell’Asia centrale, regione d’origine dei gasdotti che si diramano verso l’Europa centrale e verso la Cina, una nuova versione del “Great game”: non più fra l’impero britannico insediato in India e l’impero zarista in Siberia, ma questa volta fra Russia, Stati Uniti e Cina.

Non è Guantanamo

Prima ancora delle rivelazioni, vanno rilevati certi atteggiamenti preconcetti. I diplomatici, e con loro gran parte dell’America, nutrono verso la Russia di Putin un’avversione istintiva. Un cable del 27 febbraio 2008 è interamente dedicato alla condizione carceraria in Russia. Si basa su statistiche ufficiali e notizie attinte da organizzazioni non governative; ma anche su indagini compiute dal personale dei consolati americani, che aveva ottenuto di ispezionare le prigioni: alcuni funzionari si erano spinti perfino nell’isola estremo-orientale di Sachalin. Non c’è motivo di dubitare che le condizioni di vita nelle prigioni russe siano deprimenti. Ma gli osservatori americani vanno oltre. Chiudono ogni porta alla speranza: oggi le prigioni russe sono le stesse del gulag sovietico e della galera zarista, domani – suggeriscono – saranno ancora immutate. Il giudizio sulla società russa (poiché il sistema carcerario è l’indice di un livello sociale) esclude ogni prospettiva di miglioramento. Sulla stessa linea, le interviste di un diplomatico americano a due esponenti della cultura laica ed ecclesiastica della Russia postcomunista: l’una al vecchio Solzenicyn, ritirato nella sua dacia non lontano da Mosca, l’altra a un esponente della gerarchia ortodossa, il metropolita Kirill di Smolensk e Kaliningrad. Il diplomatico in visita rimane stupito e deluso di fronte al sentimento slavofilo dei due intellettuali, che avanzano riserve sullo stile di vita americano.

L’avversione concepita dall’ambasciatore Ronald Spogli contro la persona di Silvio Berlusconi non è altro che una manifestazione del contrasto USA-Russia. Berlusconi, infatti, è detestato a causa della sua amicizia con Putin, a causa dell’appoggio dato, insieme ai vertici dell’ENI, al progetto di gasdotto South Stream. L’ambasciata di via Veneto, come si legge nel rapporto di Spogli tanto spesso citato ma mai letto, incoraggiava l’opposizione del PD e la rivolta di alcuni elementi interni allo stesso partito del presidente del Consiglio, il PDL. 

Corte alla Cina

Per quanto negativa è l’immagine della Russia trasmessa dai cables, altrettanto positiva è l’immagine della Cina, la nuova potenza che ha sorpassato il Giappone e che si prevede, in un breve giro di tempo, salire al vertice della graduatoria mondiale. I rapporti da Pechino riferiscono cordiali conversazioni con diversi esponenti del partito e del governo, cauti nella valutazione della politica interna, ma sempre colmi di rispetto. Riguardo alle relazioni internazionali, i diplomatici americani vedono la possibilità di larghe intese. Una collaborazione sembra possibile sulla Birmania, chiusa al mondo e segnata dal conflitto tra potere centrale e minoranze etniche, sull’Indonesia, per la crescita economica, sulle Filippine, per un minimo di benessere. Non solo il fattore Cina viene riconosciuto come essenziale nell’area del Pacifico: anche le relazioni commerciali allacciate da Pechino con i Paesi dell’America latina e dell’Africa sono osservate senza allarme, con sereno distacco. L’ambasciatore Huntsman, che adesso ha interrotto il servizio diplomatico per concorrere alla nomination repubblicana in vista delle elezioni presidenziali, ha esaltato nel suo discorso di congedo l’intesa sino-americana.

I “diplomatic cables” pubblicati da WikiLeaks coprono, per la maggior parte, gli anni fra il 2004 e l’inizio del 2010: dopo il febbraio 2010 è cessato bruscamente il rifornimento di materiale proibito che il soldato Manning, o chi per lui, passava al fondatore di Wikileaks, lo hacker australiano Julian Assange. Il periodo 2004-2010 corrisponde al secondo mandato di George W. Bush e al primo anno di Barack Obama; i cables, dunque, gettano luce su un momento decisivo: sulla crisi finanziaria ed economica che ha annunciato il tramonto dell’American Century, l’avanzata dei paesi emergenti, il decollo di un mondo multipolare. La classe politica americana continua ad offrire il beneficio della sua leadership, ma in realtà avverte il mutamento e comprende che l’epoca del primato americano in campo economico e tecnologico è ormai conclusa.

La Cina si era imposta come detentrice di buoni del Tesoro americani e come mercato di sbocco per la produzione industriale degli Stati Uniti. La crisi finanziaria ed economica venuta in piena luce nel settembre 2008 ha stretto il rapporto fra le due superpotenze che si affacciano sul Pacifico: a una settimana dal fallimento della Lehman Brothers, la Casa Bianca s’impegnava ad informare il governo di Pechino sullo stato di salute del suo sistema bancario.

Questo nuovo rapporto di reciproca dipendenza ha prodotto un accostamento politico, tanto nel settore dell’Asia del Pacifico, quanto nel settore dell’Asia centrale. Sollecitati dal governo cinese, gli Stati Uniti hanno svolto una funzione di moderazione e mediazione, frenando l’indipendentismo di Taiwan e le manifestazioni più decise dell’orgoglio giapponese. Sull’altro fianco del continente Cina, nelle repubbliche già sovietiche dell’Asia centrale, un rapporto di concorrenza viene mantenuto fra Stati Uniti, Russia e Cina.

Lo illustrano due cables pubblicati da WikiLeaks, spediti dalle ambasciate di Bishkek (Kirghizistan) e Astana (Kazachstan) il 13 febbraio e l’8 giugno 2009. Secondo il primo di questi cables, il rappresentante cinese in Kirghizistan presta attenzione al collega americano, che lo sollecita a schierarsi dalla sua parte contro le insistenze esercitate dal collega russo per escludere gli Stati Uniti dal territorio kirghizo (di notevole importanza strategica per il rifornimento del fronte afghano); ma esita a prendere posizione contro la Russia, restando anzi disposto a riconoscerle una legittima sfera d’influenza regionale. Nel cable da Astana, è invece l’ambasciatore cinese a insistere sul collega americano, suggerendogli di approfittare delle difficoltà economiche che assillano la Russia, per sventare i suoi piani nell’Asia centrale e nel Caucaso. Il rappresentante degli Stati Uniti ad Astana è sensibile alle insistenze del collega cinese, col quale allaccia un rapporto stabile.

Europa e Africa

Un motivo non secondario di interesse, in questi documenti di WikiLeaks, è il loro linguaggio pragmatico e libero da motivazioni ideologiche. I diplomatici assicurano spesso la loro devozione ai valori dell’internazionalismo democratico, ma l’idea di doversi battere per portare la libertà ai confini del mondo, nel nome di una speciale missione americana, è estranea al loro spirito. Sembra esserci una differenza fra le dottrine dei presidenti americani e le convinzioni dei loro ministri. Ancora un carattere comune a questa documentazione: essa rende l’immagine di un personale politico generalmente mal disposto e sempre troppo esigente nel confronti degli alleati europei: non solo erano spiati i partiti della coalizione governativa in Germania, ma era svalutato perfino il contributo della fedele Inghilterra nella guerra afghana. Il gruppo dei diplomatici (la ”carriera”, si direbbe in Italia) sembra orientato da una miscela di spregiudicato realismo e di superiorità culturale. 

Quanto all’ultima grande impresa nella quale gli Stati Uniti sono coinvolti insieme alla Gran Bretagna, alla Francia e ad altri paesi più o meno riluttanti – la lotta contro i regimi autoritari dell’Africa del Nord – la corrispondenza delle rappresentanze a Tunisi, al Cairo e a Tripoli fornisce molte informazioni sul suo antefatto e autorizza qualche ipotesi sui motivi dell’impegno. Sappiamo che da Washington erano incoraggiati gruppi di oppositori anti-Mubarak, che i rapporti con Gheddafi, in un’altalena di scontri e pacificazioni, restavano sempre turbati. Il colonnello era preoccupato dall’istituzione dell’Africa Command, con cui il Pentagono riconosceva l’importanza del settore africano, a lungo trascurato, e metteva piede nel Continente Nero. Nel suo ultimo discorso di forte impegno, 19 maggio 2011, Barack Obama giustifica la sua politica africana come una politica di princìpi, e non di interessi, a sostegno di libertà fondamentali e di una transizione democratica. Al tempo stesso suggerisce una concezione geopolitica che distacca l’Africa settentrionale dall’Africa subsahariana, per aggregarla al Medio Oriente: è la stessa concezione di un “Greater”, o “Broader Middle East”, esteso dal Pakistan al Marocco, già coltivata da George W. Bush. 

E’ lecito pensare che l’impegno africano della Casa Bianca, giustificato nelle dichiarazioni ufficiali con una motivazione idealistica, risponda in effetti a un movente geopolitico: bilanciare l’espansione della Cina nella sezione meridionale del Continente Nero, assicurando la sezione settentrionale al dominio degli Stati Uniti e del cosiddetto Occidente. Se questo è vero, il progetto di una leadership sino-americana, suggellato da una spartizione dell’Africa (la seconda, dopo quella del 1885 alla conferenza di Berlino), sarebbe l’evento capitale dei nostri giorni.

Tratto da “Polaris – la rivista n.6 – FLUSSI E RIFLESSI” – acquista qui la tua copia

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