Relazioni Internazionali

L’ESTATE DELLE DOLCI PRIMAVERE – Il sottile gioco delle influenze nei Paesi del petrolio

Gli USA insistono nel favorire le incerte rivoluzioni colorate.

La Russia segna invece il passo mentre la Cina sta a guardare ma lo fa con un lungo respiro.

Il fascino dell’Occidente immaginario ed immaginato, il potere del soft-power e le riminiscenze ancestrali: un miscuglio caotico, ricco di contraddizioni, su cui giocano i players ma non si sa con quanta capacità di dominio delle dinamiche che, pure, gestiscono.

di Dario FabrisManager, agente di commercio in Russia e in Estremo Oriente

Una dolce aria di primavera continua a rinfrescare i climi aridi dei paesi della mezzaluna. Megafoni del cambiamento, i grandi network come Al-Jazeera, un’arma vincente delle petromonarchie nella resa dei conti atta a rovesciare le odiate classi politiche figlie del pan-arabismo. Un contributo all’innesco è stato dato anche dall’evidente pianificazione a tavolino dell’aumento sui mercati dei prezzi dei generi di prima necessità, antecedente agli eventi in questione. Operazione compiuta o meno, restano le incognite future: il ruolo che ha ed avrà l’Iran ad esempio. Gli atteggiamenti delle potenze in Siria, Russia in primis. Le future linee guida dell’Egitto e la spinosa questione palestinese. L’egemonia di Pechino nei traffici mediterranei. 

Il fascino del soft-power

Tuttavia, è comunque innegabile l’efficacia della strategia di soft-power: pur essendone noti i punti deboli, è impossibile resistere tra le nuove generazioni dei Paesi emergenti al fascino dell’Occidente. Un social network può dunque fare una primavera, divenendo l’ennesimo strumento di una strategia consolidata da lungo tempo all’insegna della persuasione. Come lo fu in maniera rilevante Radio Free Europe durante la Guerra Fredda. E’ lecito voler azzardare un paragone storico tra le forze armate egiziane e quelle portoghesi protagoniste di quel curioso evento chiamato Rivoluzione dei Garofani. Due eserciti fautori di golpe democratici, attuati con il beneplacito del partner strategico dominante, comune a entrambi:gli Usa. Se Kissinger dimostrò pubblicamente di mantenere una certa cautela sul 25 Aprile portoghese – preoccupato più che altro per una svolta pericolosa che non vi fu mai – questa è tutt’ora valida per l’Egitto.

La strategia del megafono colorato, oggi come allora, può rivelarsi un’arma a doppio taglio, nonostante l’esperienza di lunghi anni di attuazione, da ben prima dell’entrata in scena ufficiale di Washington nello scacchiere globale. Ricorda Alceste De Ambris: “Nel 1903 il capitalismo yankee aveva bisogno di ottenere dalla Colombia una concessione territoriale per costruire il canale di Panama…Un popolo imperialista della vecchia Europa, in un caso simile, avrebbe fatto una guerra brutale, antipatica, usurpatrice. Assai più modernamente, gli Stati Uniti fecero fare una rivoluzione elegante, simpatica, liberatrice”. (1) Una fiction infinita che non accetta epilogo. Con un nemico numero uno creato ed eliminato a seconda del copione del momento, sempre alla ricerca di nuovi volti da cattivi. Ma i rischi di default sempre più evidenti, porteranno ad inevitabili tagli nel casting ed al ridimensionamento degli sceneggiatori stessi? Chiuderanno gli studios? Il progetto unipolare secondo le profezie di Francis Fukuyama, non può attendere. E neanche gli allarmi delle agenzie di rating. Fortuna che i cattivi non perdono mai il vizio di accumulare i propri capitali in forzieri controllati dall’avversario: emblematico è il caso del Templare Gheddafi ed i suoi tesori congelati, lasciando così impersonare a Sarkozy il ruolo del Filippo IV di turno. Non è da meno l’Iran, con i beni delle Fondazioni custoditi proprio dagli emiri del Golfo – Dubai. Monitorare le aree calde delle primavere ha dei costi da campagna presidenziale. Non è da escludere un ritiro graduale dalle zone di guerra e lo spostamento dell’asse del male. Finanze permettendo ovviamente. Un altro disastro finanziario americano sarebbe insostenibile. E le recenti scelte della FED, non lasciano presagire nulla di buono.

Mosca e Pechino

Cosa si aspettano Russia e Cina dalla questione libica?Una guerra di logoramento della coalizione?L’ambiguità di Mosca e Pechino di fronte alle primavere di sangue, salvo gli appelli per il cessate il fuoco, appare disarmante. Subito dopo l’inizio delle operazioni in Libia, il tema del WTO è ritornato alla ribalta tra i media russi, ma stavolta nelle dichiarazioni positive da parte di Washington, confermate entusiasticamente in seguito dallo stesso Obama, autoproclamatosi garante per l’imminente entrata di Mosca, come confermato anche dalle dichiarazioni del Ministro Kudrin riguardo un probabile ridimensionamento dei tempi d’ingresso, concordato con la controparte americana e con l’auspicio degli altri paesi BRIC. Forse il neutralismo di Mosca nella questione libica potrà rivelarsi determinante in vista di future proteste in Georgia, magari agendo con il silenzio complice di Washington in caso di tumulti. Scelte che saranno definite anche dalle divergenze tra Putin e Medvedev, riguardo le prossime presidenziali.

Resta poi l’enigma cinese. E innegabile che sia in atto una strategia di contenimento della Cina. I suoi interessi sul Canale di Suez, sul petrolio libico e il monopolio delle merci e dei consumi in Nord-Africa, potrebbero vacillare. Svolte a parte, è certo che quei mercati non potranno emarginare Pechino. Ed in caso di disfatta definitiva di governi amici, come lo fu quello di Mubarak, è prospettabile un ingresso dalla porta secondaria come avvenuto in Iraq. O come sta già avvenendo in Sudan, ove il Dragone agisce mascherato nelle vesti di contingente di Peacekeeping proprio nel Darfur. Dell’identità del successore di Strauss-Kahn, ai vertici cinesi importa poco. Come si evince dalla stampa ufficiale, interessa più il ruolo che avrà la Cina nel Fondo ed una volontà manifesta di ottenere più poteri in campo decisionale, avendo già dimostrato di essere un sostituto esemplare: basti pensare al caso Argentina, vittima del ricatto finanziario, che con Pechino nel ruolo della creatura di Bretton Woods, ha ottenuto 20 miliardi di dollari vitali, concedendo così a Kirchner il lusso di snobbare il Fondo. Per ora la Cina continua imperterrita a seguire l’esempio della vecchia America, in quel disegno riassunto in una dichiarazione del Presidente americano Johnson, il quale affermava alla fine degli anni 60 che, oltre il 90% dei prestiti nordamericani a Paesi terzi, sarebbero stati adoperati da questi per effettuare acquisti negli Usa. Una linea destinata a continuare ancora per lungo tempo, a prescindere da nuove svolte del governo nella pianificazione economica interna. 

Non l’uomo a cavallo

Un altro ettaro del giardino di casa a rischio, dopo l’esito del ballottaggio presidenziale di giugno, è il Perù, che ha visto contrapposti l’etnocacerista Humala e la Fujimori, figlia del più noto Alberto, passato dagli altari del neoliberismo, alla polvere delle patrie galere. E’ chiaro il supporto di Washington alla Fujimori. Gli interessi in gioco nel Paese andino non sono solo di natura strategica. Come confermato da un cable dell’ambasciata Usa in Cile – da sempre egemone sul vicino peruviano – preoccupa l’influenza cinese in tutta l’area andina, un serpente nel giardino di casa. Il riscatto delle popolazioni andine di lingua quechua proposto da Humala, in una società dilaniata dalla violenza endemica e dalle disparità sociali, non sembra però trovare forti consensi tra la popolazione urbanizzata che sogna Miami. Humala non sarà di certo il Jaime Torrijos del romanzo “L’Uomo a Cavallo”, ma evoca agli occhi delle oligarchie i fantasmi di Sendero Luminoso, delle nazionalizzazioni ispirate al Plan Inca del Gen. Velasco Alvarado e le riforme di Chavez, nonostante le distanze prese da quest’ultimo siano evidenti, a favore di una politica più rassicurante e vicina a quella di Lula. Il ruolo svolto dalle sette evangeliche, sempre più diffuse tra le masse rurali andine, si rivela determinante. Come quello del Brasile. Che oltre ad esser il quarto creditore degli Usa, è reduce da un vertice trionfale con questi ultimi, tanto da scatenare numerose critiche tra i repubblicani ad Obama. Non è un caso che gli interessi dei gruppi industriali di Brasilia legati alla neo-presidente Dilma, si concentrino proprio in Perù, specie nell’area amazzonica, spesso accusati di perseguire politiche ambientali ed economiche alquanto discutibili nel paese andino. Dunque, una partnership importante e lucrosa, vero ago della bilancia elettorale.

1. Alceste De Ambris: La questione di Fiume- La Fionda. Roma 1920

Tratto da “Polaris – la rivista n.6 – FLUSSI E RIFLESSI” – acquista qui la tua copia

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