Relazioni Internazionali

NAZIONE O MAGMA – L’Italia tra passato, futuro e scomparsa

Oggi, dopo decenni di oblio e mistificazione del passato storico nazionale, di voluta rimozione di qualsiasi riferimento simbolico, di denigrazione sistematica dei momenti di dignità che pur gli Italiani (eredi della irripetibile e, per molti aspetti, suggestiva fusione fra Romani e Germani) hanno reso evidenti, l’Italia appare nuovamente essere un concetto geografico.

Appare il luogo di una guerra di tutti contro tutti, dove non esiste un “idem sentire” né un sentimento di unità profonda, dove lo Stato è percepito quale una specie di ente erogatore di danaro e onori, in mancanza dei quali potrebbe benissimo essere buttato alle ortiche.

di Giuseppe ScaliciDocente di storia e filosofia

Nel 1814, alla vigilia del Congresso di Vienna, il capo del Governo asburgico, Principe di Metternich definì, come è noto, l’Italia un “concetto geografico”. Non si può dire che avesse torto: infatti dall’anno 568 dell’era volgare, la penisola aveva perduto la propria unità all’interno dell’Impero di Roma, dividendosi in una parte longobarda e in una bizantina, con la presenza, al suo interno, di un potere temporale ecclesiastico, il Patrimonium Sancti Petri, consegnato al vescovo di Roma grazie alla falsa “Donazione di Costantino”. 

Bisognerà attendere il 1861 e il 20 Settembre 1870, per poter parlare nuovamente di un’Italia unita. Unita sotto l’egida di Casa Savoia, la meno “italiana” delle dinastie dell’epoca, in modo problematico e con pesanti ingerenze straniere. E le idee sugli abitanti dello stivale erano non poco confuse. Il Cavour conosceva soltanto parte del Nord; Massimo d’Azeglio ebbe modo di affermare che inglobare Napoli sarebbe stato per il “ liberale” Stato piemontese come unirsi ad un “lebbroso”. Di inferiorità dei popoli del Sud erano convinti non pochi scienziati “nordici”, come cesare Lombroso. Comunque, il 17 Marzo 1861, l’Italia acquisisce un’unificazione, ancorché non completa, come territorio delimitato da confini (una delle condizioni, non l’unica, individuanti lo Stato).

Ma esisteva una “coscienza nazionale”? Che cosa si può intendere con tale espressione?

Ci sembra che la questione sia stata focalizzata in modo definitivo da Giovanni Gentile in Genesi e Struttura della Società, opera scritta nel Settembre 1943, in un momento in cui la Nazione sembrava distrutta e perduta ma che, nel contempo, vedeva sorgere l’ultima stagione di dignità per il nostro popolo.

Scriveva il filosofo: “ La Nazione non è data dal suolo, né dalla vita comune e conseguente comunanza di tradizioni, di costumi, linguaggio, religione ecc. Tutto ciò è la materia della Nazione. La quale non sarà tale se non avrà la coscienza di questa materia e non l’assumerà nella sua coscienza come il contenuto costitutivo della propria essenza spirituale; e quindi non ne farà oggetto della propria volontà. La quale volontà, nella sua concreta attualità, è lo Stato: già costituito o da costituirsi; … Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la nazionalità. Che conquistando la propria unità e indipendenza celebra la sua volontà politica, realizzatrice dello Stato” (1).

La “nazione” non è dunque un quid di oggettivo che si acquisisce col semplice fatto di nascere in un determinato territorio. E’ un valore spirituale che determina l’agire dell’uomo interiore, a partire dalla sua coscienza profonda. Si fa parte di una Nazione quando si riconosce il primato logico dello Stato, che Gentile intendeva l’autentico Soggetto della dimensione politica, cogliendolo nella sua sostanza di concreta manifestazione dell’attività del Pensiero, che mai può cristallizzarsi in forme definite e conclusive. Il popolo, attraverso la Nazione, si realizza soltanto nello Stato.

L’Ottocento è stato il secolo, dunque, della ritrovata unità territoriale del Paese. Il 1861, però, vide soprattutto l’espansione del Regno sardo nella penisola e l’estensione della sua legislazione: fu una conquista più che la nascita di un nuovo soggetto storico. Il Risorgimento, come è noto, fu movimento di élites, non di popolo. Troppi secoli di disunione rappresentavano un fardello storico pesante.

Il problema della mancanza di una coscienza nazionale fu fortemente sentito, già in età rinascimentale (splendida e irripetibile per la riscoperta del mondo antico e della sua originaria visione del mondo, quanto decadente e miope dal punto di vista politico) dal Machiavelli. Nel Principe, il Cancelliere fiorentino auspicava una riscossa nazionale contro lo straniero invasore, per un’Italia che fosse “unita, armata, spretata”, opponendo un ottimismo della volontà ad un’amara e spietata considerazione razionale dello status quo. In un’epoca in cui si andavano rafforzando grandi monarchie nazionali, gli Italiani seguitavano a combattersi, con armi mercenarie, fra di loro, favorendo interessi stranieri. La forza di uno Stato risiede nell’unità sotto un capo riconosciuto, in grado, con la propria “virtus” di imporsi alla “fortuna”, cioè alle mutevoli circostanze esteriori. Già nel XIII secolo, l’Italia avrebbe potuto unirsi, riconoscendo la supremazia imperiale di Federico II di Svevia, il cui Liber Augustalis (1231) rappresenta la lungimirante prefigurazione dello Stato moderno e del suo superiore Diritto, che riprendeva quello di Roma eterna.

Ma l’unificazione, e quindi la nascita di una coscienza nazionale, della sua forza, dignità e tensione etica non fu possibile, in primo luogo per la presenza della corte papale, troppo debole per unificare la penisola, sempre secondo Machiavelli, ma, al contempo, troppo forte per permettere ad altri di farlo. Altra colpa del papato con i suoi “esempli rei”, come affermato nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, risiede nel fatto che gli Italiani si sono ritrovati “ sanza fede, sanza divozione, sanza religione”. E la questione non è solo di esteriore atteggiamento. La religione, con le sue istituzioni concrete, infatti, ha storicamente avuto la forza di plasmare il carattere dei popoli, al di là della stessa indole naturale. Il guelfismo, col suo richiamo, ancorché spesso strumentale e finalizzato alla tutela di interessi particolari, al primato politico papale, si presentò quale forza di dissoluzione-disgregazione strutturalmente analoga all’attuale mondialismo cosmopolita, distruggendo l’ideale ghibellino di Impero universale.

La famigerata “doppia morale” degli Italiani, così bene messa in evidenza dal Guicciardini, dallo stesso Machiavelli e, due secoli più tardi dal Leopardi (nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani), affonda le sue radici, ci pare, soprattutto nel clima psicologico determinato dal potere temporale ecclesiastico. Doppia morale che si manifesta come difesa di un’irreprensibile immagine pubblica cui non corrispondono affatto l’habitus interiore e l’effettivo comportamento pratico, mosso essenzialmente da egoismo, mancanza di un anelito finalizzato a superiori obiettivi, edonismo legato all’attimo. Ne consegue che l’impegno preso, la fedeltà ad un patto, valgano solo per il momento in cui vengono pronunciati. Quest’idea dell’Italiano infido, voltagabbana, senza onore, adulatore del più forte del momento, servile verso gli stranieri, è stata tragicamente un topos perdurante nei secoli e, purtroppo, tornata in voga oggi.

L’assenza di una coscienza nazionale e del senso dello Stato ha dunque delle precise cause storiche.

L’Ottocento, il secolo del Risorgimento, rappresenta, comunque una svolta. L’idea di una possibile rinascita nazionale era già presente nell’opera citata del Leopardi. Ma è soprattutto in Mazzini che si ritrova il progetto di trasformare le ancora anonime masse italiane in un Popolo consapevole del suo ruolo storico e della sua Missione, risvegliando, attraverso una continua opera di “educazione nazionale” le coscienze, abbrutite da secoli di sottomissione, soprusi e perniciose divisioni, sensibili solo a questioni di ordine materiale. Tale “educazione” era vista come premessa necessaria all’ “insurrezione” contro tutti coloro che, prìncipi e traditori vari, volevano la perseveranza dell’asservimento morale e materiale degli Italiani, la cui lotta avrebbe dovuto servire d’esempio ai destini degli altri popoli d’Europa. Va ascritto al merito del patriota genovese l’aver individuato un possibile primato nazionale, non subalterno rispetto ad esperienze rivoluzionarie straniere, in ispecie francesi, recenti o remote che fossero. Anche se sconfitto nel dominio storico concreto, fu proprio il Nazionalismo mazziniano ad essere ripreso a fine Ottocento e nei primi decenni del Novecento, ancorché in contesti geopolitici diversi.

Enrico Corradini sosterrà l’idea della naturale vocazione espansionistica dell’Italia unita “Nazione proletaria”; il mondo della cultura e delle arti (basti ricordare i nomi di D’Annunzio e Marinetti) esaltava la forza creatrice della Patria; la storiografia, con Gioacchino Volpe e molti altri, ricostruiva il passato storico italiano mettendo in luce i momenti di eroismo, di dignità nazionale, di originalità che pur non mancavano. L’interventismo nella grande guerra, vista come la quarta guerra d’indipendenza, e il Fascismo intesero portare a compimento il processo risorgimentale e fare della coesione nazionale indirizzata ad un fine superiore un dogma irrinunciabile, un’idea-forza permeante la vita dello Stato.

Oggi, dopo decenni di oblio e mistificazione del passato storico nazionale (2), di voluta rimozione di qualsiasi riferimento simbolico, di denigrazione sistematica dei momenti di dignità che pur gli Italiani (eredi della irripetibile e, per molti aspetti, suggestiva fusione fra Romani e Germani) hanno reso evidenti, l’Italia appare nuovamente essere un concetto geografico. Appare il luogo di una guerra di tutti contro tutti, dove non esiste un “idem sentire” né un sentimento di unità profonda, dove lo Stato è percepito quale una specie di ente erogatore di danaro e onori, in mancanza dei quali potrebbe benissimo essere buttato alle ortiche.

Ciò detto, appare irrinunciabile l’esigenza di un progetto di ricostruzione nazionale memore del passato e dei grandi esempi. L’alternativa è la resa incondizionata a quel magma “multiculturale”, anonimo e privo di ogni tipo di etica che è la realtà storica nella quale ci troviamo a vivere. 

1. G. Gentile, Genesi e struttura della società, Firenze, Sansoni, 1975, p. 75. 

2. Con la meritoria eccezione di B. Craxi, il quale, negli Anni ’80, volle riabilitare la memoria del Risorgimento e dei suoi fautori, Garibaldi e Mazzini. 

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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