Relazioni Internazionali

LIAISONS DANGEREUSES – Usa e Cina tra partenariato e conflitto

Dalle posizioni strategiche ai mercati globali, è in atto la competizione tra le due super potenze, per la prevaricazione e i tentativi di sorpasso una sull’altra.

Dall’ombra del palazzo imperiale di Gugong, fino alla foce del fiume Hudson, il vento contrario incomincia a farsi sentire.

Gli strascichi dovuti agli sforzi nelle operazioni di “disturbo reciproco” si quantificano con il crollo dei rispettivi PIL.

di Francesco Filippo MarottaEditore, consulente editoriale, studioso di storia e geopolitica

Se da una parte vige l’era di una tipologia di crescita negli scambi, parzialmente viziata da una suddivisione di relazioni concentriche, dall’altra si denota invece l’insana rivisitazione del sistema originario Occidentale: una reviviscenza fulminea, come già in passato è stata definita ma pericolosamente in avvicinamento alla soglia di un punto critico.

La causa-effetto è riconducibile all’azione volitiva dell’oligarchia, ad appannaggio di quei Paesi, prima zone esterne nel mercato e nelle prelazioni internazionali, ora fortemente avvantaggiati nell’accelerazione che scaturisce dalla concorrenza. La “Grande Muraglia” n’è un esempio, così come la Turchia, l’Africa, il “Nuovo Mondo” e le nuove macro-aree soggette ad un neo modello delle relazioni internazionali.

Porre innanzi l’assioma “libertà-sostenibilità“ dal forte accento unitario-collegiale è assai difficile. Lo insegnano le frontiere atte ad una politica di “social dumping” che scaturisce dalle frizioni, all’apparenza notevoli, tra i due maggiori referenti della globalizzazione in campo internazionale. L’apparato globale statunitense e la componente Cina sono un esempio emblematico in questo senso. Per le “tigri d’oriente” vi sono l’avanzamento e la protezione degli spazi di approdo, dove vi è la maggiore concentrazione di mezzi navali e commerciali sia in arrivo che in partenza. Criterio acquisito dall’antagonista e strettamente correlato alla controversia taiwanese. Un viatico necessario per innalzarsi a “sovrana” del raggruppamento asiatico, per rafforzare il proprio ascendente globale, anche nella “zona d’ombra” del Pacifico, utile alle proprie attitudini espansionistiche.

Il rapporto con gli Stati Uniti muta quando la prospettiva, di primaria importanza, diviene strettamente geopolitica. Le intenzioni “dell’Aquila di Mare” sono le medesime. Detto questo, anche se in apparenza l’azione americana pare solo contenitiva, in realtà nasconde invece concentrazioni militari nel cuore del Pacifico. Siamo forse di fronte ad un futuro conflitto dell’élite globalizzatrice?

Per ora, il mezzo con cui gli Stati Uniti, agli occhi dell’opinione pubblica, utilizzano il criterio di semplice “politica di confinement” è Pacom U.S. Pacific Command – uno dei 5 organismi facente parte dell’impiego omnicomprensivo dell’impegno militare degli USA – Pacifico, Asia Orientale cui si sono uniti Madagascar e diverse isole ad est del subcontinente africano – in passato molto attivo nelle trattazioni con realtà minori della suddetta area, lontano dai riflettori, con base operativa a Camp Smith nelle isole Hawaii – domicilio ufficiale di Pacom non distante da Pearl Harbour, che comprende nazioni come Thailandia, Vietnam, Cambogia, Filippine, Giappone e Corea del Sud. Meritevole di nota il duplice utilizzo dello stesso, per il rafforzamento, in rapporto ai collegamenti con le svariate entità del Pacifico, legato solo all’influenza decisionale di Washington, è diametralmente opposto al “metodo” della Nato, figurativamente, univoco tra i membri. In pratica, la massima “erudizione” del procedimento Rumsfeld, impiegato come sistema di “legittima difesa”, che porta in dote l’importanza della missione per poi dopo specificarne le alleanze e, mai, in senso contrario.

La Cina invece, per la sua mira espansionistica, adotta un orientamento volto all’attuale sistema di relazioni globalizzate, finalizzato ai propri interessi, incoraggiando il convincimento e l’opinione pubblica, per poi avvantaggiarsene.

I risultati incominciano a vedersi. Ecco riaffiorare la diatriba e le mire cinesi su Taiwan. In nome di un controllo politico per il mantenimento del sistema mercato globale: Pechino e Washington non possono permettersi di cedere terreno. Si spiega per ora, agli occhi di una cerchia miope dell’opinione pubblica, l’attuazione da parte delle due contendenti, impegnate in un’elusiva fase di distensione reciproca nell’area, solo per esercitare compressioni sul governo di Taiwan per evitare fughe oltre il bipolarismo – controverso se non quasi belligerante – americo-cinese.

Per ora l’importanza strategico-politica di Taiwan è di tale natura che né gli USA e tanto meno la RPC possono perdere una singola intuizione per facilitare i propri interessi e tanto meno l’autorità. La “santa globalizzazione” costa. Si denota nel riarmo militare cinese ma anche americano nel Pacifico Occidentale. La Cina acquisisce involontariamente “nozioni comportamentali dagli USA, per aumentare il proprio ascendente politico-militare più che mai economico nel quarto di cerchio dell’Asia orientale in ugual misura sud-orientale. Tale comportamento desta non poche perplessità da parte americana che dal 2006 ha preso le proprie contromisure per provare a rimuovere il crescente numero di nazioni compiacenti a Pechino all’interno del delicato scacchiere asiatico.

La via del Pacifico è ora di primaria importanza. La disputa continua anche nel campo dei nuovi settori verdi. Gli Stati uniti puntano a rafforzare la loro leadership nel settore, la Cina in controparte compie il massimo sforzo – operazione di disturbo USA con l’ausilio della Corea Del Sud – comprende più del 60% del totale delle elargizioni globali. Numeri da capogiro: la Cina ha dato in pegno 218 miliardi di dollari, gli Stati Uniti rispondono con 118 miliardi di dollari. Le danze sono aperte.

Dalle posizioni strategiche ai mercati globali, è in atto la competizione tra le due super potenze, per la prevaricazione e i tentativi di sorpasso una sull’altra. Dall’ombra del palazzo imperiale di Gugong, fino alla foce del fiume Hudson, il vento contrario incomincia a farsi sentire. Gli strascichi dovuti agli sforzi nelle operazioni di “disturbo reciproco” si quantificano con il crollo dei rispettivi PIL. I processi di supporto nazionali alle energie rinnovabili, i tanti provvedimenti per la riorganizzazione collettiva per la riduzione delle emissioni inquinanti, hanno minato in maggiore misura l’equilibrio monetario statunitense e solo relativamente l’apparato cinese. Per gli USA, il vecchio slogan coniato dal Presidente B. Obama, al grido: “Il Paese leader nell’economia dell’energia pulita sarà il paese leader nell’economia globale. E l’America deve essere questo Paese”, pare ad oggi il respiro di un grido dolente.

In contrapposizione, è evidente la capacità di intermediazione della “Grande Muraglia” con la Banca Mondiale, immettendo nuove risorse alla base di partenza prestabilita nell’XI Piano quinquennale della RPC, il quale prevede ulteriori incrementi economici per l’efficienza energetica di ben 290 miliardi di dollari. Lo “specchio per le allodole” del traguardo al 15% della propria energia principale, dalle sorgenti di energia rinnovabile entro il 2020, è solo pura utopia.

La Cina punta a divenire nel Pacifico il maggiore referente del “fare verde” nell’area, USA permettendo, salvo inaspettati capovolgimenti di fronte. L’importanza della grande “porzione di torta” del Pacifico occidentale, aumenta l’appetibilità e la concorrenzialità, perfezionando la destrezza delle due “consorelle”. L’apertura americana del forum economico finanziario Asia – Pacifico negli anni novanta, non è servito nel corso di un ventennio come freno inibitore alle aspirazioni celate o espresse della Cina. Come si è avuto modo di vedere, l’America dopo l’11 di settembre, prosegue con una nuova linea cruciale, non riconducibile al pericolo terroristico di matrice islamica nell’area asiatica. Bensì, il secondo raggio d’azione al fine della salvaguardia e irrobustimento delle logiche globalizzatrici nel Sudest asiatico.

Dunque, la matrice terroristica, la battaglia alle pandemie e la sicurezza nella regione, assumono il contorno definitivo di deboli rimedi universali, a proprio utilizzo. La giustificazione, alla richiesta esplicita alla massima cooperazione transnazionale all’interno del bacino Pacifico – Asiatico, viene completamente stravolta dalle priorità per l’assetto delle vie più utili al fabbisogno, confacenti al proprio ordine geoeconomico, geopolitico, mondiale e mercantile. Ci attende un 2011 ricco di novità ed evoluzioni in virtù del sistema mondiale in vigore dove “ Panem et circenses” può divenire un facile strumento di acquiescenza. 


Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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