Antropologia Sociale

FRAMMENTI D’IDENTITÀ – Reazioni sterili o sintomi d’innovazione ?

Non è affatto detto che una risposta identitaria funga necessariamente da anticorpo all’omologazione. Se l’identità diviene una specie di ridotto autocentrato, una sorta di trincea assoluta, se ovvero le sacche di identitarismo si chiudono in se stesse e si arrivano a configurare come monadi isolate, non si fa altro che finire con il rafforzare il movimento entropico, in quanto sostanzialmente la capacità di reazione al movimento dissolutivo resta isolata, incapace appunto di una azione di contrasto globale quale quella che i tempi richiedono. 

Se la globalizzazione, come dicono, è inevitabilmente nel nostro destino, sta a noi evitare che il suo segno sia puramente negativo, ed il primo passaggio è capire realmente e seriamente il funzionamento del mondo nuovo.

di Flavio NardiArchitetto e produttore discografico

La globalizzazione ha una direzione univoca? La domanda ha una risposta tutt’altro che immediata: verrebbe da rispondere con un “no” deciso, ma quanto è sotto i nostri occhi contraddice questo pensiero istintivo. Perché la tendenza al mondo unico, dominato dal puro divenirismo e posseduto dal demone di una economia slegata da ogni vincolo e legge, fa presagire scenari a senso unico sotto il segno della dissoluzione e del livellamento, verrebbe a dire dell’entropia. Ma è proprio così?

A venire inesorabilmente erosi e messi in crisi dalla globalizzazione sono innanzitutto i pilastri delle costruzioni umane degli ultimi due secoli, ovvero le identità nazionali, i concetti stessi di Stato Nazione, di sovranità, di cittadinanza e di rappresentanza politica, e le istituzioni classiche che li innervavano fino ad oggi. I singoli Stati impossibilitati di controllo delle proprie economie, resi schiavi da debiti pubblici senza limite – che si convertono in arma di ricatto dei poteri economico finanziari – incapaci di gestire la cultura, affetti quindi da una generalizzata perdita di sovranità e dall’impossibilità di controllare la ricchezza, sono destinati ad essere sempre più soggetti secondari, svuotati di potere reale.

Ed il discorso si trasla facilmente anche sul piano sociale e culturale.

Sociale, con la messa in discussione e la progressiva perdita di consenso dei riferimenti istituzionali classici, i partiti, i sindacati, gli ordini professionali, sempre meno credibili, sempre più arroccati in forme di autodifesa che rasentano la consorteria e che sempre meno assolvono pienamente una funzione “pubblica” a fronte dell’avvento di nuove forme aggregative “dal basso” sempre meno coese e centrate (vedi anche il diffondersi di una diffusa mentalità neotribale, cui non sono estranei anche alcuni aspetti interessanti).

Culturale, con il progressivo indebolimento qualitativo della conoscenza, sempre più superficiale e standardizzata, con istituzioni scolastiche svilite in logiche di apprendimento da polli in batteria dove, il sostituirsi dell’informazione “usa e getta” alla conoscenza di tipo classico, e la perdita di credibilità delle istituzioni scolastiche sono le naturali conseguenze.

A questo progressivo venir meno dell’effetto unificante di quelli che potremmo definire i “corpi centrali” che costituivano l’impalcatura del mondo pre-globalizzazione e che avevano una fondamentale funzione di mediazione e di connessione tra le realtà locali e la sfera globale, corrisponde, accanto all’entusiasmo dei pochi e all’apatia e all’indifferenza dei più, il farsi largo di sentimenti di smarrimento, insicurezza, sfiducia, disincanto, ed una crescente necessità di trovare nuovi riferimenti.

Da qui, accanto ad un’umanità omologata, sradicata e spesso ignorante, che la condizione del non-appartenere-a-nulla non sta certo portando a forme di “cittadinanza globale”, come pure qualche anima bella aveva preconizzato, ma piuttosto ad un nomadismo da anime in pena, con migrazioni di massa dagli effetti deflagranti, si alza il crescente rifiuto dello sradicamento ed il crescente successo dei fenomeni localistici e delle spinte neo-identitarie. Ed è qui che nasce anche l’interrogativo sul se e sul come delle identità degne di questo nome siano destinate a perpetuarsi e porsi come interlocutrici o piuttosto semplicemente a scivolare via nel gorgo della modernità ultima. Certo è che il bisogno di comunità e di identità non muore, anzi per certi versi si risveglia, prendendo talvolta connotati inaspettati.

Ma è proprio su “quale identitarismo” che vale la pena di spendere due parole.

Non è affatto detto infatti, come a prima vista parrebbe, che una risposta identitaria – che per sua natura nasce comunque dove ve ne è rimasta la possibilità – funga necessariamente da anticorpo all’omologazione. Se l’identità diviene una specie di ridotto autocentrato, una sorta di trincea assoluta, se ovvero le sacche di identitarismo si chiudono in se stesse e si arrivano a configurare come monadi isolate, non si fa altro che finire con il rafforzare il movimento entropico, in quanto sostanzialmente la capacità di reazione al movimento dissolutivo resta isolata, incapace appunto di una azione di contrasto globale quale quella che i tempi richiedono. Per evitare ovvero che gli identitarismi e le tendenze localistiche, si neutralizzino in una forma di solipsismo reattivo, diviene fondamentale una capacità di visione altrettanto globale, eguale ed inversa, che permetta lo sviluppo di un concetto di messa in rete di quelle che altrimenti rischiano di essere situazioni sostanzialmente sterili ed al limite dell’egoismo, ma anche deboli per le ridotte dimensioni e portata che rendono queste realtà inconsistenti di fronte al moloch di una economia sempre più acefala, deterritorializzata e finaziarizzata e apparentemente onnipotente, ma deboli anche rispetto alla risoluzione di problemi sempre più di scala planetaria.

Se ovvero la caduta dei corpi centrali e il progressivo svanire all’orizzonte delle prerogative dello Stato Nazione stanno lasciando campo libero a forze di tipo puramente economico, è comprensibilissimo che la reazione a questa tendenza si vada organizzando, andando in prospettiva a riempire i vuoti che si vanno creando, in primo luogo quello di autorità. Il problema, prima che pratico, è culturale e di visione: rispondere alla corrosione della dissoluzione innalzando palizzate e riparandovisi dietro non risolve il problema. Servono connessione e comunicazione e non solo: è necessaraia la capacità di andare oltre, di trovare punti di riferimento all’interno del caos livellatore stesso – che appunto è per definizione caos e quindi potenzialmente capace di contenere anche elementi positivi – e cercare di muoversi verso quelle tendenze passibili di tramutare il veleno in farmaco. 

Già si vede per esempio come l’allarme per la perdita generalizzata delle differenze sta creando una sensibilità diffusa tesa ad un sentire di salvaguardia e valorizzazione (speriamo non a livello museale) e generando tutta una serie di forme associative di tutela, spesso di carattere localistico ma non solo. 

Le stesse preoccupazioni sull’ambiente e sulla salute del pianeta, il nascere di una diffusa coscienza ambientale, le crescenti preoccupazioni nel mondo del lavoro rispetto agli spietati meccanismi della economia globale, stanno talora generando risposte interessanti, se pur confuse, che necessariamente vanno in alternativa – anche se non sempre con la necessaria coscienza – al modello di sviluppo globale ed alle feroci logiche mercatiste, che fino ad oggi paiono essere irreversibili. 

L’auspicio è che si arrivi in qualche maniera a gestire la globalizzazione ovvero a cercare di trarne una lezione ed un antidoto, a creare un sistema di contrappesi e ancoraggi che forse non fermerà lo tsunami, ma permetterà di individuare punti da tenere necessariamente fermi nella tempesta e con cui fare fronte alla cieca forza livellatrice; a partire dalla valorizzazione delle differenze e del “locale”, alla salvaguardia di standard minimi per esempio in tema di mercato del lavoro e di ambiente, ma anche di difesa delle leggi locali laddove evidentemente è la deregulation totale ad essere il male. Le differenze, le specificità, e il sentimento di doverle preservare dal processo di globalizzazione tornano ad essere tema forte, ed è il processo stesso ad imporre con sempre più chiarezza l’evidenza di questa necessità, laddove la prospettiva del mondo unico va perdendo consenso. Se la globalizzazione, come dicono, è inevitabilmente nel nostro destino, sta a noi evitare che il suo segno sia puramente negativo, ed il primo passaggio è capire realmente e seriamente il funzionamento del mondo nuovo.

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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