Riflessioni

VITTORIA! VITTORIA! – Da Vittorio Veneto si dipartono i gagliardetti della Rivoluzione fascista

Le tensioni interne dividevano l’Italia in due: da una parte coloro che chiedevano l’inizio di un’offensiva risolutoria e dall’altra coloro che spingevano per accettare qualsiasi offerta di pace avanzata dai nemici che potesse porre immediatamente fine alla lunga e terribile guerra.

di Pietro CappellariRicercatore storico

“Vittoria! Vittoria!”, con questo duplice grido lanciato da “Il Popolo d’Italia”, Benito Mussolini – uno dei più grandi interpreti dell’interventismo di sinistra – il 24 Giugno 1918, salutava il successo difensivo italiano sul Piave, che aveva stroncato il nuovo tentativo austro-ungarico di travolgere le linee e porre finalmente fine alla guerra su questo fronte. Le truppe del Regio Esercito avevano retto l’urto e, non di meno, erano riuscite a respingere ogni infiltrazione nemica al di là del “fiume sacro”. Lo “spettro di Caporetto” si era finalmente dissolto, si poteva guardare al futuro con speranza. Speranza che le potenti armate asburgiche potessero essere definitivamente cacciate dal suolo patrio: “Belluno, Udine, Gorizia, Trento, Trieste, Fiume e Zara attendono. Un coro enorme sembra levarsi da un capo all’altro della penisola: ‘Va’ fuori d’Italia, va’ fuori, stranier!”.

L’Italia divisa in due

Ma le tensioni interne, in quelle settimane, dividevano l’Italia in due: da una parte coloro che chiedevano l’inizio di un’offensiva risolutoria e dall’altra coloro che spingevano per accettare qualsiasi offerta di pace avanzata dai nemici che potesse porre immediatamente fine alla lunga e terribile guerra. La profonda divisione tra interventisti e neutralisti, dopo più di tre anni di guerra, non era certamente colmata. E le tensioni si fecero più forti quando in Settembre, sul fronte francese, i reparti germanici cominciarono a cedere. 

Il solco tra i due blocchi era destinato ad ampliarsi. E se si pensa che tra questi – minacciosi – si distinguevano i socialisti inebriati dalla vittoria della rivoluzione comunista in Russia, si ha un quadro esatto della situazione interna in quelle settimane di passione. Tanto più che, chi sapeva tastare il polso della popolazione, era consapevole che essa si stava orientando sempre più a sinistra. E di questo ne era cosciente la stessa CGL che, lungi dal seguire le sirene bolsceviche, si apprestava ad approntare una bozza di riforme sociali per “sbloccare” la situazione del lavoro una volta che la guerra fosse finita. In tutti si fece presente la necessità storica di un progresso sociale. Cosa che si scontrò subito con le parole d’ordine imposte dal PSI alle masse: “repubblica sovietica”, “dittatura del proletariato”. Che fare? Cosa sarebbe successo nel prossimo futuro?

La vittoria italiana

Intanto la guerra continuava. Caporetto, per gli interventisti, esigeva una risposta altrettanto furiosa, risolutoria. La vendetta degli Italiani, questa volta, doveva costituire un colpo di grazia per il secolare nemico. “Date presto una Caporetto agli Asburgo”, scriveva Mussolini alla vigilia della grande Battaglia di Vittorio Veneto (24 Ottobre 1918), certo che una sconfitta netta avrebbe per sempre piegato l’esercito austro-ungarico.

Che l’Impero asburgico avesse i giorni contati era evidente a molti, anche se il suo esercito rimaneva compatto. Tanto è vero che la grande offensiva italiana lanciata il 24 Ottobre dovette subito scontrarsi con una tenace resistenza, che frustrò tutti i tentativi di sfondamento: “Meglio così” – scriveva ancora Mussolini il 1° Novembre –, perché se si fosse vinto, tutti avrebbero potuto dire che “è l’Esercito della giovane Italia che schianta l’esercito austro-ungarico. È l’Esercito italiano che vibra il colpo di grazia all’unica istituzione che sia rimasta austro-ungarica: l’esercito nemico. È l’Esercito italiano che chiude la guerra con una avanzata trionfale. Così conquistata, la vittoria è bella, è italiana, è ‘nostra’!”. E così fu.

Aria di rivoluzione

Ma la vittoria italiana – secondo le promesse degli interventisti di sinistra – doveva portare con sé una rivoluzione. E le monarchie che crollavano, i nuovi Stati che sorgevano, gli equilibri internazionali che si ridisegnavano, davano a tutti il senso di questa rivoluzione. 

Mussolini, l’11 Novembre, rilanciava la necessità che la vittoria – dopo aver consacrato l’Unità d’Italia, il raggiungimento dei confini già indicati da Dante – realizzasse “anche i fini interni di guerra”, ossia la “redenzione del lavoro”: “Il lavoro dev’essere redento dalla speculazione e dalla miseria”. La guerra doveva avere un contenuto “sociale interno”: le masse dei soldati che tornavano dalle trincee non dovevano essere abbandonate a se stesse. 

Il Direttore de “Il Popolo d’Italia” non si limitava ad evidenziare le necessità nazionali, ma indicava, quindi, cosa la guerra avrebbe dovuto portare nel mondo: “Ecco la pace come noi la volemmo: vittoriosa. Ecco la pace come noi la vorremo: giusta. Ecco la pace che reca in una mano l’olivo e nell’altra l’edera repubblicana”.  

Il trionfo italiano a Vittorio Veneto, che portò alla firma dell’armistizio di Villa Giusti (3 Novembre 1918) e alla fine della guerra, fu solo la premessa di un evento epocale che passò alla storia come Rivoluzione fascista. In quei giorni si ritrovano essenzialmente tutte le tematiche, quei “flussi della storia”, che saranno i protagonisti del nuovo anno che si apriva per la nostra Nazione sotto i più grandi auspici. Non solo il definitivo consolidamento dell’Unità nazionale – sia in senso materiale, che spirituale, di popolo diremo – ma anche la visione di un domani migliore, di una nuova era di prosperità che si apriva per gli Italiani. In tutti era presente questa visione, questa alba. Un’alba certamente rivoluzionaria, in cui molti cominciarono a vedere il “sole rosso” dell’avvenire socialista. 

Il primato e la missione

E quella divisione tra neutralisti ed intervenisti, presto divenuta divisione tra “rinunciatari” ed “imperialisti”, e poi tra sovversivi e nazionalisti – e più correttamente tra anti-Nazione e Nazione – nata per l’appunto nelle “radiose giornate” di Maggio 195, sarà caratterizzante di tutto un periodo storico che va dal sorgente Biennio Rosso (1919-1920) alla conseguente reazione fascista (1921-1922) che terminerà con la presa di Roma da parte delle milizie armate del PNF di Mussolini. 

Ma non solo. In quelle settimane si posero le basi delle rivendicazioni italiane – già “assicurate” dal Patto di Londra – grazie proprio alla vittoria “tutta italiana” di Vittorio Veneto, che consacrò nel sangue le legittime aspirazioni della giovane Nazione italiana. Non solo – ovviamente – il raggiungimento dell’agognata e sospirata Unità nazionale, ma l’adempimento di un’altra – e ben più importante – promessa del Risorgimento, quella di costruire una Nazione in grado di esercitare un “primato” ed attuare una “missione” nel mondo. E la disillusione per i rifiuti degli alleati anglo-francesi e dell’associato statunitense alla realizzazione dei diritti italiani provocò una frattura non solo con l’ordine internazionale dei “scari principi” – che garantivano solo l’ingordigia altrui –, ma anche con l’ordine interno demo-parlamentare. Una crisi dal quale scaturirà poi, non solo il fascismo, ma anche un altro fenomeno tipicamente diciannovista: il fiumanesimo. 

Questo è quello che insegna e disegna Vittorio Veneto, inserendo nella storia d’Italia quella rivoluzione che si vorrebbe estranea ed aliena alla cultura nazionale, ma che – invece – di quella cultura fu interamente figlia. 

Tratto da “Polaris – la rivista n.21 – L’ITALIA DELLE TRINCEE” – acquista qui la tua copia

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