Riflessioni

METAFISICA DELLA TRINCEA – Julius Evola e la Guerra

Si tratta di un equilibrio dinamico fra il distacco dalle cose terrene e la volontà di agire in senso pratico-operativo nel mondo, a tutti i livelli. 

Tale è la via, già indicata dalla tradizione indoeuropea, del guerriero. 

Guerriero come Arjuna, l’eroe della Bhagavadgita, il quale è spinto dal divino, impersonato da Krsna, a combattere, senza scrupoli o debolezze, seguendo la Legge interiore del proprio essere e, si potrebbe dire, del proprio destino, senza curarsi di vittoria o sconfitta, senza guardare a possibili utili personali, senza pensare alle conseguenze dell’azione stessa. 

La dignità profonda, infatti, non ha a che fare con il successo o l’insuccesso nella dimensione dell’essere condizionato.

di Giuseppe ScaliciDocente di storia e filosofia 

Alle origini del pensiero d’Europa, preferiamo far riferimento al nostro orizzonte e non al cosiddetto Occidente, Eraclito di Efeso (VI-V sec. a.e.v.) proclamava con autorità:

“Polemos [la guerra] è padre di tutte le cose e di tutte re; e gli uni disvela come dèi e gli altri come uomini, gli uni fa schiavi, gli altri liberi (1). Guerra non come mero esercizio di violenza finalizzato alla distruzione di un nemico, tale essendo la concezione moderna, ma quale principio primo, ipostasi [ciò che ‘sta sotto’ e che determina la dimensione transeunte dell’apparire fenomenico]. Il conflitto, dunque, riguarda sia la sfera degli eventi storici ‘oggettivi’, analizzabili attraverso metodologie scientifiche, sia, e vorremmo dire soprattutto, la dimensione interiore profonda di ogni individuo. Dove è assente Polemos vi è stasi, fissità, condizioni che prefigurano la morte, l’annichilimento, la fine di qualsiasi tipo di riferimento ulteriore, di qualsivoglia ‘altrove’”.

Una dimensione trasfigurata ed essenziale

Nella complessa vicenda spirituale di Julius Evola, la riflessione, certamente non astratta o intellettualistica ma intesa quale Erlebnis [esperienza vissuta], occupa una posizione di particolare rilievo e non è limitata all’imporsi di particolari situazioni contingenti.

Ne Il cammino del cinabro (2) troviamo, ancorché non nei termini di una semplice rievocazione memorialistica o reducistica, la rivisitazione spirituale relativa alla partecipazione del filosofo alla Grande Guerra italiana del 1915-1918, intorno alla quale, quanto meno da un punto di vista strettamente storico-oggettivo, il suo giudizio sarebbe stato, come espresso in anni successivi, non propriamente lusinghiero. Il primo conflitto mondiale, infatti, a causa di una superficiale esaltazione nazionalistica, aveva distrutto l’ethos, sostanziato da ordine, spirito gerarchico e di disciplina, degli Imperi centrali, determinando così un’ulteriore tappa della decadenza della Civiltà d’Europa, strettamente collegata al suo allontanamento da quella condizione “normale”, spirituale e orientata verso il dominio trascendente la sfera umana, configurazione tipica del “mondo della tradizione”.

Evola, allora giovanissimo sottotenente di artiglieria da montagna, impiegato con il suo reggimento sul fronte di Asiago (1917-1918),  ancora in via di formazione interiore-spirituale,  vive l’esperienza di guerra nel senso più  coinvolgente del termine, pur non essendosi mai trovato, come egli stesso avrebbe avuto modo di scrivere, in situazioni estreme di combattimento, paragonabili, ad esempio, a quelle vissute da un altro grande del Novecento: E. Jünger. Ciò nonostante, il periodo trascorso al fronte rappresenta, per il filosofo romano, l’apertura di una dimensione trasfigurata ed essenziale, che solo il contatto diretto con la “possibilità” ultima e definitiva, la morte, può determinare in modo indelebile.

Roberto Melchionda, nella sua Introduzione agli scritti evoliani del periodo 1935-1950 intorno al valore metafisico e metastorico della guerra (3), mette in evidenza un testo del filosofo scritto per la Rivista UR, con lo pseudonimo di Jagla, risalente al 1928: si tratta di un ricordo di guerra indicato dall’Autore come “Quota neutra del Cimone1917”, ma i riferimenti spazio-temporali appaiono del tutto irrilevanti.

“[…] un ricordo che non si cancellerà mai, quello di una notte di guerra. Ero molto lontano, nel distacco lucente. L’allarme, ad un tratto. Mi riafferro. Sono in piedi. Sono sulla linea delle batterie. Che cosa allora si scatenò nel profondo, che cosa mi resse, che cosa mi portò miracolosamente in ore d’inferno, che cosa agì nella lucidità soprannaturale di ogni gesto, di ogni pensiero, di ogni ordine, dei sensi che afferravano ogni percezione prima della percezione (e “caso” sia pur stato il restare illeso rimanendo in piedi – sentivo che potevo restarvi – con granate che scoppiavano vicino) non lo saprei mai dire. Ma che cosa potevano essere gli dèi omerici immortali discesi in seno alle sorti epiche degli uomini, allora certamente lo adombrai; e seppi ciò che non sanno, gli uomini, nel loro povero parlar sugli idoli (4)”.

La guerra come via verso l’illuminazione

Non risulta certo semplice per chiunque, compreso ovviamente chi scrive, non abbia vissuto esperienze esistenziali estreme del genere, comprenderne appieno la portata.

Si può, in ogni caso, intuire un riferimento di primaria grandezza: mentre per il pensiero dominante la filosofia occidentale, almeno fino all’Ottocento, viene postulata la preminenza dell’anima rispetto al corpo, si nota, nel ricordo “trasfigurato” del diciannovenne Evola, l’intuizione, resa attraverso l’uso di espressioni non “razionali”, dell’idea di una strettissima compenetrazione fra anima e corpo, idea, a ben guardare, non estranea alla Weltanschauung originaria europea, presente nella speculazione pre-socratica e ripresa da altre rilevanti correnti di pensiero (5). La percezione del mondo esteriore, afferma Evola, avviene “prima della percezione” stessa. Di fronte all’elementare, la rassicurante dimensione della ratio vien meno. E non vi sono parole adatte a descrivere quello stato dell’Essere. Colui che è immerso in modo totale nel conflitto-polemos è soggetto ad una sorta di illuminazione interiore di tipo “decisivo”. Anche continuando a vivere, non si tratterà più della medesima, ordinaria e tranquilla esistenza da “borghese”, ma accadrà qualcosa di assolutamente “altro”. Nulla sarà più come prima.

Tutto ciò vale, in primo luogo, per l’individuo “differenziato”, come affermerà lo stesso Evola, in anni cronologicamente lontani dalla Grande Guerra: vale per colui che, fuori da ogni retorica, può esser definito “eroe”. Ma, in qualche modo, tale trasformazione interiore, può essere riscontrata anche a livelli più bassi, se pensiamo all’incapacità del reduce, del sopravvissuto ai campi di battaglia, di riadattarsi alla dimensione vuota e ripetitiva del vivere civile.

In altri termini, per chi ha vissuto profondamente l’esperienza di guerra, non vi potrà essere mai più una situazione di pace.

Tornando col pensiero all’immane conflitto, in un altro articolo comparso su UR nel medesimo periodo, Evola-Jagla ebbe a scrivere:

“Andai adunque incontro alla morte. L’ambiente psichicamente saturo di guerra e di altezza propiziò l’avventura, e forse le dette una direzione che altrimenti non sarebbe riuscita. Passai oltre (6)”.

La guerra, dunque, se vissuta in termini non legati a situazioni contingenti, può rappresentare, nella sua elementarità spietata, una via verso l’illuminazione, nel senso del superamento e della trasfigurazione del vivere immediato. Il “passare oltre” è, crediamo, verso quella dimensione che il filosofo avrebbe definito “più che vita”. Si impone, quindi, il dominio della prospettiva “verticale” di contro a quella “orizzontale” degli individui comuni, che pure, in condizioni eccezionali, possono porre in essere comportamenti esteriori di eroismo, ma del tutto inconsapevolmente.

L’equazione personale

Fuor di dubbio, l’illuminazione, nel senso di “risveglio” di ciò che è profondo, riguarda la parte essenziale-autentica dell’anima, quel Grunt der Seele cui alludeva il grande mistico tedesco Meister Eckhart nel XIV secolo. Si tratta, altresì, dell’uscita dalla condizione ordinaria, bassa e ripetitiva del vivere per collegarsi spiritualmente alla “trascendenza”. L’«avventura» verso la Visione del mondo che Evola avrebbe maturato e consolidato nel periodo fra le due guerre, nacque proprio sui campi di battaglia.

Nel Cammino del cinabro l’Autore indica quell’«equazione personale», intuita fin dall’età più giovane, che avrebbe contrassegnato l’intero suo esistere. Si tratta di un equilibrio dinamico fra il distacco dalle cose terrene e la volontà di agire in senso pratico-operativo nel mondo, a tutti i livelli. Tale è la via, già indicata dalla tradizione indoeuropea, del guerriero. Guerriero come Arjuna, l’eroe della Bhagavadgita, il quale è spinto dal divino, impersonato da Krsna, a combattere, senza scrupoli o debolezze, seguendo la Legge interiore del proprio essere e, si potrebbe dire, del proprio destino, senza curarsi di vittoria o sconfitta, senza guardare a possibili utili personali, senza pensare alle conseguenze dell’azione stessa. La dignità profonda, infatti, non ha a che fare con il successo o l’insuccesso nella dimensione dell’essere condizionato. 

Sulla Bhagavadgita Evola sarebbe ritornato, fra il 1935 e il 1942, in occasione di una serie di articoli, cui prima si accennava, sullo spirito della guerra e del combattere, scritti per Diorama, supplemento settimanale di Regime Fascista, il quotidiano di Farinacci, e per La difesa della razza di Telesio Interlandi (7). Il tentativo di Evola, evidente anche nella celebre Conferenza in lingua tedesca: Die Arische Lehre von Kampf und Sieg (8) ,era quello di distinguere, nel nome di una coerenza nei confronti dei princìpi originari degli Indoeuropei, gli aspetti contingenti, transeunti e profani del conflitto, legati alla condizione materiale e decaduta dell’esistere, da ciò che è valore immutabile ed eterno e, come tale, in grado di orientare ogni azione. È la condizione interiore spirituale ciò che porta la volontà dell’individuo a combattere anche su posizioni perdute: da eroe dunque.

Nei testi citati il filosofo fa altresì riferimento alla distinzione, presente nella tradizione islamica, fra piccola e grande guerra santa. Se la “piccola guerra” è quella materiale-esteriore, che non può prescindere da considerazioni d’ordine politico e dall’alleanza con altri individui; la “grande guerra santa” è sostanziata dal retto sforzo (jihad) rivolto contro le tendenze negative, degenerate e passionali tese a forviare il combattente. Fondamentale è l’idea di portare a livello di piccola guerra lo spirito della grande. Tutto avviene a livello di un’interiorità che, in ogni caso, non si piega a forme di mera e passiva contemplazione del Vero e dell’Assoluto. Se di ascesi si tratta, nel senso di rifiuto di ogni forma illusoria deteriore, tale ascesi è rivolta all’agire concreto. Quindi risulta centrale, secondo Evola, riattualizzare nel tempo presente un ethos il cui valore s’impone ad ogni contesto fattuale.

Una guerra dai caratteri profani

Tali posizioni evoliane, conformi a dottrine sapienziali tradizionali, furono sostenute in modo coerente, sia durante il periodo fascista, sia nei decenni successivi alla Seconda Guerra Mondiale (9).

La ferma volontà di azione di Evola risulta evidente e lineare. È nota la sua richiesta d’essere inviato al fronte come volontario allo scoppio della seconda guerra, richiesta respinta in quanto il filosofo non risultava iscritto al PNF, così come non chiese la tessera del PFR. Ciò nonostante Evola, anche dopo l’otto settembre continuò la sua battaglia contro le forze della sovversione. Pur non riconoscendosi negli ideali socialisti del riorganizzato Fascismo, volle dare il proprio contributo fattivo in una guerra che ormai si sapeva destinata alla sconfitta sul piano materiale. Presente al Quartier generale di Hitler a Rastenburg, accolse, insieme ad altre personalità che non avevano rinnegato il Regime, Mussolini dopo la liberazione di campo Imperatore.

Impegnato, poi, a Roma, dove riuscì, in extremis, a sottrarsi all’arresto da parte dei servizi segreti statunitensi subito dopo l’occupazione della città (10) lo ritroviamo a Vienna in contatto con circoli tradizionalisti tedeschi immerso nello studio della massoneria internazionale e delle sue trame. Emblematico, a sostenere l’atteggiamento spirituale di Evola, l’episodio del gennaio 1945. Il filosofo uscì tranquillamente dalla sua abitazione durante un bombardamento, quasi a voler sfidare, con eroico distacco, il fato. L’onda d’urto di una deflagrazione gli procurò una paralisi irreversibile, agli arti inferiori. Evola affrontò con serenità la situazione, consapevole di poter portare avanti comunque, come avrebbe dimostrato fino al momento della  morte, avvenuta nel 1974, la sua rivolta contro il mondo moderno.

Pensiero e azione, dunque, sono polarità perfettamente sintoniche in Evola, unite ad una capacità straordinaria di comprendere i caratteri morfologici della borghesia trionfante e dell’età presente, dominata dall’apparato scientifico-tecnologico. Anche la guerra, nel mondo moderno, assume caratteri profani, utilitaristici e materiali.

Tutto il resto è orpello retorico.

Ma, da un certo punto di vista, anche in situazioni di pace apparente, vengono utilizzati, da parte delle dominanti oligarchie liberiste, in termini strumentali e in scenari degradati, testi e dottrine del passato che si occupano di guerra, confondendo artatamente i mezzi con il fine, le cause con gli effetti, la tattica con la strategia. E’ il caso, a titolo d’esempio, dell’Arte della guerra del generale cinese Sun Tzu (VI sec. a.e.v.), opera oggi utilizzata dalle scuole di “management” americane (11).

Ha ancora senso, nell’attuale “società liquida”, riferirsi alla Weltanschauung di Evola?

Ci sembra del tutto utopistico pensare alla possibilità d’esistenza di un fronte in grado di opporsi alle forze della dissoluzione: e di ciò Evola era perfettamente consapevole (12)

Tuttavia, a livello di singoli individui, rimane inalterata la potenzialità di una trasformazione interiore, dell’acquisizione di una distaccata consapevolezza, che nessuna corrente del pensiero dominante potrà scalfire.

1.   Fr.53, Diels-Kranz.

2.   J.Evola, Il cammino del cinabro, a cura di G.de Turris, Roma, Ed Mediterranee, 2014. La prima edizione risale al 1963. 

3.   J.Evola, Metafisica della guerra, Padova, Edizioni di Ar, 2001.

4.  Ibidem, p. 16. Tale ricordo di guerra non compare nel Cammino del cinabro.

5.   Alludiamo, a titolo d’esempio, alla Scuola di Epicuro, ripresa in ambito romano da Lucrezio; alla tradizione ermetica, alla visione del mondo rinascimentale riferibile soprattutto a Giordano Bruno. Certamente, però, l’intento evoliano non era di ordine storico-filologico. 

6.   J.Evola, Metafisica della guerra, cit., p.22.

7.   Tali articoli sono ora raccolti nel citato Metafisica della guerra.

8.   La dottrina aria di lotta e vittoria. Tale Conferenza risale al dicembre del 1940. Si tenne a Roma presso il Kaiser Wilhelm Institut di Palazzo Zuccari a Roma.

9.   Detto per inciso, Evola rappresenta l’antitesi rispetto alla disinvoltura ideologica ed etica degli innumerevoli “intellettuali” italiani e non, prontissimi a modificare la propria visione del mondo a seconda del potente di turno.

10.  Cfr. G. de Turris, Julius Evola. Un filosofo in guerra, Milano, Mursia, 2016, passim.

11.  In modo analogo, alcune discipline spirituali dell’Oriente antico, quali lo yoga e lo zen, “servono” ad affrontare meglio la vita quotidiana. Primario, dunque, è il dominio su ciò che è esteriore, rispetto ad una formazione interiore rivolta a stati superiori d’esistenza. 

12.  Si pensi ad una fra le sue opere più significative del secondo dopoguerra: Cavalcare la tigre, pubblicata nel 1961.

Tratto da “Polaris – la rivista n.21 – L’ITALIA DELLE TRINCEE” – acquista qui la tua copia

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