Riflessioni

LA RIVOLTA DEL MONDO MODERNO – Ovvero il tramonto del tramonto dell’Occidente

Uno degli effetti positivi che può avere la crisi è lacerare il velo di intontimento che ci ha avvolto per decenni di finto benessere.

Crisi dunque come coscienza della propria condizione di malattia spirituale. Crisi come giudizio da affrontare, come drammatico punto della situazione. Tornare a porsi questioni di tipo pressante, immediato.

La crisi non è solo economica. La crisi è totale. 

È anche soprattutto crisi cognitiva, della percezione di noi stessi e del nostro modo di vita.

di Flavio Nardi – Architetto e produttore discografico

La crisi economico finanziaria nel 2008 si è andata rivelando come una delle più gravi di sempre, al punto da poter essere considerata una vera e propria crisi di sistema.
Ovvero l’elemento economico che dalla finanza ha velocemente coinvolto tutta l’economia reale si è  andato rivelando sì come elemento scatenante ma ha finito con il puntare l’indice sulle molte contraddizioni insanabili che un certo “benessere” aveva finora occultato, mettendo così a nudo la sostanziale fragilità  – nonché la natura intrinsecamente menzognera – del cosiddetto modello di sviluppo occidentale.

In anni passati si è spesso parlato di crisi congiunturali, temporanee, destinate a risolversi nel sistema stesso. Su questa in particolare sono oggi sempre più numerose ed autorevoli le voci che parlano di crisi strutturale.  Ciò su cui si dibatte a fronte di evidenze che ormai paiono sempre più innegabili e macroscopiche è dunque il modello. Quel modello che ovvero ha fatto della follia di un progresso indefinito la sua bandiera e dell’economia il suo motore. Che ha considerato come potenzialmente infinito l’uso di risorse finite, che si è privato del cuore e dell’anima per inseguire le brame del ventre.

Quello che ha dato ad ora la peggiore più sbagliata interpretazione del nicciano “Dio è morto” abbandonandosi al saccheggio indiscriminato di risorse, di beni, di destino, per consegnarci una umanità addormentata, narcotizzata, istupidita, priva di sogni e di virtù.

Crisi di sistema

Questo il vero senso della crisi del 2008, ed il brivido che corre tuttora sulla schiena non è quello della fine dell’Occidente, che nel suo senso più  profondo  è  già avvenuta da un pezzo, ma della fine del modello occidentale. Di questo, nel meraviglioso “west” euroamericano se ne stanno accorgendo in molti proprio nel momento in cui il modello occidentale dilaga in quei Paesi emergenti che di questa crisi sentono gli effetti in  minima parte. Con il dubbio effetto che quel male che ha  determinato la crisi non venga globalmente avvertito e riconosciuto, il che nel mondo globalizzato non potrà che avere conseguenze di ulteriore instabilità, oltre ad allontanare soluzioni comuni condivise.

Prendiamo per esempio il tema delle risorse e dell’energia. Il ridimensionamento che si sta accompagnando in occidente alla crisi in termini dell’utilizzo di risorse e di fonti energetiche, il diffondersi del concetto di sostenibilità (e lasciando per un momento da parte certe stucchevoli eccessi iperecologisti e fisime radical chic) è semplicemente cosa dovuta. Si è consumato male, si è consumato insensatamente, si è consumato troppo. Ma si è anche consumato perché si doveva consumare. Quel consumare assurto a rango di religione ora pare finito, perché semplicemente non può più continuare. Perlomeno è una religione che inizia a perdere molti seguaci. Ma da noi. I nuovi players  “emergenti”allontanati per decenni dal tavolo del  banchetto non hanno alcuna intenzione di rinunciarvi ora che è il loro turno.

Si può allora facilmente immaginare quale sarà nei prossimi decenni il mostruoso consumo di risorse, acqua, suolo, energia che gli “emergenti”metteranno in atto a fronte di un’Euroamerica sempre più debole ed introvertita, ma sempre molto attenta a distruggere se stessa in un gigantesco e politicamente correttissimo autodafé.

Intendiamoci, queste sono considerazioni di massima che riguardano la natura generale dei fenomeni in atto, senza andare a considerare il dettaglio pure fondamentale delle forze agenti che paiono tuttora saldamente alle redini di quanto avviene. Ma alle redini di cavalli imbizzarriti. E se la prospettiva più plausibile dei popoli d’occidente è quella di un impoverimento indefinito e progressivo, i padroni del vapore avranno un bel da fare per riuscire a venire a capo di un mondo con assetti progressivamente squilibrati e sempre più dominato dall’instabilità. 

Azzerare

Ma se non è dato capire esattamente le direzioni che prenderà tutto questo, ciò che va chiarendosi è che questa crisi mostra che il velo della promessa di benessere e di progresso indefinito sta cadendo squarciato rivelando orrori senza nome.

Negli ultimi anni abbiamo visto la filosofia del prestito ergersi a perno centrale di questo sistema. L’idea del contrarre debiti per essere felici ora, è stata propagandata come asse centrale di un modello di vita, e man mano che si andava avanti la filosofia di prestito/debito ha avvolto tutto nella sua spirale. Consuma. Ed indebitati pure per consumare. Consuma tutto.

Indebitati senza problemi, e non ti preoccupare troppo di rendere il debito, avrai modo, o qualcuno avrà modo per te. Indebitati oltre le tue possibilità, non è un  problema.
Ebbene, l’idea del potersi indebitare indefinitamente senza avere un reale controllo delle proprie economie o perlomeno un riscontro degli effetti dell’avere contratto il debito, l’idea dello spostare la propria responsabilità nell’uso di risorse, materie e problemi alle generazioni future  tutto questo oggi arriva oggi ad un drammatico alt.  Almeno per noi dell’Euroamerica, l’ex Primo Mondo.

E certo questo è uno degli effetti positivi che può avere la crisi: il lacerare il velo di intontimento che ci ha avvolto per decenni di finto benessere.

Crisi dunque come coscienza della propria condizione di malattia spirituale. Crisi come giudizio da affrontare, come drammatico punto della situazione. Tornarsi a porsi questioni di tipo pressante, immediato. Come per esempio il tornare a porsi la questione di fondo del “perché” ci si indebita.

Indebitarsi se non è sbagliato di per sé lo diventa quando è una pura prassi consolidata, una specie di default che si erge a stile di vita e  di pensiero. Con cui ci si finisce per indebitare non solo economicamente ma su tutti i piani, non ultimo quello spirituale.

La crisi non è solo  economica. La crisi è totale. È anche soprattutto crisi cognitiva, della percezione di noi stessi e del nostro modo di vita.

È il mettere in dubbio i modelli, È per una volta guardarsi severamente allo specchio. È percepire la Tragedia di una esistenza senza senso. È toccare il fondo, è discendere agli inferi, ed in quel fondo tornare alle radici della questione per risalire. È azzerare. È reagire. Fare della crisi una leva di conoscenza.

Tra istinto e consapevolezza

Questa potenziale presa di coscienza avviene oggi in condizioni decisamente sfavorevoli a che si possa pensare  ad una qualche rettificazione, ad una qualche forma di inversione di tendenza. Crollano infatti i riferimenti istituzionali, il potere si feudalizza, l’individualismo corrode le relazioni sociali fino al midollo. Paura del domani, sfiducia, desiderio di fuga, senso di perdita, di impoverimento, di isolamento sono il sentire diffuso.

La società diventa sempre più liquida, i legami sempre più tenui ed indistinti. Ciò finisce con il generare in alcuni forme di reazione che meritano una qualche attenzione

La flessibilità estrema del vivere, la condizione di  precarietà permanente, spingono ad andare oltre la condizione di instabilità, a darsi regole nuove, altre. 

Ecco allora la riscoperta dell’appartenenza.  Un nuovo desiderio di legarsi ad una comunità, magari anche piccola , magari anche tribale. Ecco allora la crescente esigenza di domandarsi “chi sono? dove vado? Ecco il nascere di nuove soggettualità. Ecco rafforzarsi esigenze identitarie, dove si possano trovare le risposte alle proprie domande. Ma queste esigenze identitarie non hanno un segno univoco. Ovvero il riflesso “identitario” delcercare conforto al dramma della propria solitudine in  forme di legame solido si pone esattamente ad una forma di bivio: da un lato l’esame di coscienza profondo che porta alla ricerca del senso e delle radici, in una forma che verrebbe da definire identitarismo radicale, un qualcosa in grado di rapportarsi all’esistente e passibile di essere attualizzato, ma comunque intrinsecamente reso solido dalla ricerca della propria centralità, dall’altro vi può essere infatti una forma di identitarismo puramente reattivo, se non direttamente reazionario, di difesa istintiva del proprio territorio e della propria cultura, teso alla ricerca di certezze e verità immediate che da un lato affonda nel desiderio e nella difesa ormai persa di  luoghi ed istituzioni, un identitarismo diremmo “da difesa della postazione perduta”, una forma di conservatorismo di sopravvivenza che si nutre della nostalgia di involucri ormai svuotati e dall’altro nella ricerca del gruppo tribalizzato con i suoi segni e le sue dinamiche, importando relativamente poco un discorso di percorso e destino a fronte di una immediata riassicurazione sul proprio appartenere a qualcosa. Un identitarismo quest’ultimo sostanzialmente difensivo, votato intrinsecamente a posizioni di arroccamento e all’organizzazione di individui desiderosi di comunità ma inevitabilmente distinti da vero sentire organico.

Su che senso politico possano avere le varie e differenti risposte identitarie in un mondo globale è stato scritto altrove. Qui è utile invece porsi interrogativi sulla qualità esistenziale di queste risposte. Perché è su quelle più presenti a sé, più lucide, più coscienti del senso di tragedia, più autocentrate  sulla sostanza che sull’involucro, che bisogna concentrarsi. Perché il tempo  nuovo pone sfide nuove e antiche assieme e la differenza la saprà fare chi con il tempo nuovo saprà porsi in condizione di confronto. O di Sfida.

Tratto da “Polaris – la rivista n.9 – CRISI: COMBATTERLA O SUBIRLA” – acquista qui la tua copia

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