Economia & Finanza

LA MELA DI NEWTON – La crisi americana è poi giunta così inaspettata?

Una rivoluzione americana dall’alto durata un quarto di secolo ha smantellato l’economia occidentale. 

Gli europei balbettanti ne copiano il peggio.

di Giampaolo Bassi Commercialista, revisore dei conti, economista

Si è discusso, si continua a discutere e, molto probabilmente, si discuterà ancora per decenni sulla crisi che, partendo dagli USA, è arrivata ad investire come uno tsunami l’intera economia del cosiddetto “Primo Mondo” fino a cambiare e stravolgere le stesse basi dell’economia occidentale e che  purtroppo arriverà a modificare radicalmente il modo di vivere delle generazioni future.

Le raffinate analisi proposte nel tempo da economisti, giornalisti e politici hanno posto in evidenza le origini storiche e, solo parzialmente, le cause della crisi; eppure, a ben vedere, visto che ogni cosa , soprattutto in economia, accade come logica conseguenza di precise scelte, appare ben difficile credere che tutti i governi dei maggiori Paesi occidentali, nonché i loro blasonati e strapagati consulenti, siano stati colti di sorpresa. 

La storica frase pronunciata dalla Regina Elisabetta nella riunione della London school of economics il 13 novembre del 2008: «Com’è possibile che nessuno si sia accorto che stava arrivandoci addosso questa crisi spaventosa?» e la risposta del  direttore del dipartimento di management della Lse: “in ogni momento di questa fase qualcuno faceva affidamento su qualcun altro e tutti pensavano di fare la cosa giusta” lasciano davvero basiti. 

Ma la crisi è arrivata davvero improvvisa ed inaspettata, come la mela di Newton, oppure è stata il frutto di scelte economiche ma, soprattutto, filosofiche ed ideologiche ben precise? 

Possiamo davvero ritenere che la perdita di decine di milioni di posti di lavoro, di centinaia miliardi di euro di PIL, la lenta ma inarrestabile perdita di competitività dell’occidente siano solo il frutto del caso?

La madre di tutte le crisi

A ben vedere la “madre di tutte le crisi” nasce e si alimenta negli USA; trova le sue origini nel 1987 quando, all’interno della Presidenza Reagan e della Fed, era in corso una accesa sfida  tra i fautori della regolamentazione dei mercati e, quindi, di un certo “controllo politico e pubblico sulla finanza e l’economia” capitanati da Paul Volcker, che aveva guidato la Fed con successo per otto anni e, sul fronte opposto, i fautori della deregulation  e della autoregolamentazione dei mercati guidati da Alan Greenspan.

La disputa si risolse il 3 giugno del 1987 quando, con una certa sorpresa, la Casa Bianca comunicò che Volcker avrebbe lasciato il suo incarico e nominò al suo posto lo stesso Greenspan; la nomina rappresentò una svolta epocale concretizzatasi, in seguito, con la graduale demolizione delle regole che, fin dal New Deal, avevano diretto i mercati finanziari USA.

Il primo atto fondamentale fu l’approvazione nel  novembre del 1999, sotto la Presidenza Clinton, del «Financial Services Modernization Act», anche noto come “Gramm-Leach-Bliley Act”; con il quale, sotto la spinta delle maggiori banche  del Paese, veniva abrogata in sostanza la “Glass-Steagall Act ” del 1933, e si consentiva la commistione tra banche d’affari, banche ordinarie ed assicurazioni con un conseguente allentamento dei vincoli sulla leva ed una riduzione delle riserve a garanzia.

La successiva approvazione del “Commodity Future Modernization Act”, firmata dal Presidente Clinton il 21 dicembre del 2000, che modificando radicalmente la Commodity Exchange Act del 1936, allentò drasticamente la sorveglianza sul mercato dei derivati, ne consentì una incredibile espansione, al punto che oggi si stima che la massa di derivati circolanti nel mondo sia pari a circa dodici volte il PIL mondiale. La successiva, e sempre crescente, delocalizzazione della finanza e la sua informatizzazione impedisce, di fatto, qualsiasi seria sorveglianza sul mercato dei derivati. 

La bolla di Greenspan

Se consideriamo che i dominatori dell’economia e della finanza USA  all’epoca erano Alan Greenspan, Robert Rubin e Lawrence Summers, questi due  succedutisi quali ministri nella Presidenza Clinton; ed , in seguito, Rubin protagonista dei gravi problemi della Citigroup e, di contro, Summers  principale consigliere del Presidente Obama, il quadro appare molto più chiaro. 

Quando a fine del 2001 arrivò la crisi delle dot.com, peraltro, anch’essa “stranamente” imprevedibile,  (il sottoscritto ricorda che nell’aprile del 2001 si trovava a New York e con il Nasdaq sopra i 5000 punti, e tutti gli analisti dei maggiori giornali finanziari e delle televisioni americane lo prevedevano a 8000 punti entro la fine dell’anno) si è creata la prima “bolla” alla quale la FED, presieduta da Greenspan, rispose con un abbassamento dei tassi senza precedenti, al punto che, in termini reali, i tassi di interesse furono portati a valori negativi.

La finalità era quella di far ripartire l’economia facilitando gli investimenti delle imprese ma, considerando l’ eccesso di investimenti effettuati dalle imprese negli anni Novanta, l’abbattimento dei tassi, invece di stimolare gli investimenti produttivi, ha portato le famiglie americane ad indebitarsi sempre di più, rifinanziando i loro mutui ed i loro debiti o accendendone di nuovi.

Considerando che gli USA sono, ormai da anni, un Paese importatore, l’incremento di “consumo a debito” si è tradotto in un peggioramento della bilancia commerciale e, conseguentemente, del rapporto debito/pil.

Il sistema bancario, a sua volta, per accrescere il mercato della  clientela del “Dollaro low cost” ha ridotto gli standard di solvibilità, incrementando così i “mutui subprime”; creando, inoltre, nuovi prodotti finanziari, con minori anticipi, che consentissero ai clienti di indebitarsi sempre di più; spingendo fortemente i mutui a tasso variabile, o peggio, a rata crescente rispetto a quelli a tasso fisso, andando ad allungare la durata degli stessi fino ai 40 anni.

Il brillante risultato di questa folle politica basata sulla presunzione, peraltro mai verificatasi prima nella storia, che i tassi potessero restare prossimi allo zero per decenni, è stato che oggi alcuni mutui hanno avuto addirittura un ammortamento negativo causato dall’aumento dei tassi.

La risultante di questa politica scellerata che, per oltre vent’anni, hanno  seguito gli USA, è stata che, dalla bolla delle dot.com, i grandi della finanza mondiale, assistiti dalla FED,  sono  riusciti a generare una ben più grande e pericolosa bolla immobiliare; la quale, vista l’enorme sopraesposizione del sistema bancario occidentale su prodotti a tasso variabile e a durata lunga accesi con clienti al limite della solvibilità, ha trascinato tutte le banche in una crisi senza precedenti.

La bolla immobiliare alla fine è scoppiata e, con il crollo dei prezzi, molte persone si sono rese conto che la loro ricchezza basata sul debito e sulla crescita, drogata dai tassi, dei valori immobiliari era in realtà una mera “finzione scenica”, ed hanno ovviamente risposto con un conseguente calo dei consumi.

Il debito pubblico

Ma il disegno per distruggere l’economia del più grande Paese del Mondo non era ancora completo, mancava un solo fondamentale tassello: il debito pubblico.

Il disegno venne completato con l’approvazione, il 3 ottobre del 2008 ultimo atto della Presidenza Bush Jr, del Troubled Assets Relief Program che, unitamente ad altri interventi di salvataggio pubblico di banche, assicurazioni ed istituzioni finanziarie, tutti ispirati al salvifico ed omnicomprensivo principio del “Too big to fail”, ha comportato, secondo una attenta ricerca pubblicata recentemente dalla Bloomberg,  l’immissione nel mercato, da parte della FED, di ben 7.700 miliardi di dollari  a tassi vicini allo zero, una cifra pari ad  oltre il 50 % del PIL degli USA.

Mai nella storia una banca centrale aveva finanziato il sistema finanziario in modo così vantaggioso e in dimensione tali da incidere pesantemente sull’indebitamento del Paese.

Il conto del salvataggio per le banche ideato dall’amministrazione Bush ed, in seguito, gestito dal ministro del Tesoro democratico di Barack Obama, Timothy Geithner , è tale da aver drammaticamente indebolito gli USA nei confronti dei loro reali “prestatori di ultima istanza” i cosidetti BRIC ed, in particolare, la Cina e, tutto questo, può forse spiegare ai “malpensanti” alcune posizioni dell’amministrazione USA in tema di commercio internazionale e forse, a voler essere ancor più maliziosi, il perché l’amministrazione Obama continua a rinviare un ampio programma di revisione dei mercati finanziari che era pur  presente fin dalla sua prima campagna elettorale.

Così dalle scelte del 1987, attraverso la crisi delle dot.com e la “bolla immobiliare”, siamo arrivati alla madre di tutte le crisi  “la crisi del debito pubblico” ; una crisi che per la necessità di contenere e ridurre il debito pubblico porterà a sempre nuove tassazioni, a riduzioni della spesa pubblica in termini di spesa sociale, a sottrazione di risorse al sistema produttivo e , in presenza di un calo demografico, ad una recessione che, purtroppo, potrebbe durare decenni.

E l’Europa che fa?

Ovviamente tra dicembre 2011  e marzo 2012 la BCE ha stampato 1000 miliardi di euro che ha prestato alle banche al tasso del 1 %, le banche, altrettanto ovviamente, hanno utilizzato oltre l’80% di questa enorme massa di denaro (creata sulle spalle di tutti i cittadini europei) per operazioni di funding, rifinanziando l’enorme massa di obbligazioni bancarie in scadenza,  oppure per acquistare titoli pubblici che, ancora una volta, verranno pagati con le tasse pagate dai cittadini europei.

Siamo o non siamo alunni diligenti ma un po’ stupidi?  

Tratto da “Polaris – la rivista n.9 – CRISI: COMBATTERLA O SUBIRLA” – acquista qui la tua copia

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