Economia & Finanza

GLOBITALIA – La globalizzazione da noi funziona solo in un senso

Le aziende italiane globali sono una rarità: non arrivano al 30% del totale le imprese che esportano. E solo una minima parte di queste ha scelto anche di delocalizzare la produzione. Eppure dai discorsi di Confindustria emerge tutta un’altra Italia. Falsa, inesistente, dinamica, globalizzata. Capace di confrontarsi sulla scena mondiale, sfidando colossi, multinazionali.

Invece niente. Incapace di reggere la concorrenza industriale, l’Italia riesce anche a suicidarsi con i dazi. 

Confindustria e Fiat non sono interessati alla qualità. Blagano di modello tedesco da imitare, ma poi lo smontano in ogni sua parte. Gli industriali tedeschi investono in ricerca e sviluppo? Quelli italiani aspettano che sia il governo a pagare gli investimenti. I tedeschi puntano sulla cogestione delle fabbriche per coinvolgere i lavoratori? Confindustria esclude a priori che si possa arrivare alla cogestione. I tedeschi pagano agli operai stipendi doppi o tripli di quelli italiani? Confindustria invita alla moderazione salariale e assicura agli italiani gli stipendi più bassi d’Europa. 

In Italia la globalizzazione porta solo manodopera non qualificata, i disperati che nessun altro vuole. E perdiamo cervelli, i nostri e pure quelli degli stanieri.

di Enrico ToselliGiornalista economico e scrittore 

Globalizzazione e internazionalizzazione non sono sinonimi. Tantomeno in economia. E anche quando un’azienda diventa “globale”, in realtà si limita spesso ad essere più internazionale. La Lavazza, ad esempio, diventa sempre più internazionale, con nuovi stabilimenti in India e in Brasile, ma investe 10 milioni di euro a Settimo Torinese e molti di più a Torino per ribadire il proprio radicamento nel territorio di origine. Lo stesso fa la Pirelli, che crea fabbriche in Russia e negli altri Continenti, ma realizza sempre a Settimo Torinese il più moderno stabilimento di pneumatici al mondo.

La Ferrero, invece, è un’azienda globale, anche se ha investito molto ad Alba per la ricerca e la produzione. Ma la Ferrero ha scelto di non apparire radicata in Langa (benché in fondo le radici siano state curate molto, proprio negli ultimi anni), puntando ad essere riconosciuta in ogni Paese come azienda locale: in Francia per il Mon Chéri, in Germania per il Kinder, negli Stati Uniti per Tic Tac, e così via. E in Italia per la Nutella, ottenuta però con nocciole che non sono quelle di Langa bensì importate. Una scelta forse inevitabile, considerando le quantità prodotte e la disponibilità di nocciole locali (utilizzate invece dalla Novi). Ma comunque significativa di un modo di concepire i rapporti economici, le strategie di comunicazioni, l’acquisto di materie prime. 

In fondo, sino a quando le strategie di Lavazza e Ferrero non collimano ma garantiscono comunque lavoro in Italia, il problema di globalizzazione o internazionalizzazione può rimanere confinato nelle discussioni accademiche. Peccato che i grandi gruppi che riescano a crescere all’estero pur senza penalizzare la presenza in Italia (o addirittura accrescendola) siano davvero pochi. Una cerchia ristretta di cui fa parte l’Azimut Benetti – che ha aperto stabilimenti in Turchia e Brasile, ma ha riportato nelle fabbriche italiane tutti i lavoratori in cassa integrazione per la crisi – ma di cui, sino ad ora, non fa certo parte la Fiat che al di là delle promesse è solo riuscita a tagliare l’occupazione interna e a mandare pesantemente in crisi tutta la componentistica nazionale.

In realtà, se si va ad analizzare la situazione, si scopre che le aziende italiane globali sono una rarità. D’altronde non arrivano al 30% del totale le imprese che esportano. E solo una minima parte di queste ha scelto anche di delocalizzare la produzione. Eppure dai discorsi di Confindustria emerge tutta un’altra Italia. Falsa, inesistente, dinamica, globalizzata. Capace di confrontarsi sulla scena mondiale, sfidando colossi, multinazionali.

Invece niente. Incapace di reggere la concorrenza industriale, l’Italia riesce anche a suicidarsi con i dazi. Perché impone quote basse a Paesi che pretendono dazi molto più elevati per accogliere le merci italiane. Ma occorrerebbe essere capaci di condurre delle trattative, e su questo fronte la politica italiana è un disastro. Troppo attenta a tutelare, di volta in volta, interessi spiccioli di qualche potere forte, e rinunciando per questo a garantire gli interessi generali. Lo si è visto, di recente, nell’opposizione italiana alla decisione dell’UE di abolire i dazi imposti alla Corea del Sud. Un modesto 10%, ma in grado di spaventare la Fiat che, attraverso l’Anfia, ha iniziato una campagna per impedire l’abolizione del dazio. Mentre i componentisti auto italiani, compresi quelli piccoli, non si preoccupavano minimamente, convinti di poter vincere la sfida sulla base della qualità.

Ma Confindustria e Fiat non sono interessati alla qualità. Blagano di modello tedesco da imitare, ma poi lo smontano in ogni sua parte. Gli industriali tedeschi investono in ricerca e sviluppo? Quelli italiani aspettano che sia il governo a pagare gli investimenti. I tedeschi puntano sulla cogestione delle fabbriche per coinvolgere i lavoratori? Confindustria esclude a priori che si possa arrivare alla cogestione. I tedeschi pagano agli operai stipendi doppi o tripli di quelli italiani? Confindustria invita alla moderazione salariale e assicura agli italiani gli stipendi più bassi d’Europa. Ma poi pretendono, gli industriali italiani, che la produttività sia a livelli tedeschi. Senza soldi, senza investimenti, senza stimoli. Ma a livelli tedeschi.

Eppure qualcuno si accorge che così non funziona. Antonio Calabrò, ora in Pirelli, sostiene che la produttività non si deve misurare sul breve periodo, ma su quello lungo. E si ottiene anche coinvolgendo i dipendenti, mettendoli in condizione di lavorare in ambienti luminosi, gradevoli, offrendo prospettive che non siano contratti a termine di pochi mesi. Perché è impossibile pensare ad un ruolo internazionale quando non si formano i lavoratori, quando li si cambia ogni tre mesi, quando si assumono i meno qualitficati perché costano meno.

E i giovani preparati? Vengono invitati da Confindustria ad andare a fare esperienza all’estero. Dopo aver studiato sino alla laurea in Italia, con un costo enorme per le casse pubbliche, dovrebbero portare nel mondo le competenze acquisite nel nostro Paese. Davvero geniale. Ovviamente Confindustria ritiene che i giovani laureati italiani, i migliori perché sono quelli più richiesti all’estero, debbano solo fare esperienza in giro per il mondo, pagati adeguatamente dalle aziende straniere, prima di tornare a lavorare in Italia per stipendi dimezzati (quando va bene).

Purtroppo non funziona. I giovani italiani vanno a lavorare all’estero e ci rimangono. È la globalizzazione, bellezza. Peccato che funzioni solo in un senso. Perché i nostri ragazzi devono imparare l’inglese e trovano occupazione in molte parti del mondo. Ma gli stranieri non studiano l’italiano e, dunque, non vengono nella Penisola. E poi, perché dovrebbero venirci? Per essere pagati poco quando, per la stessa mansione, possono essere pagati il doppio nella vicina Francia, in Svizzera, in Austria?

Così in Italia la globalizzazione porta solo manodopera non qualificata, i disperati che nessun altro vuole. E perdiamo cervelli, i nostri e pure quelli degli stanieri. La Cina sta infatti cominciando a reclutare i propri connazionali emigrati in Europa, scegliendo i migliori e lasciando gli altri. Perché l’espansione cinese richiede cervelli e la politica del figlio unico sta cominciando a creare danno notevoli nel grande Paese asiatico. Non soltanto a livello numerico, perché ogni giovane si ritrova con due genitori e in media due nonni a cui provvedere. Ma anche a livello caratteriale, perché i bambini viziati da genitori e nonni stanno diventando uomini privi di carattere, svogliati: i bamboccioni cinesi. E dunque il governo di Pechino sta correndo ai ripari. Da un lato allargando le maglie del controllo sul numero dei figli, dall’altro richiamando in patria i cinesi laureati all’estero e, infine, importando cervelli dall’Europa e dall’America.

L’abitudine al modello unico mondiale sta favorendo questo esodo verso la Cina. D’altronde Confindustria è stata la grande sostenitrice dello sradicamento, della perdita di identità, di tradimento della nostra cultura. E ora che i ragazzi avranno persino delle materie insegnate direttamente in inglese, saranno ancor più facilitati nell’andarsene a lavorare all’estero. Tutti sul mercato. Un’unico grande mercato globale dove tutto ha un prezzo e dove si vendono cervelli, si acquistano organi sessuali, si affittano braccia. Con un’unica musica (americana), un’unica letteratura (americana), due cinematografie (americana ed indiana) ed un unico padrone: cinese. In attesa che Pechino imponga anche i suoi gusti in fatto di musica, letteratura, cinema. E anche in fatto di lingua. In molti hotel 5 stelle cinesi fuori da Pechino non si parla più inglese, nella convinzione che devono essere gli stranieri ad adattarsi allo stile di vita del nuovo padrone del mondo.

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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