Editoriali

EDITORIALE POLARIS n.4 – Gabbie globali

Si ha l’impressione che tutto ormai si compia a tempo zero.

Le connessioni net, la velocità delle comunicazioni, l’immediatezza delle transazioni commerciali e finanziarie, hanno inciso sul rapporto spazio-tempo rivoluzionandolo letteralmente, e comprimendo entrambi i fattori in modo impressionante.

E’ come se ci trovassimo in un infinito e costante presente in cui ci s’illude di vivere “qui ed ora”. In realtà più che un qui, il luogo della nostra dimensione psichica è un lì, connessi come siamo ogni istante col cellulare e nelle parallel lifes del genere face book.

Siamo fisicamente in un luogo ma mentalmente ci troviamo quasi sempre in un altro.
Microcosmo e macrocosmo: lo stesso che accade a noi individui vale per le economie, e così come noi siamo assenti a noi stessi, anche gli Stati lo sono.

Siamo in preda ad un vortice che ci risucchia. Google può esserne l’emblema anche onomatopeico.

Ci si offrono immense opportunità ma anche incredibili inconvenienti.

Per fare un esempio banale, basta fare acquisti online per rendersi conto che spesso non esiste interlocutore, che non c’è modo di porre domande, che non si possono sbagliare transazioni, pena quasi sempre la perdita di quanto versato. Il partner globale è muto, è sordo e non ha volto.

Ma ha pretese, pretese sovrane.

La nuova era, quella che sembra aver reso anacronistici e disarmati gli Stati-Nazione, quella che pare aver destinato all’estinzione le diverse culture, quella che condanna e omologa tutte le differenze e che osteggia persino i gusti alimentari, è stata acclamata con entusiasmo da intellettuali ed analisti.

Globalizzazione la chiamano, propriamente e impropriamente.

Propriamente perché tende a far sparire tutte le differenze tra culture, uomini, popoli, nazioni, esprimendo un modello unico, conforme, senza radici né fantasia, dunque impone un modello globale.

Impropriamente perché, pur incidendo indirettamente sui miliardi di abitanti della Terra, essa riguarda per intero solo le economie più sviluppate e, nei Paesi in via di sviluppo, soltanto vere e proprie caste, ma non influisce sulla vita quotidiana della maggioranza degli abitanti del globo, ancora immersa nell’era precedente.

La globalizzazione tuttavia procede come un rullo compressore. Ma dove va?

Di sicuro favorisce la concentrazione di ricchezza e di potere nelle mani di caste ogni giorno più apolidi, ma nondimeno formate, nella maggioranza delle loro componenti, su di un modello mentale ed esistenziale che ha raggiunto la sua piena maturità nel mondo Wasp e che nella lettura del mondo e della vita ha assunto dei caratteri veterotestamentari molto marcati.

Altrettanto certamente essa procede alla costituzione di modelli comportamentali ed esistenziali uniformi, che si vorrebbero uguali per tutti e che si accompagnano con leggi e leggine che pretendono di dettare i nostri gesti quotidiani come raramente era accaduto in passato.

Essa determina divaricazione sociale, uniformità culturale e comportamentale, e produce caste.

A queste caste, in sostituzione delle classi dirigenti delle varie nazioni, affida la governance mondiale, gestita da veri e propri comitati d’azienda.

L’azienda-mondo viene gestita dai summit, i G (7, 8, 20 o 2) ma soprattutto da organismi sovranazionali quali il WTO, l’FMI. Organismi a loro volta amministrati secondo le influenze di macroscopici “think tank” quali il CFR o commissioni internazionali, come la Trilaterale.

Questi comitati d’azienda cercano di regolamentare i flussi economici, le attività produttive, la gestione delle risorse, tenendo conto dei rapporti di forza tra potenze calanti ed emergenti oltre, ovviamente, ad alcuni imperativi geopolitici gerarchicamente concepiti .

Lo sforzo immane di razionalizzare, di parcellizzare, di mediare e di settorializzare, fa da contraltare alle spinte centrifughe e agli impulsi vitali dei popoli in crescita.

In qualche modo la governance globalizzatrice mette i paletti, stabilisce i confini, costruisce le gabbie dentro le quali dovrebbero esaurirsi e smorzarsi le mille e mille spinte vitali che sussistono nel mondo.

Nel far questo dà l’impressione di procedere sulla base di pregiudizi ideologici e con qualche presunzione di onnipotenza.

Quasi una sindrome di Frankenstein sembra a tratti determinare le linee guida che, nel nome di un utopico quanto improbabile equilibrio planetario perseguente il bene comune di un’ umanità regolarmente scritta con la u maiuscola, sconvolge e sottomette ogni singolo bene, individuale, comunitario, nazionale.

Cercando d’imporre monocolture, nell’intento di razionalizzare e spalmare le spartizioni produttive, s’impoveriscono intere zone del pianeta.

L’Africa, che al tempo delle colonie sopperiva al proprio fabbisogno alimentare per il 98%, si trova ridotta alla fame dalle monoculture decise e gestite dalle multinazionali nella logica del programma economia-mondo.

Le nazioni industrialmente sviluppate, militarmente potenti e sostanzialmente egemoni, si sono avviate al tramonto biologico tramite il crollo demografico e a quello fisico per la de-industrializzazione concertata dall’alto.

A tutto questo si deve aggiungere l’effetto sismico delle migrazioni etniche di massa, con la costituzione a gatto di leopardo di banlieues, di bidonville.

Frutto di dinamiche che vengono acclamate nel nome dell’uguaglianza, della pace, della fraternità, si moltiplicano i focolai di disagio sociale e di odio etnico. L’abdicazione progressiva degli Stati nazionali fa emergere più particolarismi etnici che non universalismi, e le pulizie etniche, che si registrano sempre più puntuali e massicce nelle stesse zone più progredite del mondo, si accompagnano regolarmente con fanatismi fondamentalistici.

L’omologazione sembra procedere per implosioni, la razionalizzazione sembra produrre particolarismi, l’ombra della religione umanitarista non pare più in grado di coprire le forme emergenti degli integralismi religiosi più intolleranti.

L’egemonia mondiale a centro unico è superata, l’agognato multipolarismo deve fare i conti con l’asimmetria che apporta la vera e propria esplosione cinese e con le divergenze d’interessi vitali delle principali potenze.

Le strutture internazionali e sovranzionali, spesso private, che sono addette alla governance, le strutture di amministrazione planetaria che curano gli interessi vitali delle banche e delle multinazionali e che lavorano per garantirli nel coacervo di problematiche mondiali, hanno preteso di assumere un compito assai arduo. Quello di rendere stabile e governabile un mondo che si concepisce come unico, come spazio-temporalmente concentrato ed unificato, e che però presenta ovunque spinte e scosse di ogni tipo e natura.

Quella che esse offrono è l’odierna versione del “coagula” che vuol contenere il “solve”, un solve rappresentato oggi in gran parte dalle insofferenze vitali dei popoli e delle culture.

Riuscirà questo rapporto tra “solve” e “coagula” a trovare un equilibrio? Sarà possibile che quest’equilibrio raggiunga risultati migliori di quelli finora offerti dalla globalizzazione o dobbiamo temere che con l’andar del tempo si riveleranno addirittura più problematici?

E non è possibile, infine, che agli imperativi tecnologici di quest’era frenetica si riesca a dare una risposta – o una serie di risposte – d’attualità e d’avanguardia, di taglio e spirito non propriamente global?

di Gabriele Adinolfi

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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