Economia & Finanza

LA LEZIONE DEGLI ALUNNI INDISCIPLINATI – Il sistema Italia può vincere ma deve essere sostenuto

I punti di forza dell’Italia, secondo il Censis, sono: scarsa incidenza della finanza nell’economia; elevata presenza dell’industria manifatturiera; molte piccole imprese sul territorio; flessibilità del mercato del lavoro (anche per la forte presenza di lavoro sommerso); elevata propensione al risparmio della popolazione (con un 85% delle famiglie con case di proprietà); forte radicamento del sistema bancario; forte presenza, nonostante le “privatizzazioni” dello Stato nell’economia.

Il fatto che un Paese mal organizzato sotto il profilo della pubblica amministrazione e delle infrastrutture ma, di contro, caratterizzato da molti imprenditori, soprattutto piccoli e medi e una popolazione con un “grande cuore” che, spesso, ha supplito con la struttura familiare e con il volontariato alle carenze delle costosissime strutture pubbliche; abbia saputo rispondere meglio di altri alle sfide imposte dalla grave crisi mondiale del 2008, merita ampie riflessioni ed una rilettura in chiave critica di alcuni “dogmi”.

di Giampaolo BassiCommercialista, revisore dei conti, economista

La capacità dell’Italia di resistere, meglio di altri Paesi, alla crisi internazionale, non può non farci riflettere sulle caratteristiche e sulla struttura organizzativa del nostro Paese sia sotto il profilo economico-industriale sia sotto quello sociale.

Che quelli che, fino a pochi anni fa, erano considerati punti di debolezza del “sistema Italia” si siano rivelati, alla prova dei fatti, punti di notevole forza; apre ampi spazi di dibattito e, ovviamente, mina alla base alcune delle tesi dei detrattori del nostro Paese, che hanno avuto ampio spazio e credito in ambito sia accademico che politico.

L’interpretazione della situazione dell’Italia viene fornita, con la consueta competenza e lucidità, dal 43° Rapporto del Censis sulla situazione sociale del Paese, in cui è stata proposta una analisi interpretativa dei più significativi aspetti e fenomeni socio economici per il 2009.

Il “rapporto” , pur nell’imminenza della pubblicazione del Rapporto Censis per il 2010, appare di estrema attualità in quanto evidenzia le motivazioni per cui il ns. Paese è stato capace di resistere, meglio di altri, alla crisi internazionale; rilanciando il modello di sviluppo incentrato su piccole imprese, le garanzie sociali di assistenza come punti di forza del “sistema Italia” .

Nelle considerazioni finali del “rapporto” è riportato: “ … non abbiamo esasperato il primato della finanza sull’economia reale, le banche hanno mantenuto un forte aggancio al territorio, il sistema economico è caratterizzato da una diffusissima e molecolare presenza di piccole aziende, il mercato del lavoro è elastico (si pensi al sommerso) e protetto (si pensi al lavoro fisso e agli ammortizzatori sociali), le famiglie sono patrimonializzate…”. I punti di forza dell’ Italia, secondo il Censis, sono: scarsa incidenza della finanza nell’economia; elevata presenza dell’industria manifatturiera; molte piccole imprese sul territorio; flessibilità del mercato del lavoro (anche per la forte presenza di lavoro sommerso); elevata propensione al risparmio della popolazione (con un 85% delle famiglie con case di proprietà); forte radicamento del sistema bancario; forte presenza, nonostante le “privatizzazioni” dello Stato nell’economia.

Tale visione appare condivisa da altri commentatori e centri di ricerca, (non solo italiani …) la circostanza non può che lasciare basiti tutti coloro che, per anni, hanno dovuto subire le “lectio magistralis” di sedicenti “economisti” su argomenti quali: il primato della finanza sull’economia; il nanismo, e la conseguente inadeguatezza, dell’apparato produttivo italiano; l’arretratezza del nostro modello sociale; tutti argomenti che portavano ad una sostanziale e definitiva condanna a morte delle linee guida del “sistema Italia”.

Il fatto che un Paese mal organizzato sotto il profilo della pubblica amministrazione e delle infrastrutture ma, di contro, caratterizzato da molti imprenditori, soprattutto piccoli e medi (mi ritorna in mente la splendida descrizione di Einaudi…) e una popolazione con un “grande cuore” che, spesso, ha supplito con la struttura familiare e con il volontariato alle carenze delle costosissime strutture pubbliche; abbia saputo rispondere meglio di altri alle sfide imposte dalla grave crisi mondiale del 2008, merita ampie riflessioni ed una rilettura in chiave critica di alcuni dei su indicati “dogmi”.

Tali riflessioni non possono non portarci, se non altro per onestà intellettuale, a criticare alcune delle scelte di politica industriale che, a partire dal dopoguerra fino a tempi recenti, hanno caratterizzato la storia economica del nostro Paese determinandone gli assetti attuali; in particolare : la politica delle “cattedrali nel deserto” con conseguente utilizzo di immense risorse pubbliche, spesso e soprattutto, a favore dei “soliti noti” ; le privatizzazioni “senza se e senza ma” che, una volta attuate, si sono tradotte nell’inimmaginabile arricchimento di pochi gruppi privati ed in nessun apprezzabile miglioramento per i cittadini.

Proviamo a immaginare quale sarebbe stato l’assetto produttivo del nostro Paese, e la conseguente diffusione del benessere e dello sviluppo sociale, se le centinaia di migliaia di miliardi di lire di soldi pubblici spesi per le grandi imprese (private nel guadagnare e, spesso, pubbliche nel perdere …) fossero stati utilizzati per promuovere e difendere la piccola e media impresa, esaltandone le diverse caratteristiche settoriali e produttive presenti sul territorio nazionale, soprattutto alla luce del fatto che adesso una componente importante della grande impresa rivendica, rifacendosi ai principi della tanto celebrata “globalizzazione”, esigenze di sempre più estreme forme di delocalizzazione produttiva in altri Paesi. 

Per quanto attiene alle “privatizzazioni” , che avrebbero potuto e dovuto rappresentare un enorme volano di sviluppo, la difficoltà con cui si riesce ad individuare i vantaggi che ne sono scaturiti per i cittadini ed il fatto che le uniche imprese italiane di grandi dimensioni in grado, oggi, di competere con successo sui mercati mondiali (Eni, Finmeccanica ed Enel) siano ancora, in qualche misura, a partecipazione statale; ci portano ad avere qualche fondato dubbio sulle modalità ed i principi in base ai quali sono state realizzate. 

Un ulteriore spunto di riflessione sull’efficacia delle “privatizzazioni all’italiana” dovrebbe nascere dal fatto che quando la NOKIA (azienda leader mondiale nella telefonia) era, ancora e soltanto, una cartiera in Italia, l’ITALTEL era , all’epoca, considerata una delle migliori aziende al mondo nel settore delle tecnologie connesse alle telecomunicazioni; l’attuale grave stato di crisi della ITALTEL, con particolare riferimento alla struttura di Carini, non può che gettare pesanti ombre sui “privatizzatori ad ogni costo” e far sorgere nuove e cogenti domande sull’efficacia delle privatizzazioni e sui reali interessi che le hanno ispirate.

Volendo ritornare alle linee guida di questo articolo, partendo dai dati emersi dal rapporto del Censis, che descrivono una forte incidenza delle PMI caratterizzate da strutture ed assetti proprietari a base familiare, appare di estrema evidenza come tale assetto del settore produttivo non può non risentire, spesso in maniera molto pesante e crescente in futuro, delle variabili esogene al “sistema Italia” che, in buona parte, derivano dalla globalizzazione sfrenata, con la conseguente concorrenza dei prodotti realizzati in Paesi dove il costo del lavoro e della burocrazia sono infinitamente più bassi.

Occorre, inoltre, considerare che le PMI italiane, proprio per le loro caratteristiche dimensionali, non appaiono in grado di competere efficacemente, se non in pochi casi, sul mercato delle tecnologie innovative per carenza delle risorse finanziarie necessarie .

Appare evidente che se l’imprenditore tende a produrre laddove risulti più conveniente; è preciso dovere delle forze politiche e delle organizzazioni sindacali difendere efficacemente i posti di lavoro nel proprio Paese.

Appare altrettanto evidente che il consentire l’entrata in Europa di qualsiasi genere di prodotto, senza preoccuparsi se nel corso del suo processo produttivo siano state rispettate o meno le regole di rispetto del lavoratore, di tutela ambientale, di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro che, oggi, sono considerate la condizione minimale per il settore produttivo europeo, ma che rappresentano, in realtà, il frutto di oltre 150 anni di lotte dei lavoratori e di almeno 50 anni di lotta per la tutela dell’ambiente; annulla e tradisce il risultato di tali lotte.

Appare altrettanto evidente che tali forme di globalizzazione e liberismo sottopongono le imprese europee (ed in particolare le PMI italiane) ad una forma di concorrenza sleale, perpetrata dalle imprese non europee che, di fatto, producono in condizioni di dumping sociale ed ambientale.

Se ne deduce, come logica conseguenza di quanto esposto, che sia le forze politiche che le organizzazioni sindacali hanno, sostanzialmente, abdicato alla loro missione primaria ; tradendo pesantemente il mandato ottenuto dagli elettori e dai lavoratori.

L’Europa in genere e l’Italia in particolare, proprio per le indicate caratteristiche del suo assetto produttivo, risentiranno sempre più pesantemente di tale situazione se non sapranno trasformare una politica di globalizzazione e liberismo sfrenato in una politica di “protezionismo illuminato” i cui principi cardine non siano dei dazi anacronistici ma proprio il rispetto delle regole europee nella filiera produttiva dovunque essa sia realizzata.

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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