Relazioni Internazionali

IL CONTINENTE GIALLO – Pechino invade l’Africa depredata dalle multinazionali

L’Africa, come fu definita da un vecchio colono belga, è un’autentico “scandalo geologico”, nel senso che i metalli e le risorse minerario più preziosi della terra sono concentrate lì, e in quantitativi impressionanti. Oro, argento, rame, platino, uranio, diamanti e pietre preziose di ogni tipo, ferro, bauxite, rame, carbone, titanio e anche la tantalite-columbite, il cosiddetto coltan, che serve all’industria elettronica e la cui domanda è in continuo aumento. Molti di questi minerali, a cominciare da quest’ultimo, presente in particolare in Congo, vengono depredati sin dagli anni Sessanta da multinazionali che semplicemente recintano i giacimenti, li proteggono con guardie armate, estraggono il materiale, e lo lo caricano su aerei destinazione Stati Uniti. 

Negli anni Sessanta e Settanta, in nome di non si sa quale malinteso e demagogico senso di libertà susseguente alla fine della Seconda Guerra mondiale, il continente fu decolonizzato in fretta e furia, cosa che bloccò, forse per sempre, lo sviluppo dei popoli africani, non in grado di autogovernarsi e di badare a loro stessi, come i fatti hanno tragicamente dimostrato ovunque.

È tuttavia la Cina il Paese che più di tutti ha saputo approfittare della affrettata decolonizzazione africana. Basti una cifra: oggi l’interscambio tra Pechino e i Paesi africani supera i settanta miliardi di dollari.

di Antonio Pannullo Giornalista e direttore della rivista Raids

L’Africa è praticamente scomparsa dalla stampa italiana. La fame, la guerra, le epidemie non fanno più notizia. La stampa europea, invece, continua a occuparsene, soprattutto quella nei Paesi ex colonizzatori, come Regno Unito e Francia.

È come se quello che sta capitando in Africa stia scomparendo dalle nostre coscienze, come se ignorando la realtà, essa non esistesse. Invece esiste, come esistono le responsabilità dei Paesi industrializzati in quello che sta accadendo: epidemie, povertà, conflitti sanguinosi quanto dimenticati, dittature, tentati genocidi e pulizie etniche, istituzioni inesistenti. È veramente un continente perduto che sta allontanandosi sempre di più dalla civiltà.

Ma la responsabilità del mondo occidentale è doppia, perché per molti decenni le nazioni più progredite hanno saccheggiato le immense ricchezze africane, di gran lunga il territorio più prodigo di risorse naturali del pianeta. Le multinazionali semplicemente se ne impossessano, con i loro eserciti privati, senza pagare royalties o altro ai rispettivi governi, e senza soprattutto che le popolazioni locali ne traggano un qualsivoglia beneficio.

Per ritrovare un interesse dei mass media internazionali durato più di qualche giorno, bisogna risalire alla guerra del Biafra, quella che la Nigeria condusse contro gli indipendentisti di etnia igbo di quella regione dal 1967 al 1970, dove ci furono circa mezzo milione di vittime, causate in gran parte dallo spietato “blocco” che i nigeriani strinsero intorno ai biafrani, che morirono principalmente per fame e per malattie dovute alla malnutrizione e al negato accesso all’acqua. Il Biafra è tuttora ricca di giacimenti di petrolio. La stampa parlò allora eufemisticamente di “carestia”, perché non era ben chiaro cosa stesse accadendo dentro i confini di quella dittatura africana.

Tra l’altro, nel 1969, anche dieci italiani dell’Eni vi persero la vita nei massacri. Oppure bisogna risalire a quella che negli anni divenne un’epopea, quella del Congo, all’inizio degli anni Sessanta, dove un’analoga secessione, quella del Katanga di Ciombè, insanguinò il Paese, che per mesi riempì le pagine dei quotidiani e i telegiornali, date le atrocità che vi si svolgevano. Noi italiani in particolare ricordiamo l’eccidio di Kindu, avvenuto l’11 o il 12 novembre del 1961 quando 13 aviatori italiani furono trucidati dalla soldataglia lealista del governo congolese. I nostri, inquadrati nelle forze dell’Onu in Congo, avevano portato rifornimenti al contingente malese che ivi operava. Scambiati per mercenari belgi o sudafricani, gli aviatori italiani subirono una sorte che non è qui il caso di ricordare, ma va rammentato che i caschi blu malesi non mossero un dito in difesa del loro commilitoni.

Dopo questi due fatti planetari, nulla più di ciò che è accaduto e accade in Africa è riuscito a conquistare le prime pagine dei nostri giornali: né i massacri etnici in Ruanda, nel 1995, né la Somalia, dove da oltre 15 anni è in corso un’autentica guerra tra bande rivali che si battono per il controllo non solo del Paese quanto dei porti e dei traffici d’armi e di droga. Oggi si battono soprattutto per instaurare nella nostra ex colonia un regime integralista islamico da cui fare base logistica per l’espansione in Africa e in Medio Oriente. è una terra senza legge, senza governo, senza istituzioni, da dove l’Onu è scappato e dove nessuno ha intenzione di tornare per chissà quanto tempo ancora.

Ma l’elemento che più deve inquietare e preoccupare è il fatto che l’Africa, come fu definita da un vecchio colono belga, è un’autentico “scandalo geologico”, nel senso che i metalli e le risorse minerario più preziosi della terra sono concentrate lì, e in quantitativi impressionanti. Oro, argento, rame, platino, uranio, diamanti e pietre preziose di ogni tipo, ferro, bauxite, rame, carbone, titanio e anche la tantalite-columbite, il cosiddetto coltan, che serve all’industria elettronica e la cui domanda è in continuo aumento. Molti di questi minerali, a cominciare da quest’ultimo, presente in particolare in Congo, vengono depredati sin dagli anni Sessanta da multinazionali che semplicemente recintano i giacimenti, li proteggono con guardie armate, estraggono il materiale, e lo lo caricano su aerei destinazione Stati Uniti. 

L’agricoltura, sia pure praticata con mezzi obsoleti e con metodi primitivi, dà lavoro a oltre il 60 per cento della popolazione: l’Africa ha coltivazioni immense di caffè, cacao, cocco, tè, gomma, ma non sempre si riesce a portare la merce dal coltivatore al consumatore, a causa del cattivo stato delle arterie di comunicazione e degli stessi mezzi di trasporto. Ebbene, con queste ricchezze a disposizione, è il continente più povero del mondo, e in moltissime nazioni il reddito pro capite è di un dollaro al mese.

È chiaro che c’è qualcosa che non funziona. La politica internazionale degli aiuti a pioggia, praticata anche dall’Italia, non è servita a nulla, se non ad arricchire i dittatori locali che con quei fondi hanno comprato armi o rimpinguato i loro conti all’estero. Fatta eccezione per il Sudafrica, nazione paragonabile al Canada o all’Australia, e ad alcuni Stati del Maghreb, non c’è Paese in Africa in cui si viva sopra la soglia della povertà. Negli anni Sessanta e Settanta, in nome di non si sa quale malinteso e demagogico senso di libertà susseguente alla fine della Seconda Guerra mondiale, il continente fu decolonizzato in fretta e furia, cosa che bloccò, forse per sempre, lo sviluppo dei popoli africani, non in grado di autogovernarsi e di badare a loro stessi, come i fatti hanno tragicamente dimostrato ovunque.

Ma la cosa più raccapricciante è che a una colonizzazione dichiarata e chiara, dove la potenza occupante sfruttava sì ma costruiva case, strade, ospedali dotandosi di un’amministrazione statale efficiente, se ne è sostituita una predatoria quanto strisciante, ossia quella economica: industrie e nazioni estraggono il petrolio e le altre materie prime, ma le ricadute sulla popolazione sono spesso insignificanti: lavori manuali, servizi, ma non c’è ad esempio la creazione di infrastrutture né quella di una futura classe dirigente, e i risultati si vedono.

La decolonizzazione avrebbe dovuto essere più graduale e concordata con le emergenti autorità locali, invece andati via gli europei, si sono scatenati i più ferici conflitti interetnici, sopiti per decenni grazie all’amministrazione straniera, che in parte ancora oggi perdurano. Congo, Ruanda, Burundi, Costa d’Avorio, Kenya, Ciad, Sudan, Zimbabwe, Ghana, Eritrea, Etiopia, Sierra Leone, Liberia, Algeria, Uganda, Guinea, Nigeria, Alto Volta, Mali, Angola, Mozambico e altri dei 54 Paesi del continente hanno assistito e vissuto guerre di ogni tipo: etniche, religiose, di confine, di potere, economiche e quant’altro. Nulla è stato risparmiato alle popolazioni delle quali abbiamo assistito, impotenti, ai massicci esodi in cerca della sopravvivenza. I vari “signori della guerra” e le potenze straniere hanno fatto il resto.

È tuttavia la Cina il Paese che più di tutti ha saputo approfittare della affrettata decolonizzazione africana. Basti una cifra: oggi l’interscambio tra Pechino e i Paesi africani supera i settanta miliardi di dollari. E, da sottolineare, importa più di quanto esporti, anche se l’import è principalmente costituito da greggio. Oltre 50 anni fa la Cina popolare aprì per la prima volta relazioni diplomatiche con un Paese africano: era l’Egitto di Nasser, inviperito con l’Occidente per la vicenda del canale di Suez e bisognoso di soldi per la faraonica diga di Assuan. Tra parentesi, fu poi l’Unione Sovietica a finirla.

Da allora la Cina non ha conosciuto rivali in Africa. Oggi sono 48 le nazioni africane (su 54 totali) che hanno relazioni diplomatiche col gigante asiatico. Al contrario di Urss Sovietica e Cuba, che dopo il 1960 inondarono il continente nero di armi, consiglieri militari e ideologia a buon mercato, la Cina ha sempre agito penetrando diversamente il mercato africano. Solo qualche volta è intervenuta con la fornitura gratuita di armi e altro, in funzione più che altro anti-sovietica. Ma a parte rari casi, la Cina è sempre stata apprezzata sia dagli africani sia dagli investitori internazionali per la serietà e puntualità nell’effettuare soprattutto i grandi lavori, come ad esempio, ai tempi di Mao Tse Tung, le ferrovie nell’est del continente, a Lusaka, in Zambia, e a Dar es Salaam, in Tanzania. E poi, avendo una forte industria che fabbrica armi di ogni tipo, Pechino ha tranquillamente venduto ogni genere di arma ad Etiopia ed Eritrea, al Sudan, e anche a Mali, Angola, Mozambico, Namibia, Sierra Leone. Dal legname della Liberia al cotone del Mali, ai prodotti ittici di Senegal e Capo Verde, in realtà è chiaro che è il petrolio africano l’obiettivo della Cina, soprattutto di questa Cina in cui le industrie pesanti si stanno espandendo a ritmo esponenziale e che richiedono sempre più energia.

L’ideologia anti-imperialista è passata di moda e oggi quella di Pechino è solo una politica pragmatica. Degli Usa già s’è detto. E l’Europa? Sta a guardare.

Tratto da “Polaris – la rivista n.3 – GUERRE DI POSIZIONE” – acquista qui la tua copia

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