Relazioni Internazionali

LA SVOLTA OTTOMANA – Le profondità strategiche turche

La geopolitica neo-ottomana prevede una sfera d’azione sugli spazi geografici appartenuti all’Impero Ottomano e relazioni strette con i Paesi eredi della civiltà islamico-ottomana. Davutoğlu a tal riguardo prende in considerazione tre aree d’influenza geopolitica: la prima è composta dalle aree regionali adiacenti che comprendono i Balcani, il Medio Oriente ed il Caucaso. La seconda dalle regioni marittime del Mar Nero e Adriatico, del Mediterraneo Orientale, del Mar Rosso, del Golfo e del Mar Caspio. La terza invece dalle aree continentali dell’Europa, dell’Africa Settentrionale, dell’Asia Meridionale, dell’Asia Centrale ed Orientale.

Davutoğlu, attento alle relazioni Turchia-USA come attinenti a civiltà disomogenee, afferma che la Turchia, non essendo intenzionata a rifiutare la propria eredità e il proprio retaggio geoculturale, non diverrà membro della UE. La sola possibilità di membership potrà riguardare un asse dialogante fra le due civiltà.

di Ermanno VisintainerLaureato in lingue e letterature orientali (turco, mongolo, persiano), membro dell’associazione studi e ricerche euro-asiatiche, presidente cofondatore di Vox Populi, ricercatore e saggista

Recentemente si fa un gran parlare della “Profondità Strategica”della Turchia e dei suoi cambiamenti di rotta rispetto alla precedente politica estera filoatlantica e filoisraeliana. Già il Premier turco Recep Tayyip Erdoğan, il 25 febbraio del 2005, in un discorso televisivo rivolto alla nazione esponeva il “principio della nuova politica della Turchia” basato su tre concetti fondamentali: Profondità strategica (storica e geografica), politica estera multivettoriale e visione centripeta del Paese. Secondo tale prospettiva, se la Turchia – situata al centro della massa continentale euro/afro/asiatica – attraverso una diplomazia attiva ed una rete di relazioni multivettoriali, riuscisse a ripristinare i suoi legami storici regionali, deterrebbe la possibilità di assurgere al rango di potenza globale.      

Il partito AKP al governo, rivendicando questa sfera d’azione definita “geografia ottomana”, prevede lo sviluppo di relazioni politico-economiche facendo leva sulle affinità storico-culturali e religiose che condivide con la regione.  

Tuttavia se vogliamo identificare in una persona il vero artefice di questa cosiddetta svolta neo-ottomana non possiamo esimerci dal menzionare il Ministro degli Esteri Ahmet Davutoğlu. 

Definito il Kissinger turco è autore, nel 2001, di un voluminoso testo di geopolitica di oltre 500 pagine ed intitolato “Stratejik Derinlik”, Profondità Strategica per l’appunto. Il libro, tradotto in quattro lingue fra le quali il greco, è totalmente bypassato dalla stampa, quantomeno italiana, che l’ha laconicamente definito un “libretto” del capo della diplomazia, in cui si invita ad una maggiore autostima per rivivere i fasti dell’impero ottomano.    

Davutoğlu, che sembra ricalcare le parole del geopolitologo Suat Ilhan, secondo il quale la Turchia si trova sul punto di congiunzione di tre continenti, di cui è l’epicentro attorno al quale si sono sviluppate le antiche civiltà, così come le religioni monoteiste, afferma che: “La Turchia non è un Paese periferico né all’Europa, né al Medio Oriente e nemmeno all’Asia centrale. La sua collocazione non appartiene a questi hinterland geografici. Essa è un Paese centrale capace di esercitare la propria azione su vasti ambiti geografici continentali. La Turchia è pertanto chiamata a tutelare questo retaggio, questa missione storica nonché a svolgere un ruolo consono a questo immenso retroscena. 

La seguente citazione estrapolata da p. 83 di “Profondità Strategica”, ci offre un’indicazione importante al fine di comprendere la politica estera dell’AKP, ovvero il neo-ottomanesimo:

“In Turchia, attraverso il retaggio politico-culturale che ha plasmato le caratteristiche storiche e geo-culturali di una collettività che è stata il centro politico del contesto di civiltà fondamentalmente più contradditorio ivi realizzatosi, il problema della compatibilità fra il sistema politico che si è formato sulla base della volontà delle élite al governo di aderire ad un’altra civiltà e questa condizione costituiscono, di fatto, un fenomeno esclusivo della sola Turchia”. 

Secondo Davutoğlu la fase repubblicana della Turchia è stata un progetto finalizzato a far entrare la Turchia nell’orbita della civiltà occidentale e questo l’ha declassata, nell’arena internazionale, alla stregua di un Paese debilitato e privato del suo protagonismo. Da qui l’esigenza di una “Turchia forte” che volgesse lo sguardo verso il proprio passato perseguendo una politica estera in linea con tali premesse.

Il Ministro vede nel vuoto lasciato dalla Guerra Fredda e nel tentativo di costituire un nuovo ordine internazionale, un’opportunità per la Turchia di creare un nuovo asse geopolitico. Finalmente – scrive – la sua collocazione geopolitica non deve essere più vista come un espediente strategico finalizzato al mantenimento dello status quo, bensì come un mezzo per aprirsi progressivamente al mondo e trasformare la sua funzione di attore regionale in quella di attore globale. La conditio sine qua non per dirigere la sua operatività locale, circoscritta alla salvaguardia dei confini, verso scenari continentali e globali è subordinata all’impiego di relazioni geopolitiche internazionali, economiche, politiche e di fiducia che si muovano in un contesto dinamico (p. 117).          

La geopolitica neo-ottomana prevede una sfera d’azione sugli spazi geografici appartenuti all’Impero Ottomano e relazioni strette con i Paesi eredi della civiltà islamico-ottomana. Davutoğlu a tal riguardo prende in considerazione tre aree d’influenza geopolitica: la prima è composta dalle aree regionali adiacenti che comprendono i Balcani, il Medio Oriente ed il Caucaso. La seconda dalle regioni marittime del Mar Nero e Adriatico, del Mediterraneo Orientale, del Mar Rosso, del Golfo e del Mar Caspio. La terza invece dalle aree continentali dell’Europa, dell’Africa Settentrionale, dell’Asia Meridionale, dell’Asia Centrale ed Orientale.

Davutoğlu descrive queste regioni come ambiti interdipendenti sui quali la Turchia deve accrescere la propria sfera d’influenza. 

Quanto al “Medio Oriente settentrionale che include le regioni caucasico-anatolico orientali e golfo-mediterraneo orientali, esso, da un punto di vista geoeconomico, ospita una quantità di fonti energetiche: dal petrolio azero alle risorse idriche dell’Anatolia orientale fino alle riserve di idrocarburi dell’Iraq settentrionale” (p. 128). Uno spazio geopolitico imprescindibile onde assurgere allo status di potenza.  

Assertore dell’impossibilità di una partnership graduale con la Comunità Europea, Davutoğlu è convinto che una Turchia che si allontani dall’Europa e dal Medio Oriente non sia destinata a diventare un Paese predominante.         

Davutoğlu, attento alle relazioni Turchia-U.S.A. come attinenti a civiltà disomogenee, afferma che la Turchia, non essendo intenzionata a rifiutare la propria eredità e il proprio retaggio geoculturale, non diverrà membro della UE. La sola possibilità di membership potrà riguardare un asse dialogante fra le due civiltà. Tuttavia nei confronti della UE la sua posizione è estremamente pragmatica e riguarda prevalentemente il raggiungimento di una mediazione – sospesa in un’attesa infinita – dell’Unità Doganale fra Turchia ed Europa. Le aspettative del Ministro sono che la UE si riscatti dal progetto di essere una civiltà esclusivamente cristiana, abbracciando quello universale di costituire una civiltà diversa in cui anche la Turchia possieda una sua collocazione.   

Per quanto riguarda il Medio Oriente, esso costituisce un hinterland da cui la Turchia non può sfuggire. Tuttavia, a dispetto della grande tolleranza dimostrata in epoca ottomana verso gli ebrei in fuga dalla Spagna, e nonostante qualcuno affermi che le sette cripto-ebraiche dei dönmeler esercitino un grande potere anche sulla Turchia contemporanea, un Paese con cui si sta effettivamente producendo un profondo attrito è Israele. Già nel 2009 Erdoğan aveva abbandonato il vertice di Davos dopo una polemica con il presidente israeliano Shimon Peres inerente all’assedio di Gaza da parte di Gerusalemme. In seguito aveva cancellato un’operazione militare congiunta con le forze aeree ebraiche. 

Peraltro alla luce di queste evoluzioni appare sintomatica anche la cosiddetta inchiesta “Balyoz”, l’Operazione Martello, condotta nei confronti degli alti esponenti delle Forze Armate turche, accusati di “golpe”, che intrattenevano solide relazioni con Israele. Questa nuova politica di Erdoğan ha, di fatto, messo in crisi i rapporti fra l’esercito – gendarme della laicità – ed Israele. 

Mentre, più recente è la vicenda che ha coinvolto la nave turca Mavi Marmara, bloccata dall’esercito israeliano a settanta chilometri da Gaza. Un “raid pacifista” che è costato la vita di nove civili turchi, la cui reazione immediata è stata quella di generare un’escalation della tensione fra Turchia e Israele. L’episodio ha causato danni “irreparabili” ai rapporti bilaterali fra i due Paesi che “non saranno mai più gli stessi”, ha dichiarato il Presidente turco Abdullah Gül. 

Recentemente Davutoğlu, incontratosi segretamente a Zurigo con il Ministro israeliano Benjamin Ben Eliezer ha preteso le «scuse formali» da parte di Israele, che però sono state rifiutate. Un atteggiamento questo non nuovo da parte israeliana, ma può veramente questo Paese permettersi di rinunciare al dialogo con un Turan emergente nella regione la cui sola alternativa è rappresentata da un Iran aggressivo?      

Tratto da “Polaris – la rivista n.3 – GUERRE DI POSIZIONE” – acquista qui la tua copia

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