È COME UN MAL D’AFRICA – L’Italia non conta senza la quarta sponda
La mancanza di una memoria storica non è mai un fatto positivo, così come la sistematica mistificazione del passato sulla base di opportunistiche considerazioni legate al presente.
Nell’Europa bipolare post 1945, e soprattutto dopo l’adesione alla NATO (1949), l’Italia fu declassata al rango di naturale portaerei ad uso statunitense per contrastare la minaccia sovietica. Lo stesso termine di “geopolitica” cadde in disuso: la Penisola, Paese sconfitto, doveva limitarsi ad assecondare gli ordini provenienti da Washington, attraverso l’Ambasciata di Roma.
Ma, all’interno di tale quadro non mancarono eccezioni, nel senso della riproposizione di un’idea di autonomia e dignità nazionale. Alludiamo, ad esempio all’azione, in epoche e contesti diversi, di Enrico Mattei e di Bettino Craxi.
di Giuseppe Scalici – Docente di storia e filosofia
I rapporti fra la nostra penisola e quella che un tempo veniva definita la “quarta sponda mediterranea” sono stati di ordine storico, conflittuale, ma anche di incontro proficuo fra civiltà diverse. Roma ha lasciato in territorio nordafricano imponenti vestigia che ancora oggi stanno a provare una volontà di civilizzazione ispirata a principi superiori e immortali, basti pensare, per fare un solo esempio, a Leptis Magna, uno dei principali centri, con i suoi centomila abitanti, della “Provincia africa” e patria dell’Imperatore Settimio Severo. Tutto il Nord Africa, dopo l’eliminazione di Cartagine, venne unificato da Roma di cui mantenne vivo il ricordo, anche presso popolazioni germaniche che, come i Vandali, si spinsero con le loro migrazioni presso le coste meridionali del Mediterraneo, fino alle invasioni arabo-islamiche del VII secolo e oltre.
Si tratta di un retaggio storico-culturale antico, ma la grande Storia non è destinata all’annichilimento. Non a caso nel 1911, al tempo della Guerra italo-turca che avrebbe dato all’Italia il dominio sulla Libia e sulle isole egee del Dodecaneso, anche il mite poeta Giovanni Pascoli, con “La Grande proletaria si è mossa” in cui scopriamo accenti nazionalisti e socialisti, proprio a quel retaggio ancestrale si richiamava. Il suo scritto, per accenti e stile, oggi risulta alquanto retorico ed enfatico, lontano da un’analisi storica e politica distaccata. Ciò non toglie, però, che la posizione di Pascoli sia evocativa di una tensione spirituale e di un primato volontaristico sulla realtà concreta: l’impresa di Libia era riuscita a “fare gli Italiani” dopo cinquant’anni dal raggiungimento di un’unità nazionale compiuta da élites lontane dal popolo, spesso non riconosciute come avanguardie lungimiranti.
Sarebbe oggi anacronistico e forviante riproporre, sic et simpliciter, quelle idealità. In ogni caso, anche se non viene ricordato, per motivi di correttezza ideologica, il colonialismo italiano, checché ne dicano storici accademici quali Angelo Del Boca o Nicola Labanca entrambi ostili a-priori nei confronti della politica “africana” del periodo postunitario e fascista e impegnati, soprattutto, a smitizzare la leggenda degli “italiani brava gente”, non lasciò nelle terre occupate soltanto sfruttamento, morte e distruzioni materiali e morali. Lasciò città, strade, opere d’arte, scuole, ospedali.
La mancanza di una memoria storica non è mai un fatto positivo, così come la sistematica mistificazione del passato sulla base di opportunistiche considerazioni legate al presente. Come pure appare segno di grave decadenza il totale disinteresse palesato dall’attuale “classe politica”, così lontana per essenza ed indole non soltanto dalla testimonianza disinteressata di una superiore Weltanschauung, ma anche da quell’etica della responsabilità di cui parlava Max Weber agli inizi del secolo scorso, per tutto ciò che non sia direttamente collegato all’utile e al contingente. E la non conoscenza di ciò che è stato, vorremmo dire “al di là del bene e del male”, risulta organica al mantenimento di uno status quo che da molte, troppe, lobbies è con tenacia voluto. Meglio limitarsi al presente, meglio non considerare che lo stato attuale dei fatti è il complesso esito degli eventi pregressi e non un caotico magma privo di profondità . Meglio limitarsi ad una visione nichilista: la manipolazione degli individui è garantita.
Tornando alle questioni africane, s’è visto come anche l’Italia postunitaria, fosse permeata da una tangibile tensione, insieme ideologica, politica e spirituale, partita sì da élites, ma fatta propria dal popolo. Successivamente, con gli Anni Trenta, l’espansionismo italiano in Africa e nei Balcani, i due obiettivi tradizionali della politica estera di Roma, s’inserisce in un contesto strategico più complesso, testimoniato, fra l’altro, dalla coeva rivista “Geopolitica” di Giorgio Roletto ed Ernesto Massi. L’idea era di rompere l’accerchiamento dell’Italia, “prigioniera nel suo stesso mare”, guardata a vista, e con ostilità palese, dalla Corsica, da Gibilterra, Malta e Grecia. Si intendeva spezzare l’ingombrante presenza britannica nel Mediterraneo. Un’Italia potente, in posizione dominante rispetto al Tirreno e all’Adriatico, avrebbe dovuto aspirare ad una continuità con le colonie in terra d’Africa. Risultava quindi organica a questa prospettiva la conquista dell’ostile Etiopia, dopo quarant’anni dallo scacco di Adua, come pure l’annessione al territorio metropolitano di Tripolitania e Cirenaica. Questo disegno avrebbe comportato uno sbocco sicuro sull’Oceano Indiano, a coronamento del primitivo progetto coloniale, iniziato, come è noto, con l’acquisto della Baia di Assab sul Mar Rosso, nel 1869. Venne ventilato, poi, il progetto di una ferrovia in grado di collegare Tripoli a Massaua in Eritrea . Tale ambizioso progetto, vera spina nel fianco per i dominions britannici, non venne portato a compimento a causa della guerra.
L’Africa Orientale Italiana fu il primo territorio ad essere perduto, nel 1941. Seguirono poi le provincie libiche e le isole del Dodecaneso. La Conferenza di Pace del 1947 ratificò, de jure, la fine dell’esperienza coloniale italiana e, potremmo aggiungere, la fine di una politica estera autonoma, da Stato sovrano. Nell’Europa bipolare post 1945, e soprattutto dopo l’adesione alla NATO (1949), l’Italia fu declassata al rango di naturale portaerei ad uso statunitense per contrastare la minaccia sovietica. Lo stesso termine di “geopolitica” cadde in disuso: la Penisola, paese sconfitto, doveva limitarsi ad assecondare gli ordini provenienti da Washington, attraverso l’Ambasciata di Roma. Ma, all’interno di tale quadro, che si protrasse fino al 1991 e, per rilevanti aspetti, risulta ancor oggi presente, non mancarono eccezioni, nel senso della riproposizione di un’idea di autonomia e dignità nazionale. Alludiamo, ad esempio all’azione, in epoche e contesti diversi, di Enrico Mattei e di Bettino Craxi.
Mattei, fondatore dell’Agenzia petrolifera italiana, intese, sul finire degli anni Cinquanta, fare dell’Italia un Paese indipendente per quanto attiene al fabbisogno di idrocarburi. A tale scopo agì in modo diretto e spregiudicato, andando a trattare direttamente con i leaders dei Paesi produttori, molti dei quali erano di recente indipendenza. Appoggiò il FLN algerino inimicandosi la Francia ma, fatto ritenuto all’epoca ancor più grave, non tenne in alcun conto le maggiori compagnie petrolifere, le cosiddette “sette sorelle”, facendo dell’Agenzia italiana una scomoda e inattesa concorrente dei consolidati interessi angloamericani, in particolar modo della BP e della Shell.
Mattei trovò la morte in un “incidente” aereo, in una fredda serata d’autunno del 1962, nei pressi Bascapé. Poche settimane prima diversi documenti classificati come “segreti” (ascrivibili al Foreign Office britannico e al Ministero inglese dell’Energia), recentemente recuperati presso l’archivio di Kew Gardens vicino a Londra dallo storico Nico Perrone, indicavano la pericolosità, per gli interessi inglesi, della politica “terzomondista” di Mattei come pure la necessità di bloccare le sue autonome iniziative.
Per quanto attiene a Bettino Craxi giova, ci sembra, ricordare la sua politica estera di respiro mediterraneo finalizzata, siamo negli anni Ottanta del Novecento, a fare dell’Italia un punto di riferimento per i Paesi in via di sviluppo, soprattutto del Nord Africa, rispettando la loro dignità e identità da un lato e l’idea di un’Italia soggetto politico autonomo dall’altro. E questo non sempre in sintonia, e lo dimostra il caso “Sigonella”, con le ingombranti e disinvolte prassi statunitensi. La politica estera craxiana venne pesantemente ostacolata, in un contesto di aperta ostilità, se non di guerra, contro il nostro Paese e il suo possibile ruolo autonomo in ambito mediterraneo, da entità straniere teoricamente alleate così come da forze politiche e lobbies italiane legate agli interessi NATO e “occidentali”.
Con la cosiddetta seconda Repubblica, e soprattutto dopo gli eventi dell’undici Settembre 2001, la politica estera di Roma, indipendentemente dalla collocazione politica dei vari governi, risulta allineata in modo granitico, con la motivazione di tutelare la pace, la democrazia e “l’interesse nazionale”, quindi in modo avulso da una visione geostrategica di più ampio respiro, alla politica “imperiale” d’oltreoceano. Ne sono manifestazione le partecipazioni, tuttora in atto e in posizione di subalternità, alle varie guerre “umanitarie” (in Iraq, Serbia, Afghanistan, ancora in Iraq etc.).
L’interesse per l’Africa dovrebbe, comunque, mantenere un rilievo prioritario per l’Italia, basti pensare alle indispensabili forniture di idrocarburi dalla Libia e dall’Algeria. In effetti, anche oggi, l’ENI svolge un ruolo attivo in Nord Africa. Ma siamo lontani dalla visione anti-imperialista di Enrico Mattei. Gli interessi in gioco, infatti, sono di ordine meramente economico, avulsi da un complessivo disegno politico e, meno ancora, geopolitico. E, anche da questo punto di vista, si nota una certa convergenza fra i vari governi succedutisi dopo il 1994. E’ la Realpolitik a prevalere, si ricordino a questo proposito le parole di scuse per i “crimini del colonialismo italiano” pronunciate recentemente da Berlusconi di fronte al Parlamento libico. Prevale insomma una prassi di piccolo cabotaggio concentrata, in primo luogo, sulle possibilità di sviluppo di singole imprese italiane e sul contenimento della immigrazione clandestina per conto dell’Unione Europea, la cui politica estera appare, de facto, parcellizzata e non poche volte contraddittoria.
Eppure l’Italia, all’interno dei nuovi equilibri geopolitici, potrebbe tornare a giocare un ruolo di preminente rilievo a livello mediterraneo e nordafricano.
Tratto da “Polaris – la rivista n.3 – GUERRE DI POSIZIONE” – acquista qui la tua copia