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STATI E BIG TECH: CHI COMANDA?

Se l’Europa vuole arginare lo strapotere delle Big tech non si può limitare ad alzare le tasse o a fare qualche multa, ma deve costruire delle valide alternative.

In caso contrario possiamo accontentarci delle briciole di un banchetto al quale non saremo mai invitati.

di Salvatore Recupero

Una delle questioni più dibattute in questi anni è il rapporto tra gli stati nazionali e i colossi della Silicon Valley. Ormai la comunicazione politica passa attraverso la rete, di conseguenza il potere dei social è cresciuto a dismisura (1). La questione è molto complessa, ma qualche esempio ci aiuterà a comprendere meglio quanto sta avvenendo. 

La disputa tra il governo australiano e Facebook

Cominciamo subito dalla cronaca di questi giorni (2). Il governo australiano ha approvato il News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code. Questo regolamento obbliga le piattaforme digitali a pagare gli editori (tramite un accordo privato forfettario) per i contenuti che viaggiano sui loro siti. È un modo per tutelare il diritto d’autore. La legge può essere discutibile, ma ciò che ha sorpreso tutti è il comportamento di Facebook. Il giorno prima che il provvedimento entrasse in vigore i cittadini australiani si sono accorti che le pagine Facebook di tutti i siti di notizie locali e internazionali non erano più disponibili. Purtroppo, non si trattava di un “bug” ma di una scelta di Zuckerberg. L’unico errore, a detta del colosso americano, è stato quello di aver bloccato temporaneamente anche diverse pagine di sanità pubblica e di emergenza. Nel complesso, come prova di forza non c’è male. 

La risposta del governo australiano non s’è fatta attendere. Il primo ministro australiano Scott Morrison si è scagliato contro il noto social: “Le azioni di Facebook per togliere l’amicizia all’Australia oggi, interrompendo i servizi di informazione essenziali sui servizi sanitari e di emergenza, sono state tanto arroganti quanto deludenti”. Inoltre continua Morrison: “Queste azioni confermeranno solo le preoccupazioni che un numero crescente di Paesi esprime sul comportamento delle Big Tech che pensano di essere più grandi dei governi e che le regole non dovrebbero applicarsi a loro. Potrebbero cambiare il mondo, ma questo non significa che lo gestiscano”.  

Tuttavia, il governo di Camberra proprio ieri ha fatto un passo indietro. Il ministro delle Finanze australiano Josh Frydenberg e l’amministratore delegato di Facebook Australia, Will Easton, hanno dichiarato di aver trovato un compromesso su uno dei punti chiave di questo testo a cui i giganti statunitensi del settore sono ferocemente contrari. Alla luce di quest’accordo il colosso Usa ha annunciato la revoca “nei prossimi giorni” del blocco ai contenuti di attualità nella Terra dei Canguri. Morale della favola: nonostante le parole di Morrison alla fine l’ha spuntata Zuckerberg.

Per dovere di cronaca è giusto dire che Google ha preferito la linea morbida, firmando nei giorni scorsi degli accordi di pagamento con i principali media australiani, accettando di pagare la News Corp di Rupert Murdoch (3).

L’Unione europea e le Big Tech

In Europa le cose non vanno meglio. Purtroppo, l’Ue (così come anche altri stati che procedono in ordine sparso) si limita ad invocare trasparenza nella gestione dei dati e il rispetto delle regole europee sull’antitrust. L’ultima conferma è arrivata lo scorso dicembre con la presentazione da parte della Commissione Europea del Digital markets act (4). Si tratta di uno dei pilastri della strategia digitale europea. Con questo provvedimento saranno elencati chiaramente “i divieti di pratiche sleali”. Inoltre, i consumatori potranno cambiare più facilmente piattaforma digitale. Tutto questo infine vuole garantire servizi migliori e prezzi più bassi per gli utenti. Le Big tech, pertanto, avranno “l’obbligo di offrire condizioni eque agli utenti commerciali che utilizzano le loro piattaforme garantendo ai fornitori esterni l’accesso e l’interoperabilità all’hardware, al software utilizzato dalle aziende tecnologiche”. 

Il testo di questa proposta è inattaccabile. Anche se sembra scritto dall’associazione dei consumatori. Si parla di marketing, ma non di politica. La Commissione finge di non sapere (ma forse non potrebbe altrimenti) che i colossi della Silicon Valley sono strettamente interconnesse con il Deep state Usa. La loro forza non è dettata solo dall’abuso di posizione dominate ma dal fatto che c’è un rapporto strettissimo con il Pentagono.  

Le Big tech e l’amministrazione Usa

Quanto è stato appena detto trova conferma in un interessante video sul canale Youtube ufficiale di Limes (la più importante rivista italiana di geopolitica) ad opera dell’analista Dario Fabbri (5). Quest’ultimo (che è anche consigliere scientifico della suddetta rivista) spiega bene i rapporti di forza tra le Big tech e gli Usa. Andiamo con ordine.

Intanto, Fabbri ci rivela che i colossi della Silicon Valley “non hanno inventato nulla”. Noi europei siamo convinti che i giovani californiani grazie alla loro inventiva possono creare delle multinazionali senza ricevere un dollaro da parte del governo. Le cose però non stanno così. Fabbri ricorda che l’invenzione di Internet nel 1969 (all’epoca chiamata Arpanet) non si deve ad un’azienda privata ma alle ricerche del Pentagono che necessitava di una rete interna per inviare comunicazioni sensibili. Questo argomento è stato trattato ampiamente anche da Gian Piero Joime (6) sul numero 20 di Polaris (Primavera 2018). 

Joime ricorda che: “Negli anni Settanta con la crescita di ARPANet si diede origine a decine di sottoreti, all’interconnessione tra reti e a una nuova serie di protocolli, destinati all’incremento dell’affidabilità nonché all’indirizzamento diretto delle risorse di rete. Ed Arpanet si tramutò in Internet e negli anni Ottanta si rese accessibile ancor più agli enti governativi, alla ricerca e agli ambienti universitari per consentire il trasferimento di file e posta elettronica”. Lo stesso discorso vale sia i microprocessori (unità di base di ogni computer o smartphone) che per i software che interpretano il linguaggio naturale come Siri.

 E veniamo ai giorni nostri. Tornando a Fabbri: “Il potere delle big tech appare, dunque, immediatamente diminuito se si pensa che la tecnologia della quale dispongono non è di loro produzione (e dunque proprietà) ma deriva dalle ricerche militari dello Stato federale”. 

Washinton, dunque, interviene in modo invasivo su queste aziende. Se le Big tech dovessero operare contro l’interesse nazionale qualcuno dal Campidoglio potrebbe chiedere l’applicazione della legge contro i monopoli (lo Sherman Act). I danni a quel punto sarebbero incalcolabili per i giganti della Silicon Valley. Inoltre, non dimentichiamoci che queste aziende gestiscono una mole impressionante di dati e questo fa comodo alla Casa Bianca perché i server che gestiscono i big data restano sul suolo americano. 

Qualcuno a questo punto sicuramente dirà: e allora Trump? Anche su questo punto è bene non farsi ingannare dalle apparenze (7). Vediamo perché. 

La “censura” contro Trump

Tutti sanno che l’ex presidente Donald Trump è stato bandito (o bannato se vogliamo stare al passo con i tempi) dai social. Se diamo una lettura superficiale sembrerebbe che l’ex inquilino della Casa Bianca abbia perso la sua battaglia con Twitter e Facebook. Le cose però stanno diversamente. La censura nei confronti del magnate newyorkese è costata cara a Jack Dorsey (Ceo di Twitter). Eliminare Trump, un signore che provoca grande traffico sui social network, non può essere una scelta felice dal punto di vista finanziario. Non dimentichiamoci che Trump ha vinto le primarie e poi è stato eletto presidente proprio grazie ai suoi cinguettii. Quale azienda sarebbe disposta a rifiutare milioni di clienti solo perché hanno idee non condivisibili? E se così fosse perché non è stato fatto nel 2016? La risposta a queste domande ci viene data proprio dall’analista di Limes: “La censura ai danni di Trump risponderebbe a una richiesta degli apparati federali americani”. Quest’ultimi- aggiungiamo noi- hanno deciso di puntare su un cavallo diverso cacciando l’ex inquilino della Casa Bianca in malo modo. Non bisogna essere complottisti ma neanche ingenui.

I social influenzano la politica (8) in tutte le parti del mondo, ma, nel recinto di casa stanno a testa bassa. Gli Usa si considerano un impero (lo sono) ed è normale che le loro multinazionali (i Big Tech soprattutto) diventino il loro braccio armato. Se l’Europa vuole arginare lo strapotere delle Big tech non si può limitare ad alzare le tasse o a fare qualche multa, ma deve costruire delle valide alternative. In caso contrario possiamo accontentarci delle briciole di un banchetto al quale non saremo mai invitati.

1. (A)Social Network – La rete tra interessi economici e politici di Paolo Caioli Polaris Rivista Autunno 2011

2. Facebook blocks Australian users from viewing or sharing news Bbc News 15 Febbraio 2021

3. Google to pay Murdoch’s News Corporation for stories, Bbc News 15 Febbraio 2021

4. The Digital Services Act fonte:
https://ec.europa.eu/digital-single-market/en/digital-services-act-package

5. Quanto sono potenti i Big Tech? Di Dario Fabbri Limes Rivista Italiana di Geopolitica 22, Gennaio 2021
https://www.youtube.com/watch?v=wp4ltijUrZc

6. 1968: odissea nell’Infosfera Di Gian Piero Joime Polaris Rivista Primavera 2018

7. Webinar ACCADEMIA EUROPA – SOVRANA È LA CENSURA- Come comunicare da uomini liberi in un campo minato.
https://www.centrostudipolaris.eu/2020/12/01/accademia-europa-sovrana-e-la-censura/

8. Labirinti Comunicativi – Internet, social networks e partecipazione di Carlo Bonney Polaris Rivista Autunno 2011
https://www.centrostudipolaris.eu/2011/10/01/labirinti-comunicativi-internet-social-networks-e-partecipazione/

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