RiflessioniSpeciale Covid19

COME AFFRONTAVAMO LE PESTILENZE – Epidemie, impatti e risposte politiche dall’età classica alla tarda antichità

La classicità ci presenta le pestilenze come momenti di crisi psicologica oltre che sanitaria, come seppero comprendere i condottieri Greci e Romani che in epoche e luoghi differenti hanno mostrato lo stesso orgoglio e la stessa determinazione nell’agire, nonostante la peste, per il bene di uno Stato atto – come ha giustamente scritto Tucidide – a rappresentare il bene comune.

di Marina Simeone – Docente di filologia classica presso e-campus e di latino e greco al liceo Giulio Cesare di Roma

La classicità ha sviluppato l’idea che la malattia fosse “uno stato innaturale del corpo opposto alla salute” da attribuire ai miasmi presenti nell’aria o il più delle volte alla cattiva alimentazione, in ogni caso ad una perdita di “armonia”, che il corpo in salute invece evidenzia. A quell’armonia i più grandi medici dell’antichità, riconoscibili nel pensiero di Ippocrate o di un Galeno, hanno spinto il cittadino a conformarsi, facendo della prevenzione la vittoria della salute e dello stile di vita moderato, prima e più che della terapia. Costruire una città e gestire il proprio corpo finivano per essere azioni indirizzate dallo stesso pensiero paideitico, quello che nutre l’anima e il corpo dell’uomo almeno quanto l’ambiente che lo ospita e la politica che lo ispira. Questa totalità di trattamento è lontana dalla nostra settoriale mentalità moderna, in grado di recepire il problema fisiologico e di arginarlo e curarlo rispetto al resto, senza interagire con il resto o considerarlo importante a tal fine. 

L’osservazione di “stati innaturali” del corpo ha indotto Ippocrate a redigere schede nosologiche atte ad indicare con il termine “ἐπιδημία” non quanto oggi prescrive la scienza moderna, ovvero “malattia diffusa su larga scala e trasmessa per infezione”, ma piuttosto la indicazione di una singola malattia che “soggiorna” in un luogo specifico. Tali schede infatti coincidevano con le visite dei medici in determinate Regioni, così da scovare epidemie del tipo “tosse” oppure “dissenteria”. La parola stessa rimandava alle“epidêmiai” altrimenti dette le visite periodiche del prefetto di Roma in Egitto, per amministrare la giustizia ed ascoltare le petizioni dei cittadini. Questi soggiorni periodici erano come i mali stagionali più frequenti per taluni popoli rispetto ad altri, più virulenti con ciascun clima che con altro, meno generosi a determinate condizioni rispetto ad altre. La valutazione globale ha permesso ad Ippocrate di trovare rimedi, il più delle volte fruttuosi. Altra cosa invece erano per tali medici le pestilenze, diffuse genericamente e su vasta scala, che lo stesso Ippocrate nel De flatibus,6 differenzia:
“Esistono due tipi di febbri […], una comune a tutti, che è chiamata pestilenza(λοιμός), e un’altra individuale, che si manifesta in coloro che seguono una cattiva dieta”.

La peste di Atene

Una ricerca filologica supponendo i termini λοιμός ed equivalente pestis e pestilentia ci permetterebbe di verificare l’impatto che ondate epidemiche hanno avuto nella storia delle società classiche, pur consapevoli della difficoltà di diagnosi patologica specifica.
Nella memoria storiografica ed epigrafica nonché papiracea di eventi pestilenziali abbiamo validi esempi in epoche distanti e geografie non limitrofe. Pensiamo alla peste di Atene del V secolo descritta da Tucidide (Guerra del Peloponneso, II, 49 – 55) come “morbo di tale gravità che mai precedentemente era stato ascoltato e narrato”. Proveniente dall’Etiopia invase con tale violenza la città di Atene da sconvolgerne l’assetto militare, economico e politico; essa segnò “per Atene l’inizio del dilagare della corruzione, ciò che prima si faceva solo di nascosto, per proprio piacere ora lo si osava liberamente… Nessuno era disposto a perseverare in quello che pensava fosse il bene, perché non poteva sapere se non sarebbe morto prima di arrivarci… La paura degli Dei o delle leggi umane non rappresentavano più un freno…dal momento che vedevano morire tutti allo stesso modo.” Tucidide stesso dichiara di essere stato colpito dal morbo e di esserne sopravvissuto, per questo oltre che acuto osservatore dei sintomi che descrive puntualmente ne fu anche indagatore attento dei risvolti psicologici suscitati. Il popolo di Atene impaurito, rimasto solo, abbandonato dagli Dei si schiera contro gli uomini e chi per essi rappresenta lo Stato, Pericle lo stratega, l’alfiere della democrazia, il “pazzo” che ha trascinato Atene nella guerra contro Sparta. È lui che sempre nel II libro prende la parola e si difende dalle accuse che si aggiravano nell’aria come un macigno pronto a schiacciarlo. E Pericle continua a difendere la sua scelta e ad invitare il popolo stanco e sofferente a combattere oltre la peste e nonostante la peste gli invasore che depredavano le loro terre e facevano vacillare le loro vite. Alla paura, all’interesse individuale per la propria salute Pericle oppone l’interesse dello Stato perché nessun cittadino debole e sventurato può diventare forte in uno Stato in condizione disastrosa. “Se lo Stato è prospero – concluderà Pericle – sarà in grado di reggere alle sventure private dei cittadini, mentre il singolo di per sé non può sostenere quelle dello Stato”. Il popolo lo ascoltò, la guerra del Peloponneso continuò senza sosta, ma Pericle morì di peste qualche anno dopo e la democrazia traballò sotto i colpi inferti al sistema non solo dalla pestilenza quanto dall’avvento di incapaci avventurieri in grado solo di compiacere il popolo. 

La peste a Roma

Anche nell’ambito della storiografia romana esistono racconti epidemici interessanti come il morbo mortifero narrato da Livio (Storie, III), che colpì Roma sotto il consolato di Elbuzio e Servilio intorno al 459 a.C.. Durante un’estate malsana le campagne e la città furono infettate dal morbo che crebbe a causa della promiscuità di uomini e armenti e che era passato dagli animali a colpire l’uomo. Livio non specifica il tipo di malattia e non ne riconosce la specie, ma ne individua la pericolosità soprattutto rispetto la difesa della città. Morti numerosi soldati e giovani contadini e con i terribili Volsci alle porte, spentosi anche il secondo console in carica e morta la gente anonima, non rimanendo uomini, il Senato invitò i cittadini a rivolgere preghiere agli Dei, affinché facessero cessare la pestilenza. Gradualmente – prosegue Livio – terminata la stagione malsana la malattia “lasciò i corpi stanchi” e i Romani seppero tornare ad occuparsi alle sorti dello Stato e alla sconfitta dei nemici di sempre.
Maggiori dettagli accompagnati da immagini apocalittiche ci rimangono invece nella letteratura tardoantica rispetto la peste che colpì l’Impero di Roma nell’età di Marco Aurelio. Definita la “peste antonina” o “peste di Galeno” dal nome del medico osservatore che ce ne ha descritto i sintomi e che fu presumibilmente una epidemia di vaiolo, forte al punto da mietere vittime in tutto l’impero romano per lungo tempo. Sulla peste antonina gli studiosi si sono a lungo divisi, perché se per il Niebhur la peste influì ad accelerare la crisi del II secolo d.C.; per altri studiosi che fanno capo a Gibbon e Rostovtzeff essa non fu che il retroscena di una situazione limite economica e politica.
Siamo agli inizi del 166 d.C., quando il trentasettenne Galeno descrive in un suo libro l’infierire di una grande pestilenza a Roma: (De libris propriis, 1)
“Trascorsi altri tre anni a Roma, quando incominciò la grande pestilenza (ἀρξαμένου τοῦ μεγάλου λοιμοῦ), subito me ne andai da Roma dirigendomi in patria”.

La peste nell’Impero di Marco Aurelio

Il morbo si liberò in Mesopotamia probabilmente nel 165 d.C. con l’entrata delle legioni romane in Seleucia, dopo un lungo assedio e l’occupazione della capitale Ctesifonte; proprio nel 165 d.C. infatti si registrano nella capitale di Nisibi i primi decessi per peste. Per Dancan – Jones che a lungo si è interessato della questione è stata piuttosto la Cina la madrepatria del malanno epidemico; una terra in cui tra il 110 e 180 d.C. si sono registrati ben sei eventi epidemici. In ogni caso in fatto di mortalità essa superava di gran lunga le febbri conosciute dalla medicina antica. Questa anomalia non sfuggì alle considerazioni del medico Galeno il quale nel 168 – 169 d.C. chiamato dagli imperatori a Roma si fermò ad Aquileia dove: “la pestilenza cominciò a imperversare come non mai prima (κατέσκηψεν ὁ λοιμὸς ὡς οὔπω πρότερον)», fatto che, aggravato dalla contingenza invernale, provocò una mortalità altissima (πλείστωνἀπολλυμένων) nella popolazione comune” (De libris propriis,3). Il ritorno del morbo perdurante fu mortifero oltre ogni aspettativa se dobbiamo prestar fede e non esagerare le notizie provenienti da fonti papiracee e letterarie tardoantiche o contemporanee come Cassio Dione che per Roma parla di 2000 morti al dì ancora nel 189 d.C.. Dalle testimonianza desumiamo che la peste era ancora presente nel 189, probabilmente in altro ceppo a discapito di una demografia che continuava a scendere modificando l’assetto economico dell’impero e non sempre in peggio le condizioni di vita. Fonti papiracee dimostrano la tragicità del momento sulla base della rendicontazione della riscossione delle imposte. Pensiamo ad esempio al papiro carbonizzato di Thmouis, edito da Sophie Kambitsis nel 1985, redatto da un funzionario che segnalava gli arretrati di tasse del 169/170. I villaggi egiziani risultano essere stati decimati alché il funzionario ha stabilito una drastica riduzione di contributi e tasse, “sostenendo che la maggioranza degli abitanti sono stati uccisi dagli empi Nicochiti [pastori-banditi], giunti nel villaggio ed incendiatolo, altri sono morti per la calamità pestilenziale”. La cifra di spopolamento che raggiunge il 70% o in alcuni casi il 90% è sicuramente derubricabile non al solo fenomeno pestilenziale, ma ad altre concomitanze economico-sociali. Eppure le cifre ci indicano il collasso di un mondo in disfacimento: a Karanis, sulla frangia settentrionale dell’Arsinoite (Fayum), la popolazione subisce un decremento del 33 – 47 %; a Soknopaiou Nesos accade che su 244 maschi adulti registrati nel 179 circa 59 più 19 muoiano tra gennaio e febbraio del 179 d.C.; sempre nel 179 d.C. si registrano epigrafi funerarie a Terenouthis dovute al prolungarsi della epidemia.
Se le campagne egiziane languono non vivono meglio le città, a quanto ci ha tramandato la discutibile casistica propinataci dalla Historia Augusta del IV secolo d. C., in cui è riportata durante l’età di Marco Aurelio la “necessità di sbarazzarsi dei numerosi cadaveri in tempi rapidi”, morti per la tremenda pestilenza oppure riferibili alla scelta costretta di “ammettere gli schiavi al servizio di leva”. L’esercito romano si trovava a dover combattere il fronte occidentale invaso dai Marcomanni e quello orientale reso instabile dai Parti, il capolavoro politico di Marco Aurelio fu proprio riuscire a ricavare una vittoria nella tragedia del momento. 

Marco Aurelio oltre la peste

La difficoltà a reperire soldati è sottolineata anche in Orosio, fonte tarda, cristiana, che spiega (Storia Contro i pagani, VII, 5): “Ne seguì una pestilenza che si diffuse in numerose province e percorse con così vasto contagio tutta l’Italia che per ogni dove ville, campi e città abbandonate senza coltivatori né abitanti si ridussero a rovine e boscaglie. Si narra poi che l’esercito romano e tutte le legioni sparse nei lontani quartieri invernali fossero a tal punto assottigliate che la guerra contro i Marcomanni scoppiata nel frattempo non poté essere condotta senza un nuovo reclutamento di soldati, che impegnò per un triennio senza sosta Marco Antonino a Carnunto”. Marco Aurelio, l’imperatore filosofo, che governò il mondo esteriore potenziando con la paideia appresa dai Greci il suo mondo interiore non esitò a reagire al morbo primariamente onorando gli Dei, favorendo ogni forma di iniziativa a carattere religioso; Aquileia si arricchì di ritualità e gli elenchi dei seguaci di Mitra registrarono un considerevole aumento. Nel mentre seppe combattere sul fronte partico fino al 166 d.C. e iniziò la difesa del confine renano e danubiano, che si protrasse fino al 180 d.C. Con lucidità impareggiabile, questo imperatore macilento e riflessivo si mise alla testa delle sue legioni sfidando e vincendo il nemico. Non fiaccò i provinciali provati dalla peste e dalle invasioni con nuove tasse, ma vendette i tesori d’arte e i gioielli dei palazzi imperiali per costruire il suo capolavoro strategico: un esercito di manovra ed un sistema di protezione dell’Italia. Due nuove legioni furono arruolate e costruito un corpo mobile di notevole forza la Praetentura Italiae et Alpium sostenuto da fortificazioni a protezione delle Alpi. I comandanti vennero selezionati con severità, adatti al difficile e oneroso compito al punto che dopo poche manovre i barbari furono allontanati da Aquileia e rispediti al di là delle Alpi. Di altrettanta importanza fu la politica amministrativa di Marco Aurelio, sensibile come poche alla crisi economica e sociale che l’Italia stava attraversando a causa della peste e dell’abbandono delle terre coltivate, aprendo nuove rotte commerciali, come quella cinese del 166 d.C. e distribuendo il frumento destinato a Roma nelle province e restaurando le vie di Roma e le strade provinciali per i rifornimenti annonari.

La peste nella tarda antichità

Secondo uno studio non certo apocalittico ma realistico della peste antonina ci sarebbero voluti settant’anni per rimettere in equilibrio l’andamento demografico e produttivo dell’impero, essi trascorsero ma incontrarono l’accidente della peste di Cipriano, scoppiata nel 250 d.C. fino al 262. Un’epidemia di vaiolo o morbillo che decimò esercito e popolo, arrivando a spegnere quasi un terzo della popolazione europea in dieci anni, associata come nel caso precedente a devastazioni e invasioni barbariche. Ne ha lasciato una testimonianza a tratti macabra Cipriano, vescovo di Cartagine e martire, che scrisse una lettera pastorale nel 252 d.C. “De mortalitate”, nella quale paragona la peste al morbo che saggia la tempra degli uomini e interroga la libertà umana, una occasione di redenzione e salvezza. Cipriano si fa portavoce del timore della morte che si insinua nelle menti di un popolo attaccato da pestilenze improvvise e indica nella fede la sola ancora di salvezza prima che nell’intervento medico. La religione cristiana incrementò la sua credibilità potendo inserirsi nella crisi economica, sociale e demografica di questi anni come faro di orientamento necessario in un pantheon abbandonato dalle tradizionali divinità. Ma se il popolo rifuggiva dalla epidemia gli imperatori che si succedevano in questi tragici anni continuarono con decisione a combattere per frenare la resa dei limes. Il generale Emiliano sgominò i barbari in Mesia, Claudio il Gotico e Aureliano assicurarono l’unità dell’impero avanzando contro gli impostori rafforzati dalla debolezza imperiale.
Era finito il concetto di impero e cominciava la tarda antichità, che in Diocleziano avrebbe trovato il restauratore attento e rispettoso, novello Iovio, sperimentatore della meritocrazia adottiva della tetrarchia. I fenomeni epidemici nel mondo classico sono stati sempre più invasivi e per lo più scoppiati in seguito ad agenti microbici provenienti dall’Asia del sud. Viaggiavano per mezzo di merci e guerre, sulle vesti dei soldati come nei vagoni dei mercanti di vasellame e primizie. Spopolavano zone e incentivavano la creazione di nuovi insediamenti, funzionando da freno repressivo per riequilibrare secondo l’insegnamento malthusiano lo status economico dell’impero. In una società stanca hanno portato al cambiamento di indirizzo politico, religioso, economico e di tessuto sociale, diffusa invece in una società coesa e dipendente da una forza politica concreta e autorevole hanno ingigantito la forza dello Stato stesso. In entrambi i casi la classicità ce le presenta come momenti di crisi psicologica oltre che sanitaria, come seppero comprendere i condottieri Greci e Romani che in epoche e luoghi differenti hanno mostrato lo stesso orgoglio e la stessa determinazione nell’agire nonostante la peste per il bene di uno Stato atto – come ha giustamente scritto Tucidide – a rappresentare il bene comune.

Tratto da “Polaris – la rivista n.24 – NuovAnormalità” – acquista qui la tua copia

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Language