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PER UN AMBIENTALISMO ARDITO – Né Greta né Trump, una terza posizione

In questa fase di caos politico generale, in cui manca una visione forte del futuro europeo, è invece possibile promuovere un’industria innovativa ecologica europea, che sfrutti le risorse in un’ottica di economia circolare, e che veda l’Italia come leader.

Le attività di riciclo, di produzione di biometano dai rifiuti organici, di ecodesign, di rinnovamento urbano possono generare nuovi posti di lavoro (fino a 800.000 in un anno) e far crescere il PIL, molto di più di manovre finanziarie realizzate a tentoni da governi improvvisati.

di Sergio BisacciaManager ambientalista

È difficile provare una sensazione diversa dalla nausea se si segue il dibattito di questi ultimi tempi sul “green new deal”, il “plastic free”, la green economy, etc.: c’è chi sfrutta opportunisticamente l’ecologia per recuperare antiche posizioni di rendita politica, e chi, dall’altra parte della barricata, vuole salvare imprese amiche e portafoglio negando il problema ecologico, e gettando (nel petrolio e nel gas) il bambino con tutta l’acqua sporca.

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La nausea continua a crescere quando si vede la pulzella Greta Thunberg andare alle corti dei potenti a dirgli che le stanno rubando il futuro, mentre loro si spellano le mani per applaudirla, invitarla, raccontarla ai nipoti, senza fare nulla, e la nausea non si placa neanche quando si sente Trump dire che i cambiamenti climatici sono “una balla inventata dai cinesi per combattere la crescita economica degli Stati Uniti d’America”.

Innanzitutto sarebbe sano constatare che siamo nel mezzo di una guerra geopolitico-economica globale sull’energia, e che la preoccupazione per il Pianeta e le sacre tesi ambientali sono solo uno sfondo su cui si gioca una enorme battaglia di interessi. Gli ambientalisti e i fossilizzati sono cavalli di troia che agiscono, spesso inconsapevolmente, a favore di uno o dell’altro esercito in campo.

Due eserciti trasversali

Un esercito è quello delle energie fossili: petrolio (da cui dipende ancora il 95% dei trasporti mondiali), carbone (prima fonte mondiale di produzione di energia elettrica), e gas, ed è un esercito che conosciamo, sapendo abbastanza bene e da decenni in quali mani sia. Chi poi può permettersi il nucleare per motivi militari, se lo tiene. Più evanescente da individuare, ma già molto potente, è invece l’altro esercito, quello delle terre rare e dei minerali (necessari per le batterie di auto elettriche e accumulatori di energia), delle pale eoliche, dei pannelli solari, della carbon capture, del biogas e, soprattutto, del 5G e dell’intelligenza artificiale, i nuovi motori della “green economy”.

La novità è che questi eserciti sono trasversali agli stessi Stati e reagiscono a logiche (ed ordini) non identificabili automaticamente con gli interessi nazionali: ad esempio gli USA sostengono i fossili, ma la California e molte imprese della silicon valley giocano da tempo dall’altra parte; la Cina ha i piedi ben saldi in entrambe gli eserciti; gli Arabi sono fra i leader della coalizione fossile, ma in realtà stanno preparando il salto della quaglia dall’altra parte. La Russia è l’unico stato che sembra ancorato ad un esercito, ma non ne possiamo essere sicuri per i prossimi decenni.

E l’Europa? Persa nella sua crisi d’identità e nel masochismo antistorico, l’Europa non ha neanche una vera politica energetica comune e, guarda caso, fa una battaglia di retrovia, in entrambe gli eserciti, parteggiando ora per una ora per l’altra fazione, ma mai per sé stessa. 

Un ambientalismo futurista europeo?

In questo contesto si può individuare una terza posizione, più vicina ad una forma di sanità mentale e magari più connaturale al genio italico ed europeo? Una nuova posizione, fondata su una visione di medio-lungo termine, che possa garantire una stabilità energetica ed economica per le generazioni future, sganciandola da retaggi delle lobby passate e coniugando tradizione ed innovazione? Un ambientalismo futurista europeo, che recuperi lo spirito degli anni venti dello scorso secolo e lo applichi concretamente agli anni venti di questo secolo? Si può fare. A patto di seguire alcuni principi fondamentali e di ribaltare alcune concezioni che in passato hanno confuso anche la destra radicale.

Ecco qualche spunto:

1) L’autonomia energetica dell’Europa e dell’Italia deve passare attraverso il sole, il vento, l’acqua e le biomasse. Non c’è dubbio. Quello che rappresentavano il petrolio ed il nucleare nel 1920 (cioè la possibilità di sviluppo innovativo e dell’intelligenza creativa nelle nostre mani) lo offrono ora le energie rinnovabili. Non esiste fonte energetica più “sovranista” di quella gratuita e naturale, che l’Italia e l’Europa hanno in abbondanza e di cui possono approvvigionarsi costantemente senza dipendere da Paesi lontani. Un Mussolini, oggi, punterebbe ad un’autarchia energetica e rigenerativa fondata sulle nostre energie rinnovabili, che fra l’altro ridarebbe al Mediterraneo un ruolo centrale e spezzerebbe ogni subalternità energetica, piuttosto che far dipendere dal prezzo del barile o dal capriccio di Putin o di un emiro il nostro futuro. Eppure i sovranisti “de noantri” preferiscono i combustibili fossili e snobbano le rinnovabili… combattendo inconsapevolmente una battaglia masochista, chissà perché. L’ENEL l’ha capito, l’ENI no.

2) In questa fase di caos politico generale, in cui manca una visione forte del futuro europeo, è invece possibile promuovere un’industria innovativa ecologica europea, che sfrutti le risorse in un’ottica di economia circolare, e che veda l’Italia come leader. Le attività di riciclo, di produzione di biometano dai rifiuti organici, di ecodesign, di rinnovamento urbano possono generare nuovi posti di lavoro (fino a 800.000 in un anno) e far crescere il PIL, molto di più di manovre finanziarie realizzate a tentoni da governi improvvisati. Già oggi l’Italia (non certo per merito dei governi) è la prima economia “green” fra i cinque grandi big europei: sono dati che spesso ignoriamo e che non utilizziamo. Le nostre imprese eccellono nel mondo e la Cina offre ponti di collaborazione. Dovremmo puntare ancora di più su questa nuova forma di economia ed esportarne i frutti, piuttosto che criticarla e franarla. 

3) L’economia circolare, tanto alla moda, non è altro che un’evoluzione del concetto di autarchia rigenerativa, che vale anche e soprattutto in agricoltura, ma che è applicabile a quasi tutti i processi produttivi.

4) Visto che ormai anche la Germania (per convenienza e necessità) sostiene che il vincolo europeo di bilancio del 3% non si debba più applicare, in particolare agli investimenti green nazionali, noi che siamo i primi in economia verde, freghiamocene dei vecchi lacci e lacciuoli e investiamo, anche in rosso di bilancio, per dare energia e forza alle imprese italiane che puntino sull’ambientalismo del futuro. 

5) Attraverso nuove forme di tassazione a livello europeo (non chiamiamoli dazi), ad esempio un mix di carbon tax e border tax, rafforziamo il primato ecologico europeo limitando l’importazione di beni e servizi asiatici e americani a basso costo e con effetti negativi sull’ambiente, e promuovendo, anche su base ecologica, i prodotti italiani ed europei.

Buttiamo a mare la convinzione, vecchia ed errata, che l’ambientalismo sia di sinistra e creiamo un nuovo ambientalismo futurista europeo. Il momento è propizio.

Tratto da “Polaris – la rivista n.23 – PER UN AMBIENTALISMO FUTURISTA” – acquista qui la tua copia

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