Editoriali

EDITORIALE POLARIS n.7 – Il fantasma della libertà

Le utopie rivoluzionarie del XVIII secolo eressero una statua alla Libertà come si fa per i grandi dopo morti. Quasi volendo ammettere di averla ghigliottinata per eccesso di zelo. 

Da allora la Libertà-statua è diventata anche un motto, spesso confuso e infine inflazionato.

Certamente il motivo ispiratore di quel monumento è, insieme alla giustizia e alla finalità, uno dei beni maggiori dell’uomo. Quando diventa però retorica, non si sa più bene cosa sia.

“Libero per che cosa” ci avrebbe chiesto Nietzsche, dando un significato più profondo a quella che rischiava di apparire come una caotica e capricciosa rivendicazione di licenziosità. Libero di “diventare quel che sei” ci suggeriscono i nostri antenati, i quali sapevano anche che felicità significa fedeltà alla propria natura e non fortuna occasionale al gioco o in amore. Libertà, insomma, di assumere il proprio destino e di compierlo. In linea con un dovere e senza calpestare le libertà altrui.

Oggi la statua-Libertà è emblema dell’occidente e dell’occidentalizzazione: ma dietro la statua, c’è libertà? O, piuttosto, quella cultura totalizzante che pare intenda dirci che dobbiamo essere “liberi di diventare come vuole il modello”, non è in qualche modo liberticida?

Libertà: più se ne parla più la si restringe. È un paradosso che deriva, come per tanti altri casi, dalla confusione dei termini, cioè da uno sradicamento.

È vero che alcune libertà a specifiche minoranze sono state concesse, magari a scapito di tutti. Altrimenti come potrebbero le agenzie private di rating avere le mani così sciolte da poter essere determinanti per l’avvenire dei popoli? Ma si tratta di una forma di libertà o di puro arbitrio? E infatti che libertà lasciano, queste, ai popoli e agli uomini che li compongono?

Si ribatterà che le battaglie per le libertà si sprecano: libertà delle minoranze, libertà dei gusti sessuali.
Battaglie per le libertà che, non a caso, non riguardano la libertà, data per scontata, su cui però non si riflette più. Pretese di libertà caduche ed erronee per almeno due oridini di ragioni. Innanzitutto perché chi non faccia parte di una qualsiasi minoranza non è garantito né fattualmente rappresentato ed è sempre più in balìa di frequenti decisioni inique, poi perché le libertà che si reclamano sono quelle di uniformazione. Le trasgressioni van bene purché smettano di trasgredire davvero e rientrino nel modulo conforme, con tanto di moralismo. Gli omoessuali? Si sposino!

Infine, va rilevato in cosa si è condensata realmente questa battaglia per le libertà. Nella pretesa che ci sia rispetto per obbligo. Rispetto per obbligo nei confronti di una categoria protetta.

Dal che si deduce che non si tratta mai delle persone, del loro specifico valore, ma della loro categorizzazione: esse non valgono per quel che valgono, ma per come si connotano collettivamente. Dal labirinto non sono uscite, hanno solo cambiato di segno ribaltando i pregiudizi: non solo non si deve diffidare di un “diverso” ma se non lo si considera addirittura migliore si rischia di essere puniti per legge. Una legge, ovviamente, di libertà.

Non diversamente vanno le cose quando sono in ballo minoranze organizzate di stampo ecologista o salutista. Eccoci tutti ai lavori domestici forzati, obbligati a fare raccolte differenziate dei rifiuti senza con ciò nemmeno evitare di pagare le tasse sulla spazzatura. E se gli omosessuali o gli individui di colore almeno legalmente sono tutelati contro la discriminazione, tifosi, bevitori e soprattutto fumatori non possono proprio dire altrettanto. Per questi ultimi l’occidente che venera la figura di Mandela ha addirittura riprodotto l’apartheid.

Tutto questo è frutto di un’altra utopia libertaria. Quella che si concluse – non si aprì – nel 1968 con l’abortita espressione politica di un vitalismo giovanile nato dieci anni prima con il rock e continuato con i beatniks e l’on the road.

Coloro che provarono a interpretare e a indirizzare quell’ondata giovanile e le sue aspirazioni sbagliarono tutto. Se ne avvidero presto e a quel tavolo che avevano promesso di rovesciare si accomodarono soddisfatti diventandone i vigilantes. La loro rivolta aveva avuto come motto “vietato vietare”; la loro restaurazione, invece, è stata una tavola ininterrotta di regolamenti e di divieti.

Il cittadino occidentale vive ormai un’esistenza contrassegnata da una serie ininterrotta di comportamenti obbligati che si moltiplicano con l’andare del tempo. Ha sempre più regole da osservare, pena tutta una serie di sanzioni, sicché è costantemente condizionato e conduce l’esistenza con la stessa logica della patente a punti, attento sempre a dove mette i piedi, a come parla, a come pensa. La censura del “politicamente corretto”, che fornisce l’ammissione in società, si allarga sempre più, al punto che ciascuno diventa censore del suo stesso pensiero. Ogni giorno la gente in un modo o nell’altro si reprime da sola. 

In assenza di una finalità, in fase di dissociazione comunitaria, in un’epoca di partecipazione virtuale fondata sull’individualismo di massa, vi è così poca felicità che stiamo morendo biologicamente e spiritualmente, tanto che non facciamo quasi più figli. 

Insomma, siamo disperati e lo siamo solo ed escusivamente per colpa nostra, perché abbiamo smarrito i fondamentali.

Sicché per confortarci chiediamo agli apparati dirigenti di difendere quella libertà che non sappiamo più cosa sia, contro la quale inventiamo o perlomeno ingigantiamo pericoli esterni da parte di impalpabili barbari stupidi e gonfi d’odio. 

Così il futuro ci appare davvero inquietante. Perché esso torni a sorriderci è necessario che le élites sociali, politiche, culturali, riacquistino il significato elementare delle cose e che, fondandosi sul matrimonio tra il mito e il buon senso, si sottraggano ai miasmi provenienti dalle utopie degenerate.

Allora si potrà finalmente distruggere la statua che l’imprigiona e liberare la libertà. 

di Gabriele Adinolfi

Tratto da “Polaris – la rivista n.7 – IL FANTASMA DELLA LIBERTÀ” – acquista qui la tua copia

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