Economia & Finanza

LA BORSA E LE VITE – Disfunzione e classismo dei flussi migratori

In Europa abbiamo un terzo degli immigrati del Mondo, e l’Italia è tra i primi quattro Paesi d’accoglienza d’Europa.

I flussi migratori sono effetto della crisi mondiale e sono a loro volta concausa del suo protrarsi senza soluzioni.

Il problema è generalmente affrontato con poca professionalità.

Non si calcola che la domanda di lavoro è superiore all’offerta, si considera appena che le condizioni accettate dal lavoratore immigrato sono al ribasso e che ricadono, immancabilmente, sui lavoratori autoctoni.

Non si tiene in conto il perverso effetto della “diluizione di capitale” legato alle rimesse, né quanto la disponibilità ad alloggiare in qualsiasi condizione contribuisca a far levitare la bolla immobiliare.

Non si considera poi nella dovuta maniera che il fenomeno, così com’è gestito, o piuttosto così com’è subito, sta creando divaricazione sociale, favorendo i ricchi a discapito dei poveri, e ricadendo in una logica classista e anticomunitaria.

di Giampaolo BassiCommercialista, revisore dei conti, economista

Il fantasma della disoccupazione si aggira in ogni discussione sulla crisi. Le statistiche dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), a partire dal 2007, la rilevano in crescita in tutto l’Occidente. Poichè negli anni che precedono la crisi il costo del lavoro è stato basso, in linea se non addirittura inferiore agli aumenti di produttività, il fondato sospetto, a cui ben pochi danno voce è che, forse, ci troviamo di fronte ad un eccesso di lavoratori.

L’argomento ha implicazioni che hanno rilevanti aspetti economici, politici e sociali. 

Infatti, al mai risolto, problema della contrapposizione tra capitale e lavoro, si aggiunge quello dell’impatto dell’immigrazione sull’equilibrio delle economie occidentali. 

Un terzo degli immigrati del mondo

Negli ultimi vent’anni le varie crisi regionali e la crisi del blocco sovietico, hanno scaricato in Germania, Francia ed Italia centinaia di migliaia di disperati aggiuntisi ai tanti migranti di altre aree povere.

La portata ed il breve tempo in cui si è attuato il flusso migratorio, appaiono inquietanti, i dati ufficiali di EUROSTAT, attestano che in Europa si trova un terzo degli immigrati del mondo; tali stime non considerano, inoltre, che molti cittadini stranieri hanno ottenuto la cittadinanza. L’Unione Europea è al secondo posto dopo l’America del Nord per numero di immigrati, ma tale flusso si è concentrato in soli quattro Paesi (Germania, Francia, Regno Unito e Italia).

Secondo le stime, nella UE ci sono 20 milioni di immigrati, a cui vanno aggiunti 8 milioni di clandestini.

Tale enorme flusso migratorio, ha generato un aumento esponenziale della forza lavoro.

Una situazione di forte disoccupazione sussisteva già agli inizi degli anni ’90; da quel periodo in poi, tuttavia, i rinnovi nei contratti di lavoro non hanno permesso recuperi in termini di effettivo potere di acquisto e di produttività: in media i salari reali, cioè, non sono cresciuti.

Il costo del lavoro si è mantenuto basso per l’afflusso di nuovi lavoratori sottopagati; a parità di offerta, aumentando le richieste di lavoro, il salario non può che diminuire. 

L’esplosione del fenomeno dell’immigrazione ha, di fatto, inciso come calmiere sui salari. 

Ma vediamo se la riduzione di salario sul sistema economico, ha controbilanciato l’effetto negativo;. a salari più bassi si associano minori costi di produzione e, quindi, prezzi inferiori e maggiore produzione. I minori prezzi andrebbero a beneficio del pubblico dei consumatori, i quali, disponendo di maggiore potere di acquisto, comprano prodotti che, prima, non avrebbero potuto acquistare. 

Questo dovrebbe provocare un aumento nella domanda di lavoratori in quei settori dell’economia verso i quali si è indirizzata la domanda aggiuntiva dei consumatori; creando nuovi posti di lavoro in questi settori, le imprese saranno disposte ad offrire ai potenziali lavoratori salari più elevati. Risultato complessivo: più potere di acquisto per i consumatori, maggiore richiesta di lavoratori ed in molti settori, maggiori salari. 

Ma questo avviene in un mondo teorico ben diverso dal reale.

Si sostiene che il mercato del lavoro è fortemente segmentato e, pertanto, il profilo del disoccupato comunitario è, per qualificazione ed aspettative, normalmente diverso da quello dell’immigrato; ne segue che è raro il verificarsi di una concreta concorrenza tra le due tipologie di lavoratore, e che quindi nella sostanza gli immigrati insistono sui soli lavori a margine. Ma i presupposti sono quantomeno inesatti. 

Concorrenza disperata

A smentire tale argomentazione c’è, infatti, un dato incontrovertibile: non tutta l’immigrazione è costituita da manodopera despecializzata, anzi abbondano i laureati con una buona preparazione di base, soprattutto, nelle discipline tecnico-scientifiche. 

Pur ammettendo che gli immigrati ad alta qualificazione siano pochi, incide fortemente la condizione di sudditanza oggettiva con cui offrono il loro lavoro. 

Essi si trovano di fronte a condizioni di lavoro migliori di quelle dei Paesi di provenienza, e generalmente non conoscono i diritti garantiti dalla legislazione del Paese che li ospita; l’immediata conseguenza è che i lavoratori comunitari vengono estromessi da quel mercato assorbito dagli immigrati. Lo spiazzamento della manodopera nativa da parte dell’immigrato (c.d. «job displacement») sarebbe inconsistente solo nell’ipotesi che il numero di nuovi posti di lavoro fosse maggiore o uguale al numero di immigrati. 

Ma, anche tra gli immigrati, aumenta la disoccupazione: sembrerebbe che a funzionare maggiormente sia il c.d. effetto miraggio, per cui l’illusione di nuova ricchezza alimenta l’ingresso di nuovi poveri, riducendo nel totale la ricchezza pro-capite.

Si sostiene, in secondo luogo, che il lavoratore immigrato, consumando beni e servizi, aumenta i consumi stimolando la produzione interna del Paese ospite. Tale argomentazione è confutata nei fatti, da una analisi accurata dei beni e servizi consumati dall’immigrato; l’effetto espansivo generato sulla domanda si rivolge, infatti, verso beni non prodotti nei nostri Paesi; peggiorando la bilancia commerciale del Paese ospite. 

Gli effetti-rimessa

Ad aggravare la situazione si aggiunge, inoltre, il problema delle “rimesse degli emigranti”, ovvero, nella parte di reddito percepito dall’immigrato che viene inviato alla famiglia; tale fenomeno è difficile da calcolare. Gli emigranti, infatti, utilizzano diversi canali per inviare nel Paese di origine i loro risparmi.

Il fenomeno è di grande rilevanza. I dati del Rapporto World Bank, 2006, ad esempio, stimano che nel 2005 le rimesse dei migranti verso il complesso dei Paesi in via di sviluppo erano state di circa 167 miliardi di USD (138 miliardi di Euro dell’epoca), in crescita del 73% rispetto al 2001.

L’effetto è che gran parte del reddito percepito dall’immigrato non alimenta il consumo né finanzia gli investimenti all’interno del Paese ospite. 

Si viene a creare, in sostanza, il c.d. effetto “diluizione del capitale” che contribuisce all’impoverimento di un Paese e che è una delle dirette conseguenze del massiccio e rapido afflusso di nuova popolazione.

Si viene, inoltre, a creare il c.d. effetto “redistributivo”, la maggiore pressione sui beni capitale aumenta i prezzi dei beni e dei servizi, favorisce i beni-capitale posseduti dai nativi; ma la pressione sui prezzi svantaggerà, tuttavia, i nativi i meno ambienti. I possidenti registreranno un aumento del valore del loro capitale grazie all’arrivo degli immigrati (effetto ridistributivo), ma i meno abbienti verranno sempre più portati al margine della società.

I costi sociali

Tali fenomeni, che molti “economisti” si affretteranno a confutare, sono confermati dall’emergenza abitativa di tutte le periferie delle nostre città, dove le case vengono affittate “a stanze” agli immigrati a prezzi alti e, come triste ma logica conseguenza, le famiglie italiane meno abbienti non trovano più alloggi in affitto alla loro portata. L’incremento di redditività, inoltre, aumenta il valore delle case e, di conseguenza, ne impedisce l’acquisto a larghe fasce della popolazione.

Gli effetti dell’aumento della popolazione conseguente al fenomeno immigratorio sulle finanze pubbliche, in termini di nuova spesa sanitaria e di servizi offerti ai residenti, è un problema assai complesso, troppo spesso risolto da politici impreparati con trionfalistiche affermazioni.

La questione dei costi sociali andrebbe rappresentata, innanzitutto, considerando che il lavoro nero e la presenza clandestina sul territorio, costituita integralmente da soggetti che, usufruendo dei servizi sociali e non pagando alcuna imposta né contributo, rappresentano un costo secco per il Paese ospite. 

I contratti di lavoro al minimo ed il frequente uso di contratti stagionali fanno sì che anche i contributi versati, se confrontati alla massa occupata in attività al nero e/o sottopagata, producano una massa di “entrate” per il Paese ospite che sono ben inferiori ai costi, in termini di prestazioni sanitarie, previdenziali, scolastiche ed assistenziali, generando un effetto negativo sui conti pubblici.

Il fenomeno dell’immigrazione è stato studiato, in definitiva, troppo poco e con forti condizionamenti culturali; un nuovo modo di affrontare la questione, scevro di posizioni preconfezionate, potrebbe aiutare a risolvere il problema modificandone radicalmente i parametri.

Tratto da “Rivista Polaris n.6 – FLUSSI E RIFLESSI – estate 2011” – acquista qui la tua copia

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