Economia & Finanza

ECONOMIA CONCORDATA – Una proposta in tre pilastri

L’attuale crisi è stata generata dall’impossibilità per i debitori americani di pagare i propri mutui, dopo aver perso il lavoro o averne trovato uno sottopagato a causa della delocalizzazione delle attività produttive in Cina ed India sopratutto. Crisi che le banche fanno pagare a milioni di risparmiatori tramite le cartolarizzazioni.

Il riconoscimento dei fattori scatenanti la crisi non deve esimerci dal cercare ad essa delle soluzioni sensate, che saranno tali solo se ripensa il modello neoliberista.

Facciamo un tentativo, fondato su tre pilastri: Protezionismo, Moneta complementare decrementante, Socializzazione delle imprese produttive e commerciali.

di Matteo RovattiLaureato in chimica, studioso di economia & Filippo Burla – Laureato in scienza ed economia politica

Il turbocapitalismo trionfante, retto sul vangelo liberista di Adam Smith, ha raggiunto la sua massima razionalizzazione, che consiste nella retribuzione totale del Capitale a scapito di tutti gli altri fattori produttivi. L’attuale crisi è stata infatti generata dall’impossibilità per i debitori americani di pagare i propri mutui, dopo aver perso il lavoro o averne trovato uno sottopagato a causa della delocalizzazione delle attività produttive in Cina ed India sopratutto. Crisi che le banche fanno pagare a milioni di risparmiatori tramite le cartolarizzazioni (vendere i debiti degli americani come obbligazioni ad alto rendimento sul mercato internazionale del credito).
Il riconoscimento dei fattori scatenanti la crisi non deve esimerci dal cercare ad essa delle soluzioni sensate, che saranno tali solo se si ripensa il modello neoliberista.

Facciamo un tentativo, fondato su tre pilastri:

  1. Protezionismo
  2. Moneta complementare decrementante
  3. Socializzazione delle imprese produttive e commerciali

Protezionismo

Come dimostra il Nobel per l’economia Maurice Allais, è allucinante mettere in competizione aree economiche con un costo del lavoro troppo diverso, in quanto necessariamente la concorrenza dell’area più “povera” porterà l’area più “ricca” ad abbassare i salari, oppure direttamente a spostare la propria produzione dove un operaio (ma anche un ingegnere, un informatico, un chimico…) costi di meno (in India un ingegnere elettronico prende 500 dollari al mese).

Il protezionismo serve a tutelare il settore manifatturiero nazionale, rendendo costose le delocalizzazioni e stimolando gli investimenti sul territorio nazionale. Checché ne dicano gli alfieri del terziario, è la manifattura la base della ricchezza e dello sviluppo. Perché solo l’industria “produce” nel vero senso della parola, indi necessita di investimenti tecnici, mentre il commercio si limita a trasferire la ricchezza da un’area all’altra.

Imponenti barriere doganali sulle merci extraeuropee riequilibrerebbero la bilancia a nostro favore.

Per non porci al di fuori del contesto politico/economico in cui si trova l’Italia, una soluzione di questo tipo non potrebbe che essere a livello europeo. Secondo le basi gettate da Maastricht e consolidate da Lisbona, infatti, obiettivo di ogni qualsiasi politica volta a novare i Trattati che istituiscono e fondano l’Unione Europea non può che transitare per la conservazione dell’acquis comunitario, in funzione di un suo potenziamento. Tra i pilastri dell’integrazione europea sta la creazione di un luogo di commercio comune in cui le barriere doganali sono abolite: se a porre misure protezioniste è solo uno Stato, nulla impedirà alle merci di transitare per un altro Paese e successivamente, una volta ‘comunitarizzate’ accedere in ogni regione dell’Unione senza alcuna restrizione. Seguendo il principio di sussidiarietà, l’azione comune riuscirebbe dunque a raggiungere livelli di efficienza ed efficacia che non potrebbero venire dall’adozione di misure a livello micronazionale: In assenza di una politica comunitaria in senso protezionista e se, come sancito dalla Corte Costituzionale Tedesca, gli Stati rimangono “padroni dei trattati”, diventa gioco forza necessario che l’azione parta dall’individualità nazionale (che funga da traino), in conformità con i trattati stessi e con la necessità di conservazione dell’Europa così faticosamente e manchevolmente costruita.

Moneta complementare decrementante e deperibile

Lo spettro della deflazione si sta facendo lentamente largo nelle coscienze europee, almeno in analisti smaliziati, come Eugenio Benetazzo.

La soluzione auspicabile non è un ritorno a politiche di deficit di stampo keynesiano, ma un autentico cambio di paradigma rispetto al presente: la moneta decrementante, intuizione geniale dell’economista eretico Gesell, ritenuta tale da altri grandi eretici come Pound ed Irving. Immaginiamo una banconota di valore facciale “100”, che per poter rimanere in circolazione deve essere bollata ogni mese per un valore pari all’1% del suo valore nominale. 
La ragione di base è che, come con la moneta acquisto delle merci che sono deperibili, ho la necessità di una moneta che “deperisca” allo stesso modo.

Le marche da bollo sarebbero acquistate in un ufficio pubblico, ergo la bollatura diverrebbe, al lato pratico, una imposta inevadibile, i cui introiti andrebbero ad attenuare la pressione fiscale generale, oppure potrebbero essere impiegati per opere di pubblica utilità.

Si possono pensare vari metodi di emissione della medesima: tra cui un’emissione coperta al 100% da euro depositati presso Bankitalia, che consenta l’emissione di cartamoneta decrementante immediatamente convertibile in euro, sotto l’aggio del 2% (superiore al costo di bollatura, per evitare la corsa agli sportelli per sbarazzarsi della nuova “Icemoney”, che nel breve periodo verrebbe percepita in modo negativo), con cui pagare gli stipendi della Pubblica Amministrazione, ed una parte almeno (diciamo il 50%) degli emolumenti dei rappresentanti elettivi. La legge di Gresham ci dice che “La moneta cattiva scaccia quella buona”. In altre parole, la gente avrebbe interesse a spendere la moneta decrementante e a risparmiare euro, ottenendo il risultato sperato: l’uscita dalla spirale deflattiva e la ripresa dei consumi, con stimolo generale per l’economia. La moneta decrementante, circolando più velocemente di quella “Standard”, e generando ricchezza ad ogni passaggio, potrebbe essere la soluzione alla crisi, senza abbandonare l’Euro, se non altro per ragioni geopolitiche.

Nessuno s’inganna sulla difficoltà estrema di applicare questo sistema e soprattutto nessuno persegue utopie. Il modello è però estremamente interessante come orientamento di ri-organizzazione in una ristrutturazione complessiva.

Socializzazione

Premesso che in una economia liberoscambista diventa impossibile (in quanto presuppone un altissimo costo del lavoro, che sarebbe spazzato via dalla concorrenza terzomondista), vediamo di fare chiarezza sulla questione.

La socializzazione si compone di due parti: cointeressenza e cogestione.

La prima prevede la partecipazione agli utili da parte di datori di lavoro e prestatori d’opera ed ha lo scopo, fatto salvo il diritto alla libera iniziativa economica, di attuare una redistribuzione alla fonte del plusvalore generato dal Lavoro. In questo si distingue sia dal dogmatismo marxista-leninista (il cui scopo è l’annullamento del plusvalore), sia dalla socialdemocrazia che, tramite l’imposizione fiscale attua una redistribuzione a pioggia del plusvalore medesimo, generando passività e parassitismo.

Esistono oggi vari modelli interessanti in Francia, in Canada e, seppur in misura diversa, in Austria.

Più importante è la cogestione.

Essa ha lo scopo dichiarato di riportare l’economia al servizio della Comunità Nazionale, facendone una funzione della politica (intesa come governo della cosa pubblica), che trascende i limiti del classismo e della contrapposizione frontale fra classi sociali. 

Di fatto non è applicabile, se non nella forma radicale e cooperativista, alle Piccole e Medie Imprese ma per le aziende con almeno 200 dipendenti può essere una strada percorribile nel 21esimo secolo. Sul modello tedesco, si potrebbero prevedere due organismi distinti: il “Consiglio d’amministrazione”, espressione degli azionisti, ed il “Consiglio di sorveglianza”, con ampi poteri di revisione, controllo e veto, espresso pariteticamente da Capitale e Lavoro, in cui il “Capo dell’impresa” (politicamente responsabile), vota solo in caso di parità.

In questo senso l’esercizio d’impresa si caratterizzerebbe a funzione pubblica, volta al perseguimento dell’interesse generale sotto la spinta -ineliminabile e motore essenziale- dell’interesse privato.

Questo perché in una concezione etica dello Stato, la libera dialettica fra le classi (ineliminabile e persino fruttifera) ha un senso solo all’interno di una visione strumentale dell’economia, che postula una sua precisa finalizzazione.

Di fatto ciò che la socializzazione rappresenta è la distinzione fra il concetto di azienda e quello di impresa.

Secondo l’articolo 2555 C.C. l’azienda è il complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa, mentre l’impresa si configura come l’esercizio professionale di una attività economica organizzata al fine della produzione e dello scambio di beni e servizi.

In pratica, l’azienda è una questione riguardante la proprietà, l’impresa l’attività specifica dei mezzi produttivi.

Se la proprietà dell’azienda può essere privata e spettante a chi investe il proprio danaro o contrae obbligazioni a proprio nome, l’impresa, che è una attività economica e come tale ha influssi fondamentali sulla vita fisica della Comunità Nazionale, non può essere lasciata all’arbitrio del mercato, ma conciliata con il diritto del Lavoro ad essere considerato come fulcro della produzione medesima, e dello Stato di provvedere ad una finalizzazione efficace dell’economia, nella direzione prefissata da ragioni di carattere macroeconomico e sociale (programmazione, da non confondere con la pianificazione). L’idea è di trovare un intermedio tra queste due diverse tipologie di intervento (che sia diretto o indiretto) e volgerla verso una situazione che potremmo definire di ‘economia concordata’.

Tratto da “Polaris – la rivista n.5 – RESETTARE L’ITALIA” – acquista qui la tua copia

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