IDEM SENTIRE – L’evoluzione del Diritto dall’Italia unita ad oggi
La legge deve tornare a porsi come strumento di orientamento dei consociati, in una dimensione oggettiva e non semplicemente imperativistica.
Quando essa finisce con l’essere mero ausilio di gruppi oligarchici di varia natura, senza che ciò comporti, necessariamente, la prospettabilità di disegni occulti, la situazione che viene a crearsi è equiparabile a quella di un vuoto, di una ferita inferta al tessuto di un sistema rispetto alle cui degenerazioni è necessario predisporre i dovuti anticorpi.
di Marco Zenesini – Laureato in giurisprudenza
Tra gli elementi oggetto di riflessione, in occasione del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, non può non esservi quello relativo al ruolo del diritto positivo e codificato nella formazione e nella direzione di un idem sentire, rispetto al quale si pone il compito di riconoscerne i momenti di stabilità e di tensione, di omogeneità e di divisione.
L’intricata selva di testi normativi di vario tipo entro la quale ciascuno di noi si dibatte quotidianamente, a partire dalle minime esigenze, induce a riflettere su come i cambiamenti occorsi, pure in settori apparentemente oggettivi, riflettano modalità sempre diverse del dipanarsi di una comunità, dei suoi gruppi e dei suoi centri di potere. Appare necessario soffermarsi, anzitutto, su uno dei testi normativi che, della vita sociale, costituisce una ferma polarità: il codice civile. Nel 1865, il Ministro della Giustizia Giuseppe Pisanelli, che già rivestì questo ruolo nel Regno delle Due Sicilie, legò il suo nome al primo codice unitario, il quale vedeva alla sua base il prototipo di ogni raccolta di leggi civili moderna, ossia il Code Napoléon. Si tratta del trionfo, normativamente sancito, dell’individualismo borghese, a coronamento di uno straordinario processo di ascesa, che nel primato delle libertà e della proprietà trovava il suo sigillo. Ciò esprimeva, peraltro, le forti cautele che il potere ed i poteri ritenevano di dover adottare nei confronti di ogni prospettiva di dinamismo sociale ed economico, rispetto a cui non vi sarebbe stata ragione alcuna perché non prevalesse la difesa dell’esistente.
Il corso degli anni, tuttavia, avrebbe visto l’emersione di nuove forze, di nuovi modi di concepire la propria presenza sociale ed individuale; questo non avrebbe potuto che tradursi in una poderosa opera di rinnovamento dei testi normativi che presiedono a tutto ciò. Ecco, allora, che dopo imponenti e complessi lavori preparatori, da parte di un vasto coordinamento di commissioni e sottocommissioni facenti capo ad Alberto Asquini, nel 1942 il Re approvò con regio decreto il nuovo codice civile. Molte, e sostanziali, le differenze che rilevavano rispetto al codice Pisanelli, tra le quali costituisce parte di una certa importanza l’influenza esercitata dal Buergerliches Gesetzbuch, il codice civile tedesco entrato in vigore nel 1900; in particolar modo, è il cosiddetto principio di astrazione a sublimare la generalità, l’astrattezza e la precisione formale delle norme oggetto della raccolta di cui si scrive.
Gli elementi di distinzione sono di carattere strutturale e sostanziale. Anzitutto, la decisione di accorpare nel nuovo testo le disposizioni in materia di diritto commerciale, che costituivano oggetto del previgente codice del commercio; inoltre, l’introduzione di norme a fronte delle quali si coniugano un ritrovato dinamismo sociale ed una concezione dei rapporti di lavoro improntata ad una visione organica, di composizione e non di conflittualità.
Con la fine del Secondo conflitto mondiale, la situazione si diversifica, e forse definitivamente. L’instaurazione di un regime democratico determina un nuovo disegno degli assetti sociali, con conseguente emersione di nuovi centri d’interesse, rispetto alla cui disciplina, diviene necessario operare attraverso previsioni sempre più rapide, non di rado sotto la pressione di fasi contingenti, con tutto quanto ciò avrebbe comportato in termini di redazione e di chiarezza.
Gli ambiti investiti da questo multiforme processo sono i più vari e vasti: dalla fiscalità alle attività produttive, dalle relazioni industriali all’istruzione, sino, naturalmente, alla pubblica istruzione. Ed il processo in questione trova oggi ulteriori ragioni di estensione, soprattutto considerando le sempre maggiori spinte al decentramento che, pure sancite all’inizio del millennio nella stessa Carta costituzionale, appaiono sempre più in grado di ampliare i propri margini. Il cittadino non può, quindi, che trovarsi spaesato di fronte alla congerie di testi che, costantemente, si presenta ai suoi occhi: testi contraddittori, vaghi, rispetto ai quali, spesso, l’ortopedia operata dal Legislatore e dalla Giurisprudenza finiscono con il sortire effetti radicalmente opposti rispetto a quanto prefissato.
Eppure, sbaglierebbe chi pensasse che tutto ciò altro non sia che una causa: si tratta, al contrario, di un effetto, di una serie di effetti. Ad una normazione chiara, essenziale, ed al contempo elastica quanto occorre a non lasciarsi imbrigliare nell’ombra della staticità, si può pervenire solo nel quadro di una rinnovata concezione della società che torni a porre in primo piano il valore della comunità. Ovviamente, non in termini di un gioco al ribasso, di un livellamento annichilente ed omologante; ma come comunità di destini nella quale le diversità di competenza e di capacità, anziché quale mero artifizio retorico, siano considerate come ricchezza vivente e dinamica, che sa bene come innovare non significhi distruggere né balzare nel vuoto, tenendo fermi precisi e chiari legami e contrassegni di appartenenza.
La legge, in ultima istanza, deve tornare a porsi come strumento di orientamento dei consociati, in una dimensione oggettiva e non semplicemente imperativistica. Quando essa finisce con l’essere mero ausilio di gruppi oligarchici di varia natura (senza che ciò comporti, necessariamente, la prospettabilità di disegni occulti: anzi, si può dire che si tratti di ipotesi residuale, operando costantemente questi centri di potere alla luce del sole), la situazione che viene a crearsi è equiparabile a quella di un vuoto, di una ferita inferta al tessuto di un sistema rispetto alle cui degenerazioni è necessario predisporre i dovuti anticorpi.
L’esperienza storica del nostro Paese ha, a questo riguardo, numerosi aspetti su cui riflettere e che possono fornirci numerosi motivi per guardare al futuro in modo serio e propositivo.
Tuttavia, a parere di chi scrive, occorre in ogni caso riconoscere come i termini del discorso debbano allungarsi, perché molti sono gli attori sulla scena e molti sono i contesti entro cui operare; ed il discorso non può non tener conto di come la compenetrazione tra dimensione interna e dimensione europea non consenta di risolvere l’ammontare delle diverse questioni nella ricerca di un percorso lineare. Cosa che, peraltro, non nasconde aspetti positivi; e si tratta di un discorso ancora tutto da definire.
Tratto da “Polaris – la rivista n.5 – RESETTARE L’ITALIA” – acquista qui la tua copia