Antropologia Sociale

150 ANNI E LI DIMOSTRA – Senilità, rassegnazione e rischi di frammentazione

Il rischio concreto che corre l’Italia è quello di una lenta disgregazione politica e di un ritorno ad uno Stato pre-unitario in un’Europa già di per sé indebolita, ma che vanta al suo interno Stati con una maggiore stabilità nazionale come la Germania e la Francia.

La cultura del “particolare” nel nostro Paese non è mai risucita a coniugarsi con il senso del “noi”: in Italia prevale un individualismo, che pur producendo esempi di genialità non indifferenti, si coniuga ad un rifiuto dell’aspetto dell’appartenenza ad un corpus comunitario di cui lo Stato, peraltro, dovrebbe rappresentare schmittianamente, la costruzione apicale.

Le elites in Italia, economiche, di pensiero o più semplicemente sociali, non si pongono l’obiettivo di “governare” processi o di dare impulso a progetti di egemonia, che non siano il perpetuarsi di privilegi e di rendite di potere, causando così un immobilismo sia per quanto riguarda la circolazione delle idee che un fisiologico e salutare ricambio generazionale.

di Carlo BonneyEsperto in relazioni internazionali

La storica affermazione di Metternich che definì l’Italia una “mera espressione geografica” non può non echeggiare anche in quest’anno di celebrazioni del 150 anniversario dell’Unità.

Quello che ci si presenta oggi è un panorama poco esaltante, di un Paese asfittico, spento e demoralizzato che dopo numerose traiettorie storiche, sembra non aver più la capacità di riannodare i fili della propria Storia.

Probabilmente, le troppe cesure operate nella nostra storia recente costituiscono delle ferite difficilmente rimarginabili, ad ancora oggi ci si pone l’interrogativo, davanti all’emergere di forti spinte federaliste e secessioniste, se l’Italia abbia ancora un futuro ed un destino comune.

La divisione ideologica e culturale in Italia, al contrario di altri Paesi europei, rappresenta un elemento costitutivo della nostra storia e invece di regredire e di essere assorbita in una sintesi che consenta di andare oltre, sembra riemergere e riaffiorare sotto nuove vesti .

La mancanza di sentirsi Gemeinschaft, di avere un “centro” che riesca a sussumere le contrapposte spinte, siano esse di natura sociale, politica o culturale, alimenta uno scontro senza fine che partendo proprio dall’unità imposta con le armi nel Meridione dall’esercito Regio, ha trovato nuovo alimento all’indomani della fatidica data dell’8 settembre del 1943.

Questa data, che rappresenta lo spartiacque storico della storia recente di questo Paese, non esprime solo una divisione di natura ideale, ma anche di natura geografica, poiché ha rinnovato la già esistente questione meridionale, che ancora oggi produce un elemento di alterazione della vita nazionale.

Difatti, alle divisioni ideali, che oggi più in modo plateale che altro alimentano le diatribe tra gli schieramenti di destra e di sinistra, si aggiungono sempre più forti le tentazioni secessioniste, temperate da una forte richiesta di autonomia federalista che trovano alimento in un’oggettiva differenza tra il Nord ed il Sud del Paese.

Senza voler qui affrontare approfonditamente le cause storiche dell’arretratezza del Sud Italia, si deve richiamare l’attenzione sulla mancanza di un tessuto sociale e produttivo sano nel Meridione ed il suo lento ed inesorabile scivolamento verso un modello economico di stampo “colombiano”.

Il Sud Italia rappresenta il palese fallimento della classe dirigente italiana dal dopoguerra sino ad oggi che ha affrontato la questione meridionale in un’ottica assistenzialista e clientelare che ne ha minato, forse in modo definitivo, le potenzialità di essere parte essenziale della vita nazionale.

Il dominio delle mafie ed il loro forte aggancio con la vita politica locale e nazionale, si reggono su un connubio difficile da scardinare ed alimentano una cultura di fatto antinazionale che incidentalmente trova nei ceti sociali produttivi del Nord un potente amplificatore.

Il rischio concreto che corre l’Italia è quello di una lenta disgregazione politica e di un ritorno ad uno Stato pre-unitario in un’Europa già di per sé indebolita, ma che vanta al suo interno Stati con una maggiore stabilità nazionale come la Germania e la Francia.

La cultura del “particolare” nel nostro Paese non è mai risucita a coniugarsi con il senso del “noi”: in Italia prevale un individualismo, che pur producendo esempi di genialità non indifferenti, si coniuga ad un rifiuto dell’aspetto dell’appartenenza ad un corpus comunitario di cui lo Stato, peraltro, dovrebbe rappresentare schmittianamente, la costruzione apicale.

Un altro aspetto di questo problema è che le elites in Italia, economiche, di pensiero o più semplicemente sociali, non si pongono l’obiettivo di “governare” processi o di dare impulso a progetti di egemonia, che non siano il perpetuarsi di privilegi e di rendite di potere, causando così un immobilismo sia per quanto riguarda la circolazione delle idee che un fisiologico e salutare ricambio generazionale.

Il Paese più vecchio d’Europa, in termini di elites, non può fare la storia può solo amministrare il passato ed il presente, ma non può progettare il futuro: semplicemente non gli interessa.
In Italia più che una classe dirigente abbiamo una classe di “amministratori del potere” che gestiscono, per l’appunto, l’esistente, stando ben attenti a non cedere le posizioni di supremazia ereditate dal passato. E’ così nel mondo economico e finanziario, dove i nomi sono sempre gli stessi da decenni, è così nel mondo politico ed è così anche nelle strutture sociali che non hanno conosciuto alcun processo di ammodernamento.

Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo concludeva con il famoso “tutto cambia perché nulla cambi”, ma non vorremmo di certo augurarci un Paese bloccato, soprattutto per le nuove generazioni che non meritano un’ Italia di stampo preunitario, Paese di sole e di un passato che non passa mai.

Tratto da “Polaris – la rivista n.5 – RESETTARE L’ITALIA” – acquista qui la tua copia

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