L’ODIO PER LA STORIA – Noi italiani, ammalati di oicofobia
È come se il morbo della colpa si fosse insinuato tra le maglie della memoria, e tutto venisse filtrato attraverso il giudizio che altri potrebbero dare. Una ricerca continua di accettazione servile del beneplacito altrui.
Questa vera e propria malattia, un disturbo della psiche collettiva, il filosofo conservatore Roger Scruton lo ha indicato con il termine di “oicofobia”, cioè una forma patologica di “avversione per la propria casa e per il proprio retaggio”
di Adriano Segatori – Psichiatra psicoterapeuta
Chi abbia un po’ girato per il mondo non può non essere rimasto sorpreso nel constatare la puntuale celebrazione della storia dei singoli Stati visitati. E non può non aver verificato, rientrando in Italia, la completa assenza di ogni esaltazione della propria memoria, associata alla deprimente sciatteria con cui vengono trattati monumenti, siti archeologici e ogni elemento di ricordo e di rievocazione dei fasti passati.
La consuetudine alla glorificazione del proprio passato è comprensibile per i Paesi europei, uniti un tempo lontano in un impero e in una lingua comune, e in seguito suddiviso da precisi confini e da identitarie nazioni. Ma quello che colpisce è che il massimo del trionfalismo sia quello americano, quegli Stati Uniti costituitesi dagli avanzi dell’Europa, assemblati in un confuso e conflittuale meticciato, passati – come disse qualcuno – dalla barbarie alla decadenza senza essere toccati dalla civiltà.
Visitando i loro musei scoprirà delle cose inestimabili: dai reperti dell’Enola Gay, il bombardiere che sganciò la prima bomba atomica denominata Little Boy, forse a sottolineare l’infantilismo terroristico statunitense, e il filmato no-stop del funghetto liberatore sulla città di Hiroshima; alla ricostruzione dei villaggi e delle abitudini di vita di quei nativi sterminati in uno dei più grandi genocidi della storia.
Nessuna vergogna, nessuno sentimento di colpa, ma solo una becera e inopportuna esaltazione del mito americano e della sua opera di sedicente evoluzione. Tutti a sventolare le bandierine a stelle e strisce e a rivendicare il loro usurpato valore di libertà e di progresso.
L’italiano, invece, ha in sé il germe della vergogna e il virus della sudditanza. Di quello che fu lI’Impero Romano si indaga sulle stragi perpetrate da Giulio Cesare, sulle campagne di occupazione e di conquista all’insegna dell’aquila romana, sulla sottomissione forzata dei barbari e dei territori invasi. Non parliamo poi dell’ultimo impero, quello della colonizzazione avvenuta nel secolo scorso. Anche lì grandi piagnistei sui rastrellamenti degli indigeni, sulle ritorsioni verso i terroristi locali, sulle rappresaglie nei confronti di tribù renitenti, senza un briciolo di considerazione sulla vera, concreta, documentata e tuttora visibile opera di civilizzazione.
È come se il morbo della colpa si fosse insinuato tra le maglie della memoria, e tutto venisse filtrato attraverso il giudizio che altri potrebbero dare. Una ricerca continua di accettazione servile del beneplacito altrui.
Questa vera e propria malattia, un disturbo della psiche collettiva, il filosofo conservatore Roger Scruton lo ha indicato con il termine di “oicofobia”, cioè una forma patologica di “avversione per la propria casa e per il proprio retaggio”.
Al di là della banale considerazione sociologica, il fenomeno in questione si rivela nei fatti un vero e proprio dramma per ciò che è il tessuto storico di una Nazione, il collante di un popolo che non è un semplice assemblaggio di individui in popolazione, né una semplice accozzaglia di soci tra i quali contendersi gli utili – anche questi scadenti e discutibili – di un continuo presente.
Per il singolo e per la comunità di appartenenza è fondamentale mantenere sempre attenta la capacità di assorbire e rielaborare il passato, assieme alla facoltà di delineare e di creare un futuro. Senza queste risorse personali e collettive, e le competenze per esercitare le visioni retrospettive e prospettive, l’unico risultato è l’amputazione delle proprie radici e la negazione di ogni destino.
Non è una crisi economica seppur dura a scompaginare i legami di solidarietà di uno Stato, né la contrazione momentanea del benessere materiale, e neppure una condizione di precarietà di un supposto progresso, ma è lo scardinamento delle linee-guida del passato e, di conseguenza, la perdita dei punti di riferimento del futuro. Noi siamo oggi il risultato di secoli di civiltà e saremo domani ciò che sapremo investire della nostra memoria. Al di fuori di questi due parametri resta solo la gestione di un presente, sfibrato e deluso.
L’odio per la Storia ha, per l’Italia – e non solo – due cause essenziali. Una esterna: la volontà di coloro che non intendevano porsi in confronto con la nostra Nazione a scopo di vassallaggio e di servitù della stessa. Una interna: la volontà di coloro che, prezzolati dallo straniero, dovevano azzerare ogni comparazione tra la grandezza di un tempo e la miseria attuale.
Per fare ciò, l’operazione è stata quella subdola e pervasiva di desanimarla, di quella entità – l’anima, appunto – che Klages riteneva giustamente l’unico motore immateriale che possa distinguere uno Stato da un apparato tecnico-economico informe, da una organizzazione burocratica senza vita trascendente e senza potenza interiore.
Uno dei metodi è stato proprio quel cappio contro il cosiddetto revisionismo che impedisce con la violenza della persecuzione ogni rivitalizzazione dello spirito comunitario. Ora lo sappiamo. Ora siamo consapevoli – come avvertiva Orwell – che chi controlla il passato controllo anche il futuro. E una volta informati di ciò, sta a noi rivendicare con orgoglio e dignità la nostra appartenenza, per non lasciare più nelle mani degli altri le redini del nostro destino.
Tratto da “Polaris – la rivista n.5 – RESETTARE L’ITALIA” – acquista qui la tua copia