Economia & Finanza

Geoecononomia: effetti e alternative per l’Italia

Il quadro economico europeo ed italiano, allo stato attuale, vive anni di transizione verso quello che si può ritenere rappresenti un nuovo standard di crescita: strutturalmente moderata (dopo oltre un paio di anni di forte rimbalzo post pandemia), con un’inflazione in fase calante, ma tuttora elevata, ed un progressivo aumento dei tassi di interesse e riduzione (ma in quadro volatile) del prezzo dell’energia e delle materie prime.

Se quello presente può essere letto superficialmente come un periodo di crisi della globalizzazione (per come l’abbiamo conosciuta), per meglio comprendere la direzione odierna occorre ricordare le tendenze precedenti, cioè le caratteristiche afferenti il periodo d’oro della globalizzazione e gli sviluppi più recenti dell’economia globale, che hanno subito l’impatto delle ultime due, pesanti, crisi.

I primi due decenni del secolo sono stati caratterizzati per i paesi avanzati, dalla comparsa di numerosi segnali della cosiddetta “stagnazione secolare”: invecchiamento della popolazione, transizione tecnologica connotata da uno scarso impatto sulla crescita della produttività, saving slot e tassi di interesse “naturali” negativi. L’insieme di questi fattori ha determinato una serie di importanti conseguenze quali due decenni di crescita mediamente molto bassa, costellata da varie crisi economico-finanziarie (bolla dot.com, crisi dei mutui subprime, crisi del debito sovrano), inflazione al di sotto degli obiettivi delle Banche Centrali (il 2% circa), e aumento dei livelli di debito sia privato che sovrano.

A questi fattori, nel tempo, si sono aggiunte un’iniezione di liquidità senza precedenti nel sistema economico ed una significativa accelerazione della transizione energetica. Tra gli effetti più importanti determinati da questi eventi, va annoverato certamente le sempre maggiori difficoltà economiche a cui è andata incontro la classe media occidentale, base sociale decisiva delle democrazie liberali, che hanno favorito processi di polarizzazione politica sia nel mondo anglosassone che in Europa orientale.

Gli eventi degli ultimi tre anni hanno rallentato la globalizzazione, inducendo gli esperti a parlare finanche di slowbalization

Venendo agli ultimi anni, prima la pandemia e poi la guerra in Ucraina hanno sostanzialmente peggiorato sia la stagnazione economica dei Paesi avanzati, con un peso del debito in aumento, quanto rallentato la globalizzazione (slowbalization). Nuove criticità si sono aggiunte: l’inflazione come conseguenza della crisi pandemica (causata da colli di bottiglia, lato offerta e dall’enorme liquidità immessa nel sistema economico, lato domanda), la difficoltà di accesso a risorse energetiche e materiali (con una tensione evidente, nel caso europeo, fra sicurezza e transizione energetica) e problemi crescenti nell’organizzazione della logistica.

L’Europa in modo particolare si è trovata a dovere riorganizzare la propria politica di rifornimento energetico, a lungo fondata sulle forniture dalla Russia: lo shift da Est verso Sud, per quel che riguarda le fonti di gas in modo particolare, così come il sostanziale collasso della vecchia opzione “euro-asiatica” coltivata dalla Germania e in parte dall’Italia (fine di Nord Stream 2), costituiscono due conseguenze fondamentali della guerra in Ucraina, a cui è necessario aggiungere lo spostamento verso la Polonia e i Baltici degli equilibri interni nell’UE. Se al dato relativo all’energia (forniture in aumento di LNG dagli Stati Uniti) si aggiunge il fattore sicurezza (ritorno della centralità della Nato), diventa difficile non sostenere la tesi in base alla quale il risultato delle ultime crisi è stato quello di aumentare il grado di “americanizzazione” dell’Europa, che peraltro ha finito complessivamente per perdere competitività proprio nei confronti degli USA. Da questo quadro sono uscite fortemente ridimensionate quelle tesi che propugnavano la cosiddetta “autonomia strategica” dell’UE.

Quella che stiamo vivendo è, in definitiva, una fase di passaggio da uno standard ultra ventennale di difficile gestione economica (bassa inflazione/bassa crescita) ad un sistema socio-economico che presenta sfide ulteriori, in cui prevalgono una elevata complessità ed una forte volatilità. La complessità è il frutto, in modo particolare per i Paesi OCSE, dell’interazione diretta ed intertemporale di fattori geopolitici (specifico “problema russo” nel contesto europeo, accentuazione del confronto USA-Cina, rapporti mutevoli con e tra i Paesi emergenti), di fattori economici (ancora bassa crescita, incerte spinte inflative, terziarizzazione), di fattori tecnologici (transizione industriale, digitalizzazione, IA), di fattori demografici (aging nelle prime 15 economie mondiali in termini di PIL, inclusa la Cina, e marcati squilibri macro-regionali), di problemi ambientali (contrasto/adattamento ai cambiamenti climatici, transizione energetico/industriale).

Il contesto è quello che Adam Tooze definisce di “policrisi”, il quale ha fatto emergere le vulnerabilità collegate all’interdipendenza. Nel momento in cui la rivalità geopolitica ha iniziato ad interferire con le scelte economiche, con il ritorno delle politiche industriali, sanzioni e sussidi nazionali, sono emersi prepotentemente anche i costi di una frammentazione dei processi globali.

La gestione di una tale complessità, necessita infatti, di una infrastruttura della globalizzazione modificata e adattata rispetto al passato: un processo non facile, in vari modi conflittuale, e dall’esito ancora incerto. Un conto è saper riconoscere la fragilità delle filiere globali, estremamente costoso e difficile comprato il riuscire a ristrutturarle.
Due possono essere individuati quali punti di partenza.

Il primo concerne l’interdipendenza, fattore che crea vulnerabilità nel momento in cui diventa overdependence, ma resta comunque alla base, con il commercio internazionale, della crescita globale. Diversificare le fonti ed accorciare le catene del valore rappresentano risposte possibili, ma certamente non mettono in discussione l’importanza del commercio internazionale come fonte di crescita. In questo senso un esempio esplicativo è rappresentato dal commercio bilaterale USA-Cina che nel 2022, anno segnato da forti frizioni in campo tecnologico, ha registrato il massimo storico (effetto anche dell’aumento dei prezzi).

Se gli Stati Uniti, però, possono puntare verso una maggiore “autonomia” (partendo dalla loro condizione di autosufficienza energetica), per le economie centrali dell’Europa, Germania ed Italia in particolare, mantenere aperto il commercio internazionale rimane un obiettivo assolutamente vitale, da cui la definizione della linea ufficiale della UE, che dall’inizio del 2021 è Open Strategic Autonomy, proprio a sintetizzare una doppia esigenza, se non un vero dilemma. Il secondo punto afferisce l’attuale assetto economico-tecnologico globale, basato su un’infrastruttura (fisica, digitale, normativo-istituzionale, finanziaria) di evidente impronta occidentale. I tentativi di costruire istituzioni e coalizioni alternative sono degni di nota, dai BRICS alla SCO (Shanghai Cooperation Organization) al RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership Agreement) asiatico, e hanno anche una dimensione più tecnica, dall’uso del renmimbi coma valuta di scambio (ma comunque non di riserva) fino al lancio del CIPS (Cross- Border Interbank Payments System) da parte della Cina come contraltare al CHIPS (Clearing House Interbank Payments System) statunitense.

Nessuno di questi tentativi, tuttavia, si è finora dimostrato credibile nel senso di convincere attori primari ad abbandonare stretti rapporti con gli Stati Uniti e i Paesi OCSE. Non a caso, ciò che realmente caratterizza le scelte della maggior parte dei paesi del Global South è il tentativo di tenere in vita “allineamenti multipli” e non la volontà di schierarsi tout court con chi si presenta come alternativa all’Occidente. Tutte le recenti traiettorie di crescita accelerata, infatti, sono accomunate dall’aggancio strutturale alle reti (preesistenti) di interdipendenza , inizialmente soprattutto commerciale ma poi anche produttiva (le filiere del valore), che passano per i maggiori snodi euro-americani. È così non soltanto per le infrastrutture fisiche (logistica), ma anche per i trasferimenti tecnologici, per le piazze finanziarie (dunque gli investimenti), per i grandi mercati al dettaglio, per le università e i centri di ricerca. In definitiva, la globalizzazione nella forma cha abbiamo conosciuto dagli anni ’90 in poi poggia su una infrastruttura occidentale, che è oggi diventata più complessa e più vulnerabile rispetto al recente passato.

In tale prospettiva, gli anni 2000 hanno segnato un cambio di passo per una ragione principale: la Cina – il fattore di cambiamento da molti ritenuto più disruptive – ha ottenuto (anche simbolicamente, con l’ingresso nel WTO) l’accesso al sistema preesistente. La sua crescita è stata poi talmente impetuosa nel successivo ventennio da alterare alcune caratteristiche degli scambi internazionali, con le conseguenze che sappiamo per la classe media occidentale, fino a richiedere oggi un’infrastruttura parzialmente rinnovata. In sostanza: la vulnerabilità legata all’interdipendenza sta producendo un ripensamento della “vecchia” globalizzazione economica, con fenomeni di parziale frammentazione. Porre al centro delle scelte economiche le considerazioni di sicurezza (per ridurre la vulnerabilità) implica però dei costi in termini di efficienza complessiva dei mercati, e può innescare a sua volta rischiose dinamiche politico-strategiche.

Nonostante i rischi paventati, anche lo scorso G7 ad Hiroshima ha avuto come tema dominante proprio il ricorso alla sicurezza economica. In particolare, nel comunicato finale si è parlato di “coordinare l’approccio per la resilienza economica, la sicurezza economica che si basa sulla diversificazione, sul rafforzamento delle partnership e sul de-risking, non il decoupling.

Quanto uscito, perciò, non è affatto una sorpresa e si inserisce in un dibattito ben avviato. Nelle interpretazioni più recenti il decoupling ha preso l’accezione di rottura totale delle relazioni commerciali anche se il significato originario è sempre stato quello di decoupling selettivo, ovvero solo su settori specifici di valore strategico. Il Presidente della Commissione Europea Von der Leyen sta cosi promuovendo l’adozione del termine de-risking che nei fatti si propone lo stesso obiettivo di sicurezza economica, ma si presenta con un grado di contrapposizione ideologica minore. In sintesi, si tratta sempre in ogni caso di diversificazione, ovvero l’obiettivo di ridurre la dipendenza da Paesi non allineati politicamente, prima su tutti, la Cina.

Paradossalmente, lo stesso principio di autonomia si trova al centro della politica economica di Xi Jinping, che ne ha fatto il perno della sua strategia della doppia circolazione, con l’obiettivo di aumentare la resilienza economica puntando su consumi interni e capacità tecnologica nazionale. In punto di fondo, in definitiva, è la considerazione che l’interdipendenza non vada più considerata come un vantaggio simmetrico per tutte le parti coinvolte, ma che sia invece asimmetrica e strumentalizzabile politicamente.

Il primo cambiamento indispensabile da apportare all’attuale infrastruttura è una maggiore attenzione a tutti gli aspetti del risk management. È un processo già in corso, motivato dal tentativo di ottenere maggiore stabilità e resilienza agli shock esterni per il sistema economico e imprenditoriale, ma anche per i governi e le istituzioni che determinano in larga misura l’ecosistema delle regole economiche. La forte dipendenza da un sito produttivo (o da un Paese) e/o da una specifica catena di fornitura si è rivelata come una vera vulnerabilità: i casi, tra i tanti, della Apple city in Cina e del gas russo ne sono una prova evidente.

La valutazione sulla maggiore o minore affidabilità dei propri fornitori richiede, come risposta ineludibile, un notevole sforzo di diversificazione: ne deriva una ristrutturazione degli scambi mondiali non solo nell’immediato, ma nel medio e lungo periodo. Tale riorientamento, soprattutto dalla Cina, verso altri Paesi che possano essere considerati “amici” o comunque più affidabili perché meno propensi a weaponizzare il commercio, non implica che la globalizzazione sia finita (i dati finora disponibili non supportano questa tesi), ma piuttosto che le direzioni prevalenti degli scambi stanno cambiando, incidendo sui volumi in misura per ora non sostanziale, a meno di misure protezionistiche più o meno palesi che tenderebbero a innescare una spirale conflittuale.

Assistiamo piuttosto a una crescente regionalizzazione, che però non elimina i driver del commercio globale; e in parte ad una frammentazione limitata alle tecnologie sensibili. Fattori di sicurezza e di gestione dei rischi incidono quindi in misura più rilevante che in passato.

di B.C.

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