GARBUGLIO UCRAINO
La tensione tra Russia e Ucraina non è semplicemente una crisi tra due Stati per banali questioni di confine.
A fronteggiarsi davvero sono Mosca e Washington, l’Orso e il Leviatano.
Ma l’esito della crisi potrebbe dipendere dalla mediazione di Pechino e Bruxelles.
di Andrea Marcigliano
La tensione che va crescendo ormai da mesi tra Russia e Ucraina, sembra aver raggiunto il suo apice. Diciamo sembra, perché in effetti già più volte avevamo avuto l’impressione che la parola alle armi fosse cosa di ore. Mentre poi lo stallo è continuato. Senza però alcuna schiarita diplomatica all’orizzonte. Anzi.
La punta dell’iceberg: Russia, Ucraina e Bielorussia
Inevitabile. Questa non è una, più o meno normale, crisi tra due Stati – una Grande Potenza un po’ appannata ed un suo antico satellite – per banali questioni di confine. Che, certo, hanno avuto un importante ruolo nell’innescarla, ma che ormai sono passate decisamente in secondo piano.
La questione del Dombass non è più il centro della contesa. E non è più un confronto fra Mosca e Kiev per questioni afferenti ad antichi legami di sudditanza e ad altrettanto antiche rivendicazioni identitarie e nazionalistiche.
Sono Mosca e Washington che si fronteggiano ora. E con toni che fanno sembrare quelli tra Kennedy e Kruscev per la questione dei missili cubani uno scambio di cortesie tra cicisbei e damıne del ‘700.
La questione, ora, verte sulla richiesta del governo di Kiev di essere ammesso nella NATO. Richiesta che sembra trovare favorevole accoglienza da parte dell’Amministrazione Biden. E che, ovviamente, preoccupa e fa infuriare Putin, il quale ha dichiarato esplicitamente che lui, missili NATO a sette minuti da Mosca, non li potrà mai accettare. Di qui la mobilitazione dell’Armata Russa. Oltre 250.00 uomini dislocati lungo il confine ucraino e altre truppe trasferite, con batterie di contraerea, nella Bielorussia. Dove, nei mesi scorsi vi sono stati tentativi di scalzare il vecchio dittatore sovietico Lukaşenko, prontamente sventati dal FSB, l’erede del vecchio KGB di cui Putin stesso era stato, a suo tempo, direttore.
Proprio la situazione in Bielorussia è, tuttavia, rivelatrice di come l’adesione eventuale dell’Ucraina alla NATO sia, a sua volta, solo la punta emergente dell’iceberg. Ovvero di un problema ben più macroscopico.
La NATO, Washington e la “politica del carciofo”
Il Cremlino si è reso conto che l’obiettivo di Washington è quello di chiudere definitivamente la partita, riducendo l’influenza di Mosca alla sola Russia propriamente detta. Ovvero procedendo con una, sistematica “politica del carciofo”. Politica già in atto dal crollo del colosso sovietico, con la progressiva sottrazione all’influenza russa di tutte la repubbliche del vecchio Patto di Varsavia, rapidamente inglobate nella NATO, utilizzando anche il grimaldello della integrazione nell’Unione europea.
L’accordo, che risaliva ai tempi di Gorbachev, era che l’espansione della NATO avrebbe dovuto fermarsi ai satelliti Polonia, Ungheria, Romania, Cecoslovacchia, Bulgaria… Senza penetrare nel corpo della ex URSS. Accordo, di fatto, mai rispettato. Perché la spoliazione è continuata sistematicamente, strappando a Mosca i Paesi Baltici, rospo già duro da ingoiare, e poi giocando nel Caucaso e in Asia Centrale la partita delle Rivoluzioni Colorate: attraverso cosiddette ONG, dietro alle quali si stagliano le ombre della grande finanza apolide, come la famosa Open Society di George Soros. E giocando anche su antichi antichi odii etnici e nazionalismi tribali, inevitabilmente riemersi dopo l’implosione dell’impero degli zar rossi. Conflitti tribali che vengono da remote pieghe della storia, alimentati (e finanziati) artatamente.
Così Mosca ha perso buona parte del Caucaso meridionale – da sempre il suo giardino di casa – e visto decadere la sua influenza anche in Asia Centrale.
La contraerea di Putin
Putin ha cercato di invertire la narrazione. Talvolta con il pugno di ferro, come nel Caucaso settentrionale, dove ha domato Cecenia, Inguscezia, Dagestan: rivolte etniche spesso infiltrate dal jihadismo islamico, che si è spesso rivelato strumento di quel Grande Satana occidentale che crede di combattere.
In molti altri casi ha, però, utilizzato gli strumenti della diplomazia. E dell’influenza economica, attraverso il tentativo, ancora in atto, di creare un Cartello dei produttori di gas. Ovviamente a guida russa.
Un poco alla volta, la Russia è riemersa dalle nebbie della funesta stagione di Eltsin, e ha cominciato a tornare un giocatore geopolitico globale.
L’intervento in Siria, la presenza politica in Libia e, soprattutto, il dialogo storicamente sorprendente con la Turchia di Erdoğan ne sono i segnali più evidenti. Ma va tenuto in debito conto anche il rinnovato rapporto di tutela sulla Serbia e sulle minoranze serbe e ortodosse nella ex-Jugoslavia. Senza dimenticare il nuovo feeling con l’Ungheria di Orban, sfruttando i mal di pancia interni a molti paesi Ue.
L’Orso russo e il Leviatano
Il ritorno dell’Orso russo ha così riaperto un problema non da poco per Washington, che dall’amministrazione di George W. Bush in poi aveva concentrato la sua attenzione su Pechino, considerata, ormai, l’unico competitor globale con cui fare i conti.
Poi, con Trump alla Casa Bianca si è, per un certo tempo, affacciata l’ipotesi di Mosca come potenziale alleata in funzione anti cinese, fondata sulla visione prettamente mercantilista di Trump.
Ma la Russia non è – e ben difficilmente potrà diventare nel prossimo futuro – un competitor degli States sul piano industriale e commerciale. A differenza di Pechino, che insidia il primato economico americano.
Adesso però, con il cambio della guardia nello Studio Ovale, è prevalsa nuovamente una visione strategica volta a demolire in modo definitivo la potenza geopolitica di Mosca. Che, se vogliamo ricorrere a categorie canoniche, rappresenta pur sempre la Grande Potenza di Terra, che ostacola l’egemonia di Leviathan, della talassocrazia americana.
E quindi è partito l’attacco al corpo della Russia: prima la Primavera Colorata di Kiev, che ha portato al governo una élite nazionalista e violentemente anti-russa. Poi i tentativi di destabilizzare la Bielorussia. E, nei primi giorni dell’anno, una protesta/intersezione fomentata in Kazakhstan, il perno dell’Asia Centrale e il principale alleato di Mosca nel complesso disegno di creare un’Unione Economica Eurasiatica. Un segnale minaccioso rapidamente sedato da Mosca.
Ma Putin non vuole lo scontro diretto con Washington. Sa di non essere in grado di reggere un lungo e dispendioso conflitto. Ma se metti un Orso con le spalle al muro, devi aspettarti la sua reazione.
Venti di guerra?
Ci sarà la guerra? Una cosa sola, al momento, appare certa. L’attuale livello di tensione e di mobilitazione o viene fatto recedere in breve tempo, o dovrà necessariamente trovare sfogo.
Molto dipenderà da quale sarà il ruolo della Cina, che per ora sta cercando di assumere un ruolo di mediatore tra Mosca e Washington, e dalla posizione definitiva che prenderà l’Europa. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia…