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UNA POLITICA INDUSTRIALE DUREVOLE – Le imprese agroalimentari italiane e il regno della sostenibilità

La via italiana allo sviluppo sostenibile, basato sulle coltivazioni e sui prodotti locali, sulle specialità autoctone, va protetta e conservata, difendendo il marchio e l’origine in tutto il mondo, difendendole dalle contraffazioni, favorendone il consumo, sia nelle comunità che nella rete distributiva.

E accelerando la modernizzazione dei territori, tramite investimenti nelle infrastrutture, nelle reti di comunicazione e nelle energie rinnovabili.

E naturalmente stimolando una cultura dell’innovazione adeguata alle specificità di ogni singolo territorio. 

di Gian Piero JoimeDocente universitario di economia ambientale

Il termine ambiente comprende allo stesso tempo “ciò che circonda” e “ciò che è circondato” cioè, in altri termini, la biosfera e i suoi equilibri, il paesaggio, le piante, gli animali, gli esseri umani. 

In una condivisibile definizione, per “ambiente” si intende «il contesto delle risorse naturali e delle stesse opere più significative dell’uomo protette dall’ordinamento [giuridico] perché la loro conservazione è ritenuta fondamentale per il pieno sviluppo della persona. Ovvero che l’ambiente è una nozione, oltre che unitaria, anche generale, comprensiva delle risorse naturali e culturali» (1).

Da questa posizione unitaria della relazione tra uomo e ambiente e del rapporto tra ambiente e sviluppo economico si è sviluppato un amplissimo dibattito internazionale a partire dagli anni Settanta, con il manifestarsi di problemi ambientali di carattere globale – tra tutti l’inquinamento come emergenza sociale e gli shock petroliferi – e con la presa di coscienza che essi vanno affrontati nell’ambito di politiche concordate in sede internazionale. In questi ultimi venti anni abbiamo assistito ad una costante evoluzione della relazione tra “ambiente e modernità” che è stata sintetizzata e strutturata in una nuova teoria sociologica denominata “modernizzazione ecologica”, che sostiene che la conflittualità tra i sistemi sociali attuali e i sistemi ambientali può essere superata, identificando, per esempio, nella nozione di sviluppo sostenibile, proposta dal Rapport Brundtland, una prova di questa forma di ottimismo politico e tecnologico. 

Dall’ambientalismo al paradigma della sostenibilità

Il modello teorico di sviluppo sostenibile ha la sua radice culturale nella teoria del tecnocentrismo moderato, ovvero nella fiducia dell’innovazione, e in questo ambito dell’ecoinnovazione, quale fattore risolutivo del dilemma tra sviluppo economico e tutela ambientale, e come noto si basa su quattro dimensioni fondamentali e inscindibili, che di fatto comprendono l’intera struttura sociale e che possono schematicamente essere individuate in: 

  • sostenibilità ambientale, come capacità di mantenere nel tempo qualità e riproducibilità delle risorse naturali; mantenimento dell’integrità dell’ecosistema per evitare che l’insieme degli elementi da cui dipende la vita sia alterato; preservazione della diversità biologica; 
  • sostenibilità economica, come capacità di generare in modo duraturo reddito e lavoro per il sostentamento della popolazione; eco-efficienza dell’economia intesa come uso razionale ed efficiente delle risorse con la riduzione dell’impiego di quelle non rinnovabili; 
  • sostenibilità sociale, come capacità di garantire condizioni di benessere umano e accesso alle opportunità (sicurezza, salute, istruzione, ma anche divertimento, serenità, socialità), distribuite in modo equo tra strati sociali, età e generi, ed i particolare tra le comunità attuali e quelle future; 
  • sostenibilità istituzionale, come capacità di assicurare condizioni di stabilità, democrazia e partecipazione. 

Questo approccio è basato sull’esperienza concreta che ha dimostrato come sia possibile per le istituzioni moderne incorporare gli interessi ambientali nell’azione di governo e stimolare lo sviluppo di innovazioni tecnologiche dirette proprio alla salvaguardia ambientale, come ad esempio il fotovoltaico e l’eolico per lo sfruttamento delle energie rinnovabili in alternativa alle energie fossili. 

Lo sviluppo sostenibile, in quanto teoria del mutamento sociale, si focalizza sulle trasformazioni sociali e istituzionali che sono alla base del processo di riforma ambientale o ecologica. Analizzando dunque i modi con cui le società contemporanee industrializzate hanno affrontato le crisi ambientali, si è potuto notare l’intrinseca capacità, di queste società, di far fronte alle crisi ecologiche e di articolare la crescita economica con degli obiettivi ambientali.

Questa capacità si basa naturalmente su un forte ottimismo tecnologico, che tenta di analizzare e di individuare le chiavi del passaggio da una società industriale inquinante ad una nuova società del futuro, super industrializzata e compatibile con l’ambiente.

In questo senso, se si analizza la politica industriale dell’Unione Europea, si può trovare già un esempio tangibile di questi processi di ecologizzazione: come l’introduzione graduale delle best available technologies nei processi produttivi, che rappresenta in nuce il primo passaggio verso la sostituzione delle obsolete tecnologie con dei processi di produzione più “puliti” e sostenibili per l’ambiente. E ancora come i diversi finanziamenti, dei progetti Horizon e Life, in gran parte orientati a promuovere la cosiddetta transizione energetica verso le fonti rinnovabili e a introdurre le necessarie innovazioni per la modernizzazione ecologica dei territori.

L’approccio della modernizzazione ecologica e dello sviluppo sostenibile assegna dunque un ruolo determinante alle dinamiche economiche e di mercato così come agli agenti economici nell’attuazione della riforma ecologica. Lo sviluppo economico e la qualità ambientale sono, quindi, considerati come interdipendenti e non più opposti ed incompatibili.

La loro compatibilità è resa possibile dall’«ecologizzazione» dell’economia ma anche dall’«economizzazione» dell’ecologia. L’una si realizza attraverso l’internalizzazione delle esternalità della produzione; l’altra attraverso l’articolazione di standard ambientali con i processi economici, attraverso l’intervento di terze parti.

E così lo standard della sostenibilità si aggiunge a quelli precedenti, della qualità e dell’ict, divenendo di fatto e di diritto un essenziale fattore competitivo per stati e imprese. In questo contesto, oramai diverse aziende, per rispondere ai vincoli imposti dal nuovo standard del mercato, stanno ad esempio attivando processi di certificazione ambientale dei propri prodotti e o dei propri processi di produzione, in modo tale da certificare le proprie performance ambientali, proprio per aumentare la propria competitività sui mercati. Tutto questo certo si inquadra in una strategia complessiva volta a sostenere un approccio integrato a favore di un consumo e di una produzione sostenibile e per la promozione di una politica industriale durevole. In particolare, l’obiettivo finale che si vuole raggiungere è quello di migliorare la resa energetica e ambientale dei prodotti e promuoverne l’accettazione da parte dei consumatori. La sfida è quella di creare un circolo virtuoso: migliorare la resa ambientale generale dei prodotti durante tutto il loro ciclo vitale, promuovere ed incentivare la domanda di prodotti migliori e di tecnologie di produzione migliori, aiutando i consumatori a scegliere meglio grazie ad un sistema di etichettatura maggiormente coerente e semplificata.

Processi di ambientalizzazione

Il rapporto fra le prestazioni ambientali di un’azienda e la sua competitività ha dunque vissuto in questi ultimi anni una notevole evoluzione, portando a rafforzare la responsabilità degli imprenditori e a inserire progressivamente la variabile ambiente nelle strategie di competitività. Non può sfuggire, infatti, che la vera sfida che hanno oggi di fronte le aziende produttrici, per continuare a produrre e non perdere competitività, è quella di operare dei processi di ambientalizzazione dei propri cicli produttivi, che presuppone a sua volta una costante innovazione di processo e di prodotto secondo tecniche e metodologie ecocompatibili.

Questi processi di ambientalizzazione si concretizzano nell’acquisizione di standard operativi e di tecnologie, standard e tecnologie che non sono economicamente neutrali e generalmente portano alla chiusura di processi produttivi obsoleti che necessitano di estremi interventi di riabilitazione ambientale. Pertanto, i processi di ecologizzazione dei sistemi produttivi possono essere inquadrati come dei processi selettivi, nei quali lo sviluppo tecnologico centrato sull’eco-innovazione modellerà sempre più la nostra quotidianità, il nostro modo di vivere e di comportarci. All’interno di questo scenario in continua evoluzione, non tutte le aziende potranno riuscire a tenere il passo adeguando le proprie strategie e modelli di business alle nuove condizioni che si creeranno sul mercato. In altri termini si può introdurre un richiamo alle teorie evoluzioniste di Darwin applicate al mondo produttivo.

Il processo di innovazione tecnologica e produttiva guidato dai principi della sostenibilità costringerà le aziende, di grandi o piccole dimensioni, a “mettersi in gioco” e se non si adegueranno finiranno per essere schiacciati dal processo evolutivo di matrice ambientale. Inoltre gli impegni delle realtà private, imprese e consorzi, non possono prescindere dai livelli di sostenibilità – ambientali, sociali ed economici – dei territori di riferimento, che possono stimolarne o vanificarne le attività’.

Come paradosso, si pensi ad un’azienda biologica circondata da discariche o da corsi d’acqua inquinati, ed ai conseguenti effetti sulla credibilità competitiva del suo modello d’offerta. Questo per introdurre il principio che il tema della sostenibilità, per costruire un reale cambiamento, deve armonicamente articolarsi sui quattro assi già descritti, e quindi deve coinvolgere l’intero sistema territoriale di imprese e istituzioni. 

Questo tipo di scenario creerà forti ripercussioni dal punto di vista socio-culturale ed economico, in quanto la marginalizzazione per motivi ambientali di piccole aziende, che producono però prodotti tipici e di qualità, potrebbe portare ad un evidente depauperamento del patrimonio storico-culturale, innescando un circolo vizioso ove il declino economico innesca quello ambientale, e viceversa.

In un sistema di progressiva internazionalizzazione e liberalizzazione dei mercati, con forte orientamento all’innovazione e alla modernizzazione tecnologica, ora guidata dai principi della sostenibilità, sembra infatti plausibile il rischio della deriva periferica o, al massimo, del destino subalterno del modello sociale mediterraneo basato sulla piccola e media impresa e sull’artigianato: per la frammentazione del sistema dell’offerta, per i relativamente bassi investimenti in ricerca e sviluppo, per la scarsa consistenza di imprese tecnologiche, per la bassa capacità di investimenti pubblici in dotazioni infrastrutturali. Data la struttura competitiva dei mercati internazionali, quelle imprese e quelle aree/paesi che non riescono a tenere il passo con l’innovazione si trovano presto a fronteggiare un gap tecnologico difficile da superare. (Latouche, 1991). In altre parole il processo di crescita ha portato nei paesi leader ad una serie di trasformazioni delle strutture produttive, tecnologiche, dei sistemi formativi e finanziari la cui complessità è totalmente fuori dalla portata delle economie più povere. Al tempo stesso esse sono in grado di gestire i mercati strategici in cui operano queste strutture (multinazionali) in condizioni di quasi monopolio (Amin, 2002).

Chi non si adegua è fuori

Se quindi il moderno standard competitivo è la sostenibilità o ci si adegua, con relative innovazioni di prodotto e di processo, o si rischia di uscire dal mercato. E l’adeguamento dipende dalla base di partenza, finanziaria, tecnologica e culturale. 

Piccole imprese italiane e distretti locali alla guerra mondiale della sostenibilità: la modernizzazione ecologica come fattore chiave per il successo competitivo dei prodotti tipici agroalimentari 

La progressiva apertura che ha interessato gli scambi economici mondiali ha determinato un graduale coinvolgimento delle realtà locali nelle questioni internazionali; la globalizzazione e il processo di allargamento e compimento dell’Unione Europea ha indotto un’accelerazione del processo di apertura internazionale delle imprese agroalimentari, sia attraverso un incremento degli scambi di merci tra i Paesi, sia per uno sviluppo degli investimenti diretti all’estero da parte non solo di grandi, ma anche di piccole realtà.

Il posizionamento dei prodotti alimentari italiani sui mercati esteri subisce l’effetto dell’eccessiva polverizzazione produttiva, della scarsità, della frammentazione delle risorse economiche necessarie e soprattutto del limitato intervento della grande distribuzione italiana all’estero. Inoltre nel settore agroalimentare, così come negli altri comparti, gli effetti della globalizzazione e dell’ampliamento dei confini di riferimento per la commercializzazione dei beni appaiono contrastanti. La globalizzazione, assecondando la vocazione mercantile evocata dal processo di liberalizzazione delle forze competitive a livello mondiale, ha cercato di eliminare gli ostacoli agli scambi attraverso una serie di norme fondate sul principio di non discriminazione in base alla nazionalità. Allo stesso tempo si sta attuando una legislazione, europea e internazionale, che mira ad omogenizzare le produzioni – e moltissimi sono gli esempi, dalle vongole all’olio, dalla farina al vino – con sistemi regolatori che tendono a ridurre le diversità geografiche. 

Ma la competitività nei mercati internazionali dei nostri prodotti dipende proprio dalla identità locale e dalla differenziazione rispetto agli standard. E proprio da queste capacità naturali del nostro sistema d’offerta, dipende sia la possibilità competitiva che lo sviluppo sostenibile dei nostri territori.

Si può in questo senso infatti affermare che le piccole imprese italiane del settore agroalimentare hanno già da tempo, almeno venti anni, intrapreso la via dello sviluppo sostenibile, in parte come reazione alla globalizzazione e alla standardizzazione, seguendo il modello del prodotto tipico e biologico. Al rischio della marginalizzazione da gap tecnologico, e alla conseguente necessità competitiva di modernizzare le capacità produttive locali dei beni tipici, diverse aree agroalimentari italiane hanno risposto con una strategia di concentrazione delle forze produttive e di specializzazione di area, costituendo quelle che si possono chiamare Distretti Agroalimentari Sostenibili e che si possono assimilare sia al concetto di distretti industriali e comunità rurali sia a quello di milieu innovateur, definito: «come un insieme di relazioni che portano a unità un sistema locale di produzione, un insieme di attori e di rappresentazioni e una cultura che genera un processo dinamico localizzato di apprendimento collettivo. 

Dunque per evitare il rischio della marginalizzazione delle aree locali, ricche di storia ma spesso impreparate al cambiamento, dovuto alla globalizzazione e alla grande distribuzione, le piccole imprese italiane, e in questo caso quelle del settore agroalimentare, hanno reagito da tempo e nel tempo con una strategia di differenziazione, basata sul naturale vantaggio competitivo della riconosciuta qualità del prodotto, attraverso un modello di modernizzazione ecologica culturalmente diffuso, basato sul rafforzamento dell’identità locale, ovvero della tipicità: uno sviluppo sostenibile dal basso, autocentrato, imperniato sulla valorizzazione delle risorse immobili (il patrimonio naturale, le tradizioni, la cultura e i saperi locali). 

Se: “Lo sviluppo locale si fonda sulle capacità di cooperazione e di strategia dei soggetti locali per gestire i vincoli posti dalla globalizzazione e per coglierne le opportunità” (Trigilia, 2005), proprio questa capacità dipende dalla realizzazione di processi di modernizzazione del territorio, specie negli standard della qualità, dell’ict, e da qualche anno della sostenibilità. 

Il prodotto tipico locale

Nel contesto italiano – basso investimento pubblico in innovazione, piccole dimensioni aziendali, burocrazia inefficiente, scarsa interazione col mondo accademico – l’economia che punta sulle nuove tecnologie e quindi sulla modernizzazione ecologica della struttura produttiva è dunque relazionale: le imprese che perseguono la strada dell’innovazione non riescono ad assumersi da sole costi e rischi crescenti ma devono condividerli con altre imprese specializzate, seguendo la tradizione italiana delle reti di piccole imprese e dei distretti industriali. Prossimità geografica e prossimità socio-culturale determinano alta probabilità di interazione e sinergia fra agenti economici, contratti ripetuti che tendono all’informalità, assenza di comportamenti opportunistici, elevata divisione del lavoro e cooperazione all’interno del milieu: quello che chiamiamo il suo capitale relazionale, fatto di attitudine alla cooperazione, fiducia, coesione e senso di appartenenza» (Camagni 2002).

Il prodotto tipico locale è un’offerta economica proposta da più imprese radicate in un territorio geograficamente, culturalmente e storicamente delimitato, che viene percepito dalla domanda come prodotto unitario costituito da un sistema di elementi tangibili (prodotti agroalimentari, prodotti artigianali, manufatti) ed intangibili (servizio, informazioni, cultura, storia, saperi, tradizioni, ecc.) caratterizzato da un’immagine o da un’identità di marca unitaria.

Le imprese, soprattutto quelle di minori dimensioni o situate in territori a volte svantaggiati e marginali, intravedono nei prodotti tipici sia una possibilità di trovare un nuovo spazio di competitività nei confronti di mercati sempre più concorrenziali dal punto di vista del prezzo, che di recuperare il valore aggiunto che l’industria e la distribuzione moderna hanno nel tempo limitato. D’altro canto, le amministrazioni pubbliche locali vedono tale prospettiva con interesse anche per rafforzare l’identità e la coesione della comunità locale, stimolando sinergie e legami con altre attività economiche presenti sul territorio (artigianato, turismo, ecc.) per favorire uno sviluppo locale endogeno. 

La natura collettiva del prodotto tipico e la sua capacità di valorizzare l’identità, la qualità e la cultura di un territorio sta, dunque, conducendo all’affermazione di nuove reti di relazioni sociali che orientano le scelte di sviluppo locale verso questioni che riguardano la sostenibilità dello sviluppo, della qualità della vita delle comunità e la valorizzazione delle identità territoriali (Murphy e Murphy, 2004, Beeton, 2006). 

Quindi, la strada dello sviluppo sostenibile dei distretti agroalimentari italiani è stata da tempo tracciata con il percorso del prodotto tipico come fattore competitivo: potremmo anzi dire che, per vocazione storica e naturale, oltre che per reazione competitiva, le piccole imprese italiane hanno creato, seguendo una strategia legata al territorio e al biologico, un modello speciale, endogeno, di sviluppo sostenibile; e che con questo modello del tutto particolare stiano provando a difendersi dagli attacchi della globalizzazione e della conseguente tendenza alla standardizzazione dei prodotti ed omogenizzazione dei consumi, anche in un contesto politico-istituzionale spesso più attento alla retorica dell’ambientalismo che alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale ed economico nazionale.

L’Italia è infatti leader mondiale per numero di DOP e di IGP: con 814 prodotti di cui 291 Food e 523 Wine, raggiunge i 13,8 miliardi di euro di valore alla produzione nel 2015, per una crescita del +2,6% su base annua e un peso del 10% sul fatturato totale dell’industria agroalimentare nazionale. Le Indicazioni Geografiche continuano a rappresentare un fattore chiave della crescita del made in Italy nel mondo, con un valore all’export di 7,8 miliardi di euro, pari al 21% delle esportazioni del settore agroalimentare e un trend positivo che sfiora la doppia cifra con un +9,6%. Il settore Food – composto da oltre 80mila operatori – vale 6,35 miliardi di euro alla produzione (-1,5% su base annua) e registra una crescita al consumo del +1,7%, con un trend che, nella Grande Distribuzione, supera il +5%. Il comparto Wine – che raggiunge una produzione certificata di 2,84 miliardi di bottiglie – vale 7,4 miliardi di euro alla produzione con una crescita del +5,8%. 

Dunque nello scenario DOP e IGP l’Italia mantiene il suo primato mondiale nel settore delle produzioni certificate DOP, IGP e STG, i Paesi del Mediterraneo si confermano nucleo centrale delle I.G. europee, con Italia, Francia, Spagna, Portogallo e Grecia che da sole detengono il 71% delle denominazioni Food e l’80% dei prodotti I.G. Wine. L’analisi dell’impatto economico territoriale delle produzioni D.O.P. e I.G.P. mostra che il valore del sistema IG si distribuisce su tutta la Penisola, con zone ad alta presenza di filiere agroalimentari di qualità ed altre con intensità minore. L’analisi conferma una forte concentrazione – soprattutto nelle aree del Nord-Est e Nord-Ovest – con il 20% delle province italiane che copre oltre l’80% del valore economico complessivo, anche se si rilevano dinamiche di impatto diverse sui territori d’Italia per le varie filiere produttive.

La transazione alle produzioni biologiche

Un altra concreta risposta delle imprese agroalimentari alla domanda di sostenibilità è data dal forte impegno per la transizione alle produzioni biologiche. Esiste una convergenza tra «la celebrazione del gusto», del cibo di qualità, del piacere della tavola, e «l’agricoltura sostenibile e la biodiversità» (2): si tratta di due approcci entrambe legati al cibo, l’uno scaturito dalla terra e dei principi dell’ecologia, l’altro dalla tavola, dall’attenzione alla qualità dei prodotti, dalla varietà e dalla complessità delle culture alimentari, che non possono essere scisse dalle modalità di produzione del cibo e dalle condizioni sociali ed economiche di chi lo produce, lavorando la terra in modo da preservarla per le generazioni future. 

Nonostante il significativo aumento della domanda di prodotti biologici, la superficie agricola, destinata a colture biologiche, è ancora molto bassa: si tratta di appena il 6% del totale, secondo i dati raccolti dal VI° Censimento ISTAT dell’Agricoltura-2010, sebbene si siano registrati importanti aumenti negli anni successivi. La crescente domanda interna richiederebbe un deciso potenziamento del sistema produttivo per contrastare l’aumento delle importazioni, tanto di materie prime, quanto di prodotti finiti biologici, da paesi esteri in cui si applicano disciplinari meno rigorosi di quelli italiani. Occorre, inoltre, un miglioramento delle tecnologie utilizzate poiché una maggiore efficienza produttiva si tradurrebbe in indubbi vantaggi sul costo di produzione e, quindi, sulle prospettive di reddito degli operatori del settore. L’obiettivo del biologico infatti non è il ritorno ad un’agricoltura di sussistenza, ma quello di realizzare un processo di sviluppo sostenibile, sia in termini economici, che sociali ed ambientali. 

Ma la via dello sviluppo sostenibile per le nostre piccole imprese agroalimentari si traduce in un forte impegno aziendale, spesso molto superiore alle forze disponibili, e in grande impatto territoriale. La certificazione bio, ad esempio, comporta il rispetto di una lunga serie di requisiti obbligatori come: essere costituiti intorno ad un’azienda totalmente convertita all’agricoltura biologica; l’obbligo per l’agricoltore di organizzare o rendersi disponibile ad organizzare per gli ospiti visite guidate alle attività aziendali; l’obbligo di lasciare una certa percentuale di superficie aziendale come habitat naturale e di manutenere e gestire le aree verdi di pertinenza con tecniche appropriate all’agricoltura biologica; garantire interventi di ristrutturazione utilizzando materiali reperiti nell’area di intervento o comunque tipici della «tradizione costruttiva locale» (3); il riuso delle singole unità edilizie tenendo conto della «vocazione storica delle stesse» (4); la realizzazione del massimo risparmio energetico attraverso un adeguato isolamento termico, l’uso di lampadine a risparmio energetico e di elettrodomestici a basso consumo di energia, l’utilizzo di detersivi e detergenti altamente biodegradabili ed ecocompatibili; effettuare la raccolta differenziata dei rifiuti; utilizzare vuoti a rendere e contenitori riutilizzabili per alimenti e bevande; favorire la conoscenza del territorio circostante mettendo a disposizione degli ospiti, in locali comuni, materiale informativo a carattere turistico e culturale; stabilire dei menù rigorosamente privi di alimenti OGM, in cui l’80% degli ingredienti siano di origine biologica; preferire l’uso dell’acqua dell’acquedotto o proveniente da fonti ubicate in territori limitrofi all’agriturismo.

A questi se ne aggiungono altri facoltativi come ad esempio la possibilità di praticare la produzione, all’interno degli stessi agriturismi bio, di prodotti tipici «ai sensi dei regolamenti comunitari (DOP, IGP) o dei Presidi Slow Food» (5); l’organizzazione di attività didattico ricreative; la cura dei pascoli e dei boschi circostanti; l’installazione di pannelli fotovoltaici o caldaie a biomassa; l’impiego di tecnologie geotermiche; la predisposizione di una cisterna per il recupero delle acque piovane.

Nuove modalità distributive

Un altro esempio di sviluppo sostenibile dal basso ci viene da nuove modalità distributive. Gli agricoltori, in risposta all’insostenibilità dei sistemi di produzione agricola, dettati dal controllo del settore agroindustriale, si sono organizzati in Reti Alimentari Alternative che praticano metodi alternativi a quelli stabiliti dal mercato convenzionale per la produzione e distribuzione dei beni alimentari: essi sono finalizzati non solo alla produzione di merci, ma anche alla riproduzione delle risorse naturali come suolo, aria, acqua. Si organizzano filiere corte e mercati a “chilometro zero”, sull’esempio del progetto ideato dalla Coldiretti Veneto, il cui scopo era quello di consentire ai consumatori di effettuare scelte di acquisto consapevoli, in grado di concorrere alla salvaguardia dell’ambiente, promuovendo l’acquisto e il consumo di alimenti, prodotti nello stesso ambito territoriale in cui erano distribuiti. Il successo del progetto e’ legato a tre elementi fondamentali: lo sviluppo delle filiere corte, la diffusione di nuovi stili di consumo e di nuove forme di vendita.

Le filiere corte permettono alle piccole aziende di recuperare il valore aggiunto di cui diversamente si sarebbero appropriati gli operatori a valle del processo distributivo. Esse si basano sulla riduzione dei passaggi produttivi e degli intermediari commerciali, riducendo la distanza tra il luogo di produzione e quello di consumo dei prodotti, contribuendo in maniera rilevante all’abbattimento dei costi di trasporto e dei materiali di confezionamento, non solo in termini economici ma anche di impatto ambientale. Inoltre, riescono ad incidere positivamente anche sullo spreco alimentare, riducendo la quota di cibo rimasta invenduta, attraverso un’attenta valutazione dei flussi di riserva e della domanda dei consumatori, con i quali riescono ad avere un rapporto diretto, come nel caso dei farmer’s market, i mercatini contadini, o della vendita diretta presso le stesse aziende agricole.

Le Reti Alimentari Alternative, o AFN (Alternative Food Network), rifiutano i metodi di produzione imposti dalle logiche di mercato: la produttività spinta all’estremo, la standardizzazione dei prodotti con conseguente perdita di biodiversità, in favore delle monoculture industriali, la stessa organizzazione di tipo industriale, per concentrarsi su altri aspetti quali: la qualità, la naturalità e la sicurezza delle produzioni agroalimentari e il rispetto di chi le realizza.

I prodotti tipici italiani e la sfida globale: locali, biologici, comunitari, sostenibili e .. competitivi

Nel settore agroalimentare, imprese, consorzi e istituzioni stanno, con più o meno successo rispondendo alle esigenze di modernizzazione ecologica e alla crescente competizione internazionale, con strategie di differenziazione, basate sulla tipicità, sulla qualità biologica, e ora sulla sostenibilità, comunque centrate sulla valorizzazione di un’identità locale, come fattore competitivo nello scenario internazionale. Una chiara identità locale, con una innata e anche ricercata caratteristica di sostenibilità, sembra dunque essere il fattore chiave di successo per le tante produzioni italiane alle prese delle competizioni globali. Senso di appartenenza e orgoglio locale sono infatti elementi che rafforzano le propensioni cooperative, sia creando “reti di protezione” alle singole imprese nei momenti di difficoltà, sia incrementando il potenziale di creatività locale» (Camagni, 2000).

Il rafforzamento della comunità territoriale è stata in moltissimi casi la risposta del potere locale alla competizione globale e alla turbolenta fase di cambiamento permanente del sistema economico mondiale, che incide con ben quattro sistemi regolatori – mondiale, sopranazionale (zone o blocchi economici), nazionale (gli stati-nazionali) e regionale (locale/infranazionale) (Silva Pires e dos Reis Filho, 2005) – a livello locale, e con una costante rincorsa obbligata alle innovazioni tecnologiche, su tutte le componenti della catena del valore dei sistemi locali.

In questo senso il processo di valorizzazione delle risorse locali non sembra poter essere trainato solo dalle forze del mercato locale, ovvero da imprese e consorzi, piuttosto autosufficienti negli ambiti del tipico e del biologico, ma dipendenti dalle forze di sistema per il più vasto e complesso ambito della sostenibilità, che investe settori quali l’energia, i trasporti, l’economia circolare. 

La grande attuale sfida del modello di sviluppo locale è quella di aggiungere, alle caratteristiche del tipico, quelle del biologico prima e del sostenibile dopo. Un grande passaggio che prevede non più solamente il rafforzamento dei valori endogeni e tradizionali relativi al prodotto e al territorio, ma anche l’acquisizione di competenze e strumenti, impianti normativi e tecnologie, legate all’eco-innovazione.

È una sfida, resa più complessa dalle piccole dimensioni aziendali e territoriali, basata sulla ricerca dell’ equilibrio: tra il mantenimento delle caratteristiche storiche, che ne definiscono la tipicità e quindi la particolarità competitiva, e la capacità di creare o acquisire la forza d’innovazione, culturale e tecnologica, necessaria per poter competere nello scenario globale .

Naturalmente le istituzioni locali ed extra-locali attraverso azioni politiche, favoriscono oppure ostacolano la produzione di beni pubblici specifici (relativi all’istruzione tecnico-scientifica, alla ricerca di base e alla relativa sperimentazione industriale) e dunque accrescono le capacità delle forze competitive, contribuendo alla specificità e particolarità di modelli di sviluppo difficilmente replicabili nelle stesse modalità in contesti diversi da quello originario. Dunque se un “modello” è definito da un’industria o da una tecnica di produzione, che ha una sua peculiare compenetrazione sociale e istituzionale nel luogo storico di nascita, difficilmente può essere trapiantato in un altro luogo, con produzioni simili ma con storie diverse. Nemmeno con le moderne tecniche di delocalizzazione.

È in questo quadro che va collocata la molteplicità dei sentieri di sviluppo locale. Ogni luogo è diverso dall’altro. Alcuni modi di interagire tra famiglie, imprese e istituzioni che hanno generalmente avuto successo nel favorire lo sviluppo delle capacità umane in certi tempi e in certi luoghi, sono invece falliti in altri. Talvolta il divario può spiegarsi semplicemente come risultato di diversità nell’istruzione tecnica, nell’azione istituzionale o nelle consuetudini di reciproca fiducia. «Spesso però la spiegazione è più difficile. In un dato tempo o in un dato luogo, gli uomini avranno molta fiducia l’un l’altro, e faranno grandi sacrifici per il bene comune, ma soltanto in certe direzioni; in altro tempo o in altro luogo, vi sarà una simile limitazione, ma in direzioni diverse» (Marshall, 1920). 

I sentieri di sviluppo locale, e della sostenibilità, sono, dunque, molteplici. Si può affermare che sono tanto numerosi quante sono le possibilità di combinazioni (e di interazione dinamica), in un dato tempo e in un dato luogo, tra organizzazione, conoscenze e istituzioni. Il rischio, in un processo basato solo sulle leghi del mercato, e’ quello di assistere ad uno sviluppo sostenibile diseguale, con aree sempre più prospere, ed altre in declino.

Il passaggio dall’economia tradizionale a quella moderna impone ai produttori di ampliare, innovare e diversificare costantemente il business delle produzioni agroalimentari, proponendo offerte che, seppure collegate all’enogastronomia, possono essere percepite ad un livello di valore superiore a quelle dei business tradizionali. La sfida in questo caso consiste nel trasformare i prodotti enogastronomici in offerte di turismo, cultura, mobilità, arte, valide come proposte all’interno di sistemi di offerta più ampi e complessi, volti a valorizzare il territorio, specialmente se si riesce a valorizzare con innovazioni incrementali il territorio stesso come area ad alta sostenibilità, dalla quale dovrebbe poi dedursi l’affidabilità intrinseca sulle qualità dei prodotti, e quindi costituire un vantaggio competitivo nell’accesa mischia dei mercati. Ecco dunque la necessità dell’acquisizione della cultura dell’innovazione, ora necessaria per la sopravvivenza di produzioni e di territori da sempre più vocati alla conservazione della tradizione che alla ricerca del cambiamento.

Nel futuro sostenibile delle aree rurali

le tecnologie, e i relativi investimenti, assumono un ruolo di grande rilievo: per ridurre o evitare gli sprechi idrici ed elettrici; per ottimizzare le emissioni industriali e residenziali; per integrare le fonti di energia rinnovabile; per agevolare gli spostamenti grazie al controllo dei flussi di traffico ed alla infomobilità; per produrre meno rifiuti attraverso la raccolta differenziata; per comunicare, informare, formare; per bonificare aree dismesse e manutenere il patrimonio immobiliare.

Ma mentre i fattori tipicità e biologico sono fortemente centrati sulle capacità delle singole imprese o consorzi, il passaggio alla sostenibilità, certificata e riconoscibile, coinvolge, come detto, in maniera più diffusa il territorio, comprendendo attività quali l’energia, i trasporti e la mobilità, l’economia circolare, che non fanno parte della capacità e possibilità dell’impresa, o anche del singolo territorio, ma che rimandano a precise scelte di politica economica nazionale. 

Lo sviluppo sostenibile trainato dall’innovazione, richiede una forma esplicita di coordinamento o di governance da parte delle istituzioni pubbliche, per l’interazione tra i diversi attori e la combinazione delle conoscenze complementari. Il ruolo degli enti pubblici locali sarebbe, dunque, determinante per la direzione del processo di sviluppo e modernizzazione del territorio, per favorire l’acquisizione delle innovazioni e delle infrastrutture di reti e sistemi di comunicazione ed energia di nuova generazione, e per stimolare l’offerta delle piccole e medie imprese locali e rafforzare il posizionamento competitivo dei prodotti tipici locali. Nella misura in cui i luoghi sono economie locali costitutive dell’economia nazionale, il declino o la scomparsa di un luogo significa automaticamente il declino o la scomparsa di una parte della storia e dell’economia nazionale. E il mancato sviluppo di un luogo, che con un sostegno mirato dall’esterno potrebbe svilupparsi, è un’occasione persa per accrescere la competitività dell’economia nazionale. La capacità di coordinamento a livello locale e quindi nazionale permetterebbe, nel medio lungo periodo, di innescare un ampio circolo virtuoso capace di coinvolgere non solo la realtà specifica, ma in grado di riflettersi su un più ampio giovamento anche a livello nazionale.

La via italiana allo sviluppo sostenibile, basato sulle coltivazioni e sui prodotti locali, sulle specialità autoctone, va protetta e conservata, difendendo il marchio e l’origine in tutto il mondo, difendendole dalle contraffazioni, favorendone il consumo, sia nelle comunità che nella rete distributiva. E accelerando la modernizzazione dei territori, tramite investimenti nelle infrastrutture, nelle reti di comunicazione e nelle energie rinnovabili . E naturalmente stimolando una cultura dell’innovazione adeguata alle specificità di ogni singolo territorio. Vi sono attività formative e di ricerca collocate sulla frontiera dell’innovazione in grado di sviluppare le capacità specializzate della popolazione di un luogo, e quindi la sua competitività, che non sono alla portata né delle capacità di ideazione, né delle cognizioni tecnico-scientifiche, né delle disponibilità finanziarie delle istituzioni locali o delle imprese, specie se di piccole dimensioni. Lo sviluppo locale oggi, nel regno della sostenibilità e in un sistema globale ad alta intensità tecnologica, non dipende più solo dalle sole forze locali, ma anche da una strategia nazionale, capace di coordinare un percorso di crescita comune.

La via italiana allo sviluppo sostenibile, basato sulle coltivazioni e sui prodotti locali, sulle specialità autoctone, va protetta e conservata, difendendo il marchio e l’origine in tutto il mondo, difendendole dalle contraffazioni, favorendone il consumo, sia nelle comunità che nella rete distributiva. E accelerando la modernizzazione dei territori, tramite investimenti nelle infrastrutture, nelle reti di comunicazione e nelle energie rinnovabili . E naturalmente stimolando una cultura dell’innovazione adeguata alle specificità di ogni singolo territorio. Vi sono attività formative e di ricerca collocate sulla frontiera dell’innovazione in grado di sviluppare le capacità specializzate della popolazione di un luogo, e quindi la sua competitività, che non sono alla portata né delle capacità di ideazione, né delle cognizioni tecnico-scientifiche, né delle disponibilità finanziarie delle istituzioni locali o delle imprese, specie se di piccole dimensioni. Lo sviluppo locale oggi, nel regno della sostenibilità e in un sistema globale ad alta intensità tecnologica, non dipende più solo dalle sole forze locali, ma anche da una strategia nazionale, capace di coordinare un percorso di crescita comune.

1. Secondo una sentenza della Cassazione Penale Italiana (sez III, 10 marzo 1993, n. 513)

2. SHIVA V. Prefazione a PETRINI C., PADOVANI G. Slow Food Revolution. Rizzoli, 2005.

3. Art. 1.2 Disciplinare agriturismo bio-ecologico del 30/06/2009.

4. Art. 4.1 Disciplinare agriturismo bio-ecologico del 30/06/2009.

5. Art. 1.2.2 Disciplinare agriturismo bio-ecologico del 30/06/2009.

Tratto da “Polaris – la rivista n.23 – PER UN AMBIENTALISMO FUTURISTA” – acquista qui la tua copia

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