Riflessioni

DA CAPORETTO A VITTORIO VENETO – Nascita del mito nazionale italiano

Piave e Marna sono due luoghi dello spirito, simili per mitologia eroica e per valenza patriottica: tuttavia a nessuno verrebbe in mente di parlare della ritirata anglofrancese nei termini in cui viene ancora oggi descritta Caporetto. 

Questo si deve al sentimento della sconfitta: alla sua percezione, che deriva, almeno in parte, da quel complesso d’inferiorità che serpeggiava tra le fila del Regio Esercito, e che affondava le sue radici nella storia dei fallimenti. 

Paradossalmente, proprio da questa paura sottile e dal sollievo per essersi finalmente, trovati di fronte alla prova del fuoco ed averla brillantemente superata, nacque l’idea di un nuovo italiano, finalmente padrone del proprio destino.

di Marco CimminoSocietà Italiana di Studi Militari

In tutte le guerre moderne o, perlomeno, in quelle in cui si sono verificate delle grandi battaglie campali, vi sono stati rovesci che hanno comportato oscillazioni, anche molto significative, della linea del fronte: questo, a posteriori, ha rappresentato certamente un forte elemento mitopoietico, specialmente per quanto riguarda i vincitori, ma non ha mai assunto i caratteri di vero e proprio mito fondante dell’identità nazionale, tranne che nel caso del popolo italiano, che, proprio dalla successione evenemenziale Caporetto/Piave/Vittorio Veneto ha, in un certo senso, tratto i segni distintivi del proprio carattere identitario.

In realtà, perfino una certa mentalità, tra il fatalistico e il fideistico, che ancora oggi pervade moltissimi aspetti della vita sociale e civile di larga parte degli Italiani, e che va dal tifo calcistico al provvidenzialismo politico, affonda le proprie radici in quel terreno di formidabile fecondità mitologica che fu l’ultimo anno della Grande Guerra ed il primissimo dopoguerra. Anzi, per essere più precisi, il periodo che intercorre tra il 24 ottobre 1917 e il 4 novembre 1921, data dell’inaugurazione, a Roma, dell’ara del Milite Ignoto.

In qualche modo, dicendo in estrema sintesi, Caporetto rappresentò la morte dell’Italiano antico e Vittorio Veneto fu il presagio di quello moderno, che avrebbe trovato la propria massima espressione nella retorica del movimento fascista. 

Un retrogusto tragicamente grottesco

Per comprendere la reale portata psicologica della sconfitta di Caporetto sui vertici militari e, per conseguenza, sull’opinione pubblica, è necessario, innanzi tutto, ricostruire il sentimento di sé che aleggiava nel Regio Esercito e, forse più ancora, i complessi irrisolti che la storia militare recente dell’Italia postunitaria aveva creato, nella classe dirigente.

Il Risorgimento, da un punto di vista militare, era stato, sostanzialmente un bluff: dopo le prime sopravvalutate vittorie sabaude del 1859, propiziate, peraltro, dal decisivo sostegno di Napoleone III e della sua armata, le truppe sarde e, in seguito, italiane, non avevano più avuto banchi di prova significativi, se non nel caso di clamorose sconfitte. Non fa testo l’impresa garibaldina del 1860/61 che, per il proprio carattere guerrigliero ed irregolare, ebbe peso irrisorio nella formazione di una coscienza di sé del Regio Esercito, trattandosi, in sostanza, di una campagna fortemente influenzata da elementi non militari, come il disfacimento strutturale del dominio borbonico in Sicilia o l’appoggio della Gran Bretagna e della massoneria britannica alla spedizione dei Mille. Quando il giovane regno italiano si trovò a dover fare sul serio, sul piano militare, andò quasi sempre incontro a colossali disastri, che, spesso, ebbero un retrogusto tragicamente  grottesco, come nel caso delle due sconfitte, decisamente umilianti, di Custoza e di Lissa, nel 1866, subite combattendo contro un avversario, almeno sulla carta, inferiore per uomini e mezzi.

Le scelte tragicamente sbagliate in materia di linea di comando o di schieramento in battaglia, operate da Lamarmora, Cialdini e Persano, in quelle circostanze, contribuirono egregiamente all’edificazione di un mito negativo che circondò i vertici militari italiani nelle guerre mondiali: in definitiva, dopo la sbornia patriottica preunitaria, si stava costruendo, sotto il luccicante mito dell’eroismo risorgimentale, che aveva carattere intrinsecamente estemporaneo ed individuale, un altro mito, sottilmente invasivo, che riguardava, invece, le masse combattenti e i loro comandanti.

Una sorta di inferiority complex o, se si preferisce, di paura che, prima o poi, qualcuno svelasse, con la forza delle armi, il bluff rappresentato dalla prosopopea militare della retorica patriottica, fino a rivelare la nudità del re, ovvero un esercito che non era capace di vincere da solo e, anzi, spesso era capace di perdere battaglie già vinte. Nonostante la propaganda militaresca dei Savoia, non poteva, infatti, sfuggire agli analisti militari e perfino alla gente comune, il fatto che le acquisizioni territoriali che avevano portato all’unità nazionale si erano sempre dovute ad interventi stranieri: la Francia, come si è detto, nella Seconda Guerra d’Indipendenza, e la Prussia nella Terza. Questo, anche se impercettibilmente, pesava sull’identità delle forze armate italiane ed avrebbe rappresentato, come vedremo, uno degli elementi fondamentali nella creazione del mito di Caporetto. 

Le rovinose imprese coloniali

Come se non bastasse, in un’atmosfera militarista e filo prussiana com’era quella dell’età umbertina, la pretesa italiana di essere considerata una grande potenza venne messa in ridicolo dalle clamorose sconfitte subite dall’Italia nel corso delle proprie campagne coloniali in Africa orientale, dove subì umiliazioni cocenti, col trattato di Uccialli (1889), dopo la piccola ma significativa disfatta di Dogali, di due anni prima, e, soprattutto, ad Adua (1896), dove caddero più soldati italiani che in tutto il Risorgimento, in quella che da molti è considerata la più grave sconfitta di un Paese europeo sul suolo africano.

In un certo senso, anche l’adesione dell’Italia alla Triplice Alleanza, nel 1882, contribuì ad acutizzare questo senso latente di inadeguatezza e di inferiorità: mentre Austria e Germania potevano contare su di una consolidata tradizione bellica e su affinità etniche e culturali (pur con tutti i limiti del caso), gli Italiani venivano considerati l’anello debole della catena, tanto per la loro mancanza di precedenti militari illustri quanto per il loro aspetto fisico e culturale. Non a caso, nelle riviste satiriche dell’epoca, il soldato italiano (quasi sempre un bersagliere, per la riconoscibilità del copricapo) veniva frequentemente raffigurato come un nanerottolo irsuto e dalla dubbia igiene personale, vestito più come un brigante che come un militare, dedito al vino e molto meno ai doveri della guerra: insomma, un alleato poco affidabile e pochissimo marziale. Va da sé che, dopo lo scoppio della guerra, queste caratteristiche caricaturali vennero esasperate dalla propaganda austro-germanica, che modellò la figura, grottesca e spregevole della Brigantenfreundschaft.

Tutti questi fattori, anche se collocabili soprattutto nella sfera del sentimento popolare e non in quella delle dichiarazioni ufficiali, certamente ebbero un peso sull’autostima su cui potevano contare i comandanti italiani e, in parte, anche i soldati, all’inizio della Prima Guerra Mondiale: è come se il Regio Esercito fosse stato affetto da una forma latente di schizofrenia, che lo portava ad esibire una fiducia nella vittoria, ma, sotto sotto, a temere che, da un momento all’altro, facesse capolino il demone della sconfitta.

A rafforzare questa sensazione di precarietà strategica, si devono certamente aggiungere lo sconcerto e il sentimento di intrinseca debolezza palesati dall’offensiva di primavera, scatenata da Conrad sugli altipiani, nel maggio del 1916, che condusse le truppe AU ad un passo dalla pianura vicentina: per quanto arginata e, in qualche misura, rintuzzata, questa offensiva avversaria, la prima, in un conflitto che vide quasi sempre gli Italiani nel ruolo di attaccanti, acuì la sensazione che il Regio Esercito fosse, in realtà, un gigante dai piedi d’argilla, capace di crollare alla prima iniziativa seria intrapresa dal nemico. 

Una disfatta annunciata

Quindi, Caporetto, giunse quasi come una catastrofe annunciata: come la crisi che, prima o poi, avrebbe dovuto manifestarsi. Anche per questo, il trauma della ritirata assunse quei caratteri semileggendari, in senso negativo, che fanno della crisi dell’ottobre 1917 qualcosa di diverso da qualunque altro rovescio militare della Prima Guerra Mondiale: perfino di quelli enormemente più gravi che caratterizzarono il conflitto sul fronte austro-russo.

Nel corso della guerra, ad esempio, le due grandi offensive tedesche, quella dell’agosto 1914 e il Kaiserschlacht della primavera del 1918, possiedono delle analogie impressionanti con quanto accadde in Italia, da Caporetto a Vittorio Veneto: un’avanzata apparentemente inarrestabile di centinaia di chilometri, un fiume che diventi simbolo della resistenza e della riscossa, il preambolo alla fine degli Imperi centrali a partire dalla controffensiva alleata.

Piave e Marna sono due luoghi dello spirito, simili per mitologia eroica e per valenza patriottica: tuttavia a nessuno verrebbe in mente di parlare della ritirata anglofrancese nei termini in cui viene ancora oggi descritta Caporetto. Questo si deve proprio al sentimento della sconfitta: alla sua percezione, che deriva, almeno in parte, da quel complesso d’inferiorità che serpeggiava tra le fila del Regio Esercito, e che affondava le sue radici nella storia di quei fallimenti di cui si è detto. Paradossalmente, proprio da questa paura sottile e dal sollievo per essersi finalmente, trovati di fronte alla prova del fuoco ed averla brillantemente superata, nacque l’idea di un nuovo italiano, finalmente padrone del proprio destino.

Nel corso della Prima Guerra Mondiale sul fronte italiano, era severamente proibito fotografare i propri caduti sul campo di battaglia e, ancor più, diffonderne le immagini: il soldato morto veniva considerato una visione deprimente e, in definitiva, disfattista. Le perdite, perciò, venivano sapientemente mascherate: le sofferenze terribili dei soldati in linea, le spaventose ferite, il numero spaventoso di cadaveri insepolti che ammorbavano i campi di battaglia, erano argomenti tabù e, anzi, si cercava, nei limiti del possibile, di rappresentare la vita e la morte delle truppe al fronte in una maniera tollerabile o astrattamente mistica.

La sconfitta di Caporetto, la ritirata e la resistenza sul Piave, però, modificarono questo atteggiamento e concorsero ad introdurre, proprio per metabolizzare un disastro che era impossibile nascondere, una nuova sensibilità ed un nuovo sentimento della guerra e della morte in combattimento. In qualche modo, i grandi comunicatori (oggi, diremmo gli “influencer”) italiani, D’Annunzio in testa, elaborarono una nuova dottrina mitopoietica, che servì non solo ad elaborare il lutto di Caporetto, ma che tracciò anche la strada del nuovo culto dei caduti, che avrebbe informato di sé tutta la retorica funebre del primo dopoguerra, a partire dalla costruzione degli imponenti sacrari militari innalzati dal fascismo.

Fino alla grande battaglia, infatti, la religione era rimasta, per così dire, ai margini della retorica militare: la guerra era stata un fenomeno sostanzialmente laico, in funzione delle sue radici risorgimentali e della formazione culturale dei generali italiani, che, spesso, erano massoni, secondo la tradizione di casa Savoia. Il fattore religioso si limitava, perciò, alla presenza dei cappellani militari e alla inevitabile superstizione religiosa dei soldati, fatta di croci, immaginette, simboli sacri, di pretto valore apotropaico, utilizzati più come talismani che come strumenti di culto. 

La trasfigurazione del sacrificio

Nel 1918, questo atteggiamento cominciò a cambiare, in maniera sempre più percettibile: il fante divenne una figura tragica e gloriosa, un martire, testimone della fede nella Patria, in una religione laica che avrebbe, in seguito goduto di grande fortuna. In altre parole, si cominciò a paragonare il combattente (e, massime, il combattente caduto) alla figura di Cristo: e, per ovvia associazione di idee, le vicende belliche, di Caporetto, del Piave e di Vittorio Veneto, vennero paragonate a quelle evangeliche, vale a dire la passione, la morte e la resurrezione di Cristo, come in una sorta di gigantesca sacra rappresentazione o di allegoria religiosa.

L’esempio più significativo di questa nuova mentalità è rappresentato dalla dannunziana Preghiera di Sernaglia, in cui la croce viene vista come umiliazione vergognosa, da cui Cristo si libera, venendo a combattere accanto al fante: appare evidente come un simile concetto di crocefissione, intesa non come sacrificio, ma come infamia, rimandi istantaneamente a Caporetto e alla sua lettura infamante per l’immagine del valore italiano. Va da sé, quindi, che la resistenza al Piave e, ancor più, il riscatto di Vittorio Veneto vengano a rappresentare l’apoteosi e la resurrezione, dopo i giorni bui del disonore e della vergogna. Non a caso, proprio “Apoteosi del Fante” s’intitola l’ultimo della serie di affreschi del pittore Ciotti, nella chiesa di Redipuglia, in cui il soldato morto viene rappresentato in una sorta di ascensione al cielo, mentre stringe convulsamente il Tricolore.

Lo stesso mito dei “Ragazzi del ‘99”, verte, in fondo, sulle medesime basi ideologiche. La classe 1899 era una classe di leva, già alle armi: non era formata da studenti entusiasti e volontari, come nel caso del ben noto Kindermord. Normale fu, pertanto, schierarli frettolosamente, magari ad addestramento non del tutto compiuto, a metà novembre, sul Piave, per tamponare, in una fase critica della battaglia d’arresto, l’avanzata avversaria. Il loro battesimo del fuoco non avvenne in condizioni peggiori né con maggiori perdite di quanto non fosse avvenuto per le classi 1898, 1897, 1896 e così via: anzi, le classi di leva che affrontarono le prime battaglie dell’Isonzo, certamente, subirono un impatto assai più traumatico con la guerra. Tuttavia, esse non vengono ricordate con particolare enfasi, così come la classe ‘900, pure entrata in linea prima della fine del conflitto. La ragione di tanta nomea e di tanta retorica celebrativa dedicata ai “Ragazzi del ‘99”, risiede, oltre che nella circostanza particolare del loro esordio in prima linea, proprio nel fatto che essi vennero considerati “puri”, incontaminati dalla vergognosa sconfitta di Caporetto: una generazione che non aveva conosciuto l’umiliazione della crocefissione, insomma.

Questo è il passaggio fondamentale, dal punto di vista simbolico e mitologico: l’idea di una quasi sconfitta, purificatrice e, in qualche modo, liberatoria, da cui possa uscire un nuovo popolo, temprato dalla battaglia, in cui si fondano le energie giovanili degli incontaminati e la caparbia volontà di lotta dei veterani. L’aristocrazia della trincea, che il fascismo avrebbe trasformato, nella propria dottrina, in un’aristocrazia nazionale.  

L’anti-Caporetto

Da questa originaria visione dannunziana, strettamente legata alle contingenze della resistenza al Piave, derivò, in seguito, la definizione, assorbita ed introiettata dal fascismo, di un italiano nuovo, liberato dai complessi pre-Caporetto, dotato di nuova sicurezza e nuove energie: un’avanguardia forgiatasi nella vittoria militare e che, dalle trincee, avrebbe portato il proprio vangelo vittorioso in tutto il Paese. Insomma, l’italiano che il fascismo voleva forgiare e, anzi, sosteneva di avere forgiato, era plasmato sul modello delineato dal D’Annunzio e dalla retorica di Vittorio Veneto, l’anti-Caporetto.

Naturalmente, la battaglia di Caporetto sarebbe rimasta, anche durante il Ventennio, come esempio clamoroso di sconfitta, di incapacità militare e di cedimento morale: avrebbe, anzi, portato danni molto seri agli interessi italiani, in sede di conferenza di pace, a Versailles, alimentando l’ulteriore leggenda dell’aiuto fondamentale fornito agli Italiani dagli alleati anglo-francesi (5 divisioni in tutto, schierate a spizzichi) e, addirittura, statunitensi (1 solo reggimento in linea), in occasione della resistenza sul Piave e sul Grappa.

Tuttavia, da mito esclusivamente negativo, attraverso questa metabolizzazione mistico-eroica, Caporetto si sarebbe trasformata in una sorta di preludio, buio e doloroso del trionfo, tanto più terribile quanto più sfolgorante e catartica sarebbe stata la successiva riscossa vittoriosa. Per il fascismo, in qualche modo, Caporetto apparteneva all’altra Italia, quella liberale, borghese: all’”Italietta”, insomma. Vittorio Veneto, invece, era già segnale e prodromo dell’Italia fascista. Senza Caporetto, in fondo, la vittoria finale non sarebbe stata così gloriosa ed assoluta: e questo, in qualche misura, trova una conferma nella storia militare, giacché, indubbiamente, se gli AU non avessero allungato così tanto le proprie linee logistiche e se, al contrario, gli Italiani non si fossero schierati a difesa su di un fronte così favorevole, la guerra non si sarebbe conclusa in modo così positivamente repentino per il Regio Esercito.

In conclusione, dunque, la gigantesca tragedia di Caporetto venne, in qualche misura, assunta come necessario preambolo di un’ancor più gigantesca rivincita: una sorta di  doloroso rito propiziatorio per la vittoria finale. O, forse, semplicemente, una revisione del vecchio mito della predilezione divina per un popolo, rispetto ad un altro. Non fosse che, durante la Grande Guerra, tutti i belligeranti ritenevano che Dio parteggiasse per loro.

Tratto da “Polaris – la rivista n.21 – L’ITALIA DELLE TRINCEE” – acquista qui la tua copia

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