Antropologia Sociale

MASCHERE MALATE – L’individuo ipermoderno e la scimmia dell’identità

L’uomo oggi è prigioniero delle pulsioni del consumo e diseducato dal prendere coscienza di sé. Si è illuso di perseguire le sue “liberazioni” che si sono puntualmente tramutate in nuove prigionie.

La perdita dei riferimenti è stata vissuta con la stessa euforia che scombina la mente dell’esploratore tra le dune del deserto, o del navigatore che si ritrova senza una indicazione di orientamento: uno stato di follia vissuto come una falsificata realtà, un panorama di miraggi impossibili da raggiungere.

Nulla di inedito: già nella conferenza che il psicoanalista Jacques Lacan fece a Milano nel 1972, Il discorso del capitalista, veniva inquadrata proprio la scomparsa dell’identità e la sua sostituzione con il surrogato dell’immagine.

Una maschera, una semplice e illusoria sembianza per coprire quello che in psicoanalisi si definisce come falso, Sé recita sul palcoscenico della vita sostituendo l’uomo integrale di cui ha preso il posto divenendone la scimmia.

di Adriano SegatoriPsichiatra psicoterapeuta

A ragione, una certa impostazione psicoanalitica parla di un nuovo approccio ai disturbi psichici definendolo con il termine di “clinica della maschera”.

Cosa si intende per questa procedura di indagine e di cura? Una cosa molto semplice, al di là della definizione esteriormente complicata: che al tempo attuale bisogna prima di tutto fare i conti con l’apparenza, con il disagio connesso con la necessità di sembrare come gli altri vogliono, prima ancora di pretendere di affrontare una identità con non c’è.

Nel tempo precedente la fatidica “contestazione”, e per tutto il periodo a ritroso fino all’invenzione freudiana, le problematiche che riempivano gli studi degli strizzacervelli erano legate alla rigidità della morale e dell’Io. La richiesta categorica della struttura sociale era il mantenimento del formalismo, delle norme della creanza, del costume della decenza, del rigore del comportamento. I sintomi sbirciati erano la timidezza, la ritrosia, le turbe sessuali e il senso di inadeguatezza.

Prigionieri di una libertà

Con la deriva libertaria e la rivendicazione del “tutto è possibile”, del “fa ciò che ti pare”, del “Né Dio, né padroni”, del “diventa ciò che vuoi”, la tracimazione delle pulsioni ha spazzato via ogni senso del limite, e con le convenzioni sopra indicate ha sradicato anche ciò che queste stesse convenzioni contenevano di positivo: la forma di uno stile, le regole dell’educazione, il senso del gusto, l’eleganza del corteggiamento, la forza del carattere. Qualcuno ha creduto e ha fatto credere che per essere liberi bisognava recidere le radici del passato e prendere in mano il proprio futuro senza riferimenti dati, vissuti come zavorra inutile o come impedimento all’esperienza. Il risultato finale è stato una soffocante prigionia in una morsa di voglie indotte sempre più pressanti e sempre meno appaganti, e in un tracollo inarrestabile del senso del proprio esistere.

La perdita dei riferimenti è stata vissuta con la stessa euforia che scombina la mente dell’esploratore tra le dune del deserto, o del navigatore che si ritrova senza una indicazione di orientamento: uno stato di follia vissuto come una falsificata realtà, un panorama di miraggi impossibili da raggiungere.

L’individuo ipermoderno è, nella sua espressione esistenziale, un non-soggetto, un essere spaesato incapace oramai di conoscere il suo passato e altrettanto incapace di comprendere – non soltanto di costruire – il suo stesso futuro. Pseudopadrone di sé, nei fatti è massificato al più alienante conformismo; anche la trasgressione è diventata conformista e, paradossalmente, anticonformista è proprio la volontà di rifiutare questo castrante allineamento.

Non è un caso se le patologie più in voga sono l’impotenza, la tossicomania, le varie forme di dipendenza – da cibo, da internet, da shopping, da gioco ecc. –, a dimostrazione che la presunta volontà di pretendere la libertà da tutto, alla fine, conduce inevitabilmente alla condizione di impossibilità di rifiutare ciò che si è prepotentemente preteso.

Stiamo assistendo a quella che viene definita come “eterogenesi dei fini”: l’uomo ha ritenuto di potersi liberare da quelle linee di forza che in una certa misura lo definivano all’interno di una cornice di identità, e si è ritrovato intrappolato all’interno di una rete di bisogni indotti che non è più capace di gestire.

Nella conferenza che il grande psicoanalista Jacques Lacan fece a Milano nel 1972, e intitolata Il discorso del capitalista, veniva inquadrata proprio la scomparsa dell’identità e la sua sostituzione con il surrogato dell’immagine. Non più il nucleo dell’uomo fondato sull’<<essere>>, ma una versione mistificata data dall’<<avere>> e dall’<<apparire>>.

In questo modo si completava il vero processo del capitalismo: non solo una metodologia di interesse economico con la conquista dei mercati e dei commerci, ma una vera e propria distorsione dell’anima e la trasformazione del’uomo a oggetto della propaganda di bisogni indotti e del loro consumo.

È evidente che per arrivare a questo risultato il capitalismo ha dovuto sedare le coscienze e anestetizzare lo spirito, in modo da annullare qualsiasi tensione legata al desiderio e favorire la semplice gratificazione delle voglie.

Desideri e voglie

Desideri e voglie, due espressioni che vengono usate artatamente come sinonimi, ma che dal punto di vista psicologico sono assolutamente all’antitesi. 

Il desiderio è dell’uomo differenziato, di quello che sa scegliere, che è consapevole delle sue decisioni. L’uomo del desiderio è colui che si assume la responsabilità di posticipare la soddisfazione immediata in nome e per conto di un progetto che ha in sé, contemporaneamente, i due dispositivi del rischio e della responsabilità. 

La voglia è la pulsione improvvisa e sempre diversa che necessita di un appagamento istantaneo, che si esime da qualsiasi opportunità di preferenza e di selezione in quanto viscerale e meccanica. Per questo motivo è sempre insoddisfacente, dato che non deriva da una valutazione sovrarazionale, ma risponde a stimoli vegetativi e a cortocircuiti di carattere impulsivo.

Per fare un esempio gastronomico, il desiderio sta all’appetito del buongustaio come la voglia sta alla fame del bulimico. Il primo valuta il menù, assapora secondo una preferenza e si ferma con soddisfazione; il secondo ingurgita seguendo il vuoto dello stomaco, si abbuffa senza nessun gusto e il suo senso di sazietà non è mai placato.

Per fare, invece, una considerazione psicologica, l’uomo differenziato è quello che può permettersi di desiderare perché ha una volontà che si manifesta attraverso l’esercizio di un carattere: da ciò deriva, e contemporaneamente conforma, la sua identità. Mentre l’individuo massificato non ha una struttura interiore che possa esercitare il difficile compito della padronanza di sé, quindi è in balìa di forze esterne che lo conducono verso obiettivi predefiniti, e lo condizionano facendogli credere di essere lui il padrone, mentre è soltanto il servo sciocco di un sistema controllante.

Identità e autocoscienza

Del resto, l’identità è strettamente collegata all’autocoscienza, e quindi che sentimento autentico può avere del suo Sé un uomo che non ha consapevolezza superiore della sua vita? Per altro, ogni uomo si costruisce quotidianamente un suo centro di certezza partendo da un imprinting iniziale che è dato dalla memoria familiare e dall’educazione ad un senso trascendente dell’esistenza. Che identità può avere, perciò, un individuo dell’ipermodernità, al quale è stato negato ogni valore al suo retaggio biografico e che l’unico imperativo al quale viene addestrato è quello di consumare il presente in una permanente e pervasiva insoddisfazione? L’identità, infine, si consolida e si conferma in un progetto che è, simultaneamente, volontà di sacrificio nell’assecondare una propria vocazione e spirito comunitario nel perseguire un destino condiviso. E che identità può avere chi è soffocato nelle proprie istanze vegetative e non ha nulla davanti a sé se non una società con programmi presentificati senza visione né prospettive future?

Una maschera, una semplice e illusoria sembianza per coprire quello che in psicoanalisi si definisce come falso Sé, e che in termini nazionalpopolari è solo la scimmia dell’uomo integrale, il vuoto simulacro di un’esistenza lasciata trascinare, la rappresentazione di una vita inconsistente che è solo la recita di una esistenza finita prima ancora di essere consumata.

Tratto da “Polaris – la rivista n.6 – FLUSSI E RIFLESSI” – acquista qui la tua copia

CS POLARIS

Polarità - Assalto culturale - Autonomie. Il primo Think Thank italiano al servizio della comunità nazionale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Language