Riflessioni

IL PARADISO PUÒ ATTENDERE – Dopo vent’anni di meravigliose promesse

Gli aedi di una nuova era di prosperità per il mondo intero, che da vent’anni proclamavano il nuovo verbo, devono oggi fare i conti con la dura realtà: in Europa, le liberalizzazioni, le privatizzazioni e le delocalizzazioni stanno provocando un’emorragia continua di occupati in settori vitali dell’economia, a stento frenata dal massiccio ricorso al lavoro flessibile, soprattutto tra i giovani.

Non solo, la globalizzazione di merci, capitali e uomini ha portato come conseguenza una logica concorrenziale che giocando sulla leva del costo del lavoro, permette di realizzare prodotti a basso costo, in altre aree del mondo (pensiamo a Cina e Corea) non solo su prodotti di bassa qualità ma anche su prodotti di “nicchia”. Di qui la necessità di abbassare anche in Europa il suddetto costo, fino, come ha sostenuto qualche attento osservatore, a “cinesizzare” il lavoro.

di Carlo BonneyEsperto in relazioni internazionali

Globalizzazione. E’ dal 1989 che questo termine vagamente inquietante echeggia dappertutto e suscita in commentatori ed analisti economici e politici quasi un’adesione ideale a qualcosa di vago ed indefinito, ma al contempo ineluttabile.

La globalizzazione economica, imposta a suon d’apertura di frontiere, di compressione della sovranità nazionale, esportazione di capitali e liberalizzazione di interi comparti produttivi è il prolungamento ideale del concetto di “mano invisibile del mercato” che fece la fortuna di Adam Smith e dei suoi discepoli.

Usiamo il termine discepoli non a caso, perché la globalizzazione, prima di costituire un modello economico, politico e militare è assurto al rango di dogma di fede. E i dogmi si sa, sono inconfutabili, e non possono essere messi in discussione se non dai non credenti.

I non credenti nella religione mercatista, che sottende ogni tipo di ragionamento sulla globalizzazione appartengono a diverse scuole di pensiero: da quelli di matrice cattolica che contestano le sperequazioni create dalla globalizzazione tra Nord e Sud del mondo, a quelli di matrice marxista che oltre al primo motivo ne sottolineano anche la funzione di ristrutturazione del Capitale non più compresso da fattori “nazionalistici”, a critici che per comodità di esposizione definiremo di “destra” i quali partendo da una critica della modernità e della primazia dell’economico sul politico ne hanno criticato l’essenza stessa di categoria.

Fatto sta che il processo di globalizzazione ha diverse angolazioni a seconda della prospettiva in cui ci si pone: se , per molti, essa costituisce il prologo economico ad un “Governo mondiale” politico che possa regolare e mediare le controversie internazionali, pare che i fatti stiano dando loro torto, in quanto quel che abbiamo sotto gli occhi in questi ultimi anni è una visione multipolare, alimentata da conflitti sempre più strategici, che proietta sulla scena nuovi attori quali Cina, Russia e India.

Anzi, è lecito affermare che in tempi di crisi economica e finanziaria come quelli che stiamo vivendo, gli Stati nazionali attuano una politica di recupero delle proprie prerogative “nazional-continentali” in settori nevralgici quali l’energia e la ricerca, ma non solo.

In Italia, uno dei teorici della fine degli “Stati nazionali” e dell’avvento di una nuova era globale in cui la dialettica sarebbe tra Impero globalizzatore e “moltitudini” indistinte, senza Stato ne’ Nazione è indubbiamente Toni Negri che nel suo libro scritto con l’americano Michael Hardt ”L’Impero”, sosteneva la tesi appunto di un Capitale oramai sganciato dal fattore nazionale, in una sorta di attualizzazione dell’operaismo di matrice trotzkista. Sembra che sia avvenuto il contrario.

Un ‘altra angolazione del problema è stata offerta dai teorici liberali “popperiani” che intravedono nella globalizzazione l’avvento dell’open society o affluent society, che favorirebbe l’inclusione individuale e sociale degli individui e delle categorie di genere in una società finalmente libera da tabù religiosi e politici.

Si tratta di una visione di derivazione anglosassone che trova il suo retroterra culturale in un’ottica protestante e che trova ormai ampia eco anche in Italia, basti pensare ai modelli sociali in rapida trasformazione nel nostro Paese.

Ma è probabilmente sul versante economico, terreno sul quale è nato e si è sviluppato il moderno concetto di globalizzazione che le cose non vanno per il meglio.

Gli aedi di una nuova era di prosperità per il mondo intero, che da vent’anni proclamavano il nuovo verbo, oggi si trovano a fare i conti con la dura realtà: in Europa, le liberalizzazioni, le privatizzazioni e le delocalizzazioni stanno provocando un’emorragia continua di occupati in settori vitali dell’economia, a stento frenata dal massiccio ricorso al lavoro flessibile, soprattutto tra i giovani.

Non solo, la globalizzazione di merci, capitali e uomini sembra portare come conseguenza una logica concorrenziale che giocando sulla leva del costo del lavoro, permette di realizzare prodotti a basso costo, in altre aree del mondo (pensiamo a Cina e Corea) non solo su prodotti di bassa qualità ma anche su prodotti di “nicchia”. Di qui la necessità di abbassare anche in Europa il suddetto costo, fino, come ha sostenuto qualche attento osservatore, a “cinesizzare” il lavoro.

Varcando i confini europei dai dati dell’Onu emerge chiaramente che la globalizzazione ha provocato un impoverimento diffuso e generalizzato in varie aree del mondo e soprattutto in continenti quali l’Africa , tagliata fuori dalla nuova competizione globale perché legata a strutture produttive arcaiche e prevalentemente comunitarie.

In Cina ed in altri paesi asiatici ad un indubbio accrescimento del PIL non ha corrisposto un miglioramento delle condizioni di vita di milioni di persone tenute ai margini del sistema produttivo: la conseguente parallela distruzione di forme economiche basate sullo scambio e sulla sussistenza di intere comunità ha fatto il resto.

In conclusione è possibile affermare che l’epoca della globalizzazione, così come ci era stata presentata da vent’anni a questa parte, sembra tramontata: pare affacciarsi, con prepotenza, l’epoca multipolare delle sovranità nazional-continentali in lotta tra loro per il predominio globale. Una lotta che può essere lunga e senza esclusioni di colpi.

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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