Antropologia Sociale

LA GLOBALIZZAZIONE CHE RIMPICCIOLISCE – Le meschinità del cosmopolitismo

Le globalizzazioni antiche avevano come mete la civilizzazione della terra, la trasformazione del caos in cosmo, l’esportazione della bellezza in sostituzione alla deformità primordiale, l’imposizione dell’ordine armonico contro la confusione anodina, la prescrizione di una legge e di una forma superiori rispetto all’anarchia indistinta degli impulsi primordiali. Era la lotta della civiltà contro la barbarie, e la volontà dell’uomo differenziato contro la passività indifferente dell’uomo primitivo.

Il cosmopolitismo tanto decantato, che si realizza attraverso la colonizzazione dell’Europa, dimostra la prima disfunzione nel pensiero che si possa rendere animata di culture e di tradizioni una semplice macchina tecno-economica che ha proprio come obiettivo l’azzeramento di ogni specificità per funzionare meglio nella sua opera di livellamento integrazionista. 

E’ bene approfondire e denunciare alcuni vettori del disastro. La funzione dell’economia, già accennata, che attraverso la corruzione degli abitanti del sud del pianeta, con l’induzione di bisogni consumistici, li spinge verso un Eldorado inesistente, procurando una democratica ed egualitaria povertà. 

di Adriano SegatoriPsichiatra psicoterapeuta

Sono anni, oramai, che il termine “globalizzazione” è usato con estrema noncuranza linguistica, senza il minimo rigore terminologico, né tanto meno viene sottoposto ad una analisi diversificata dei suoi contenuti.

C’è chi interpreta questo evento prolungato come una ineluttabile condizione storica, un inarrestabile fenomeno di cui bisogna evidenziare soprattutto l’aspetto umanitario.

C’è chi, invece, lo vede come un problema di ordine pubblico, una condizione allarmante che interessa la legalità e la sicurezza delle nostre città, delle nostre case e della nostra stessa incolumità.

C’è chi, ancora, come Zigmunt Barman, lo interpreta come la dovuta espiazione dell’Europa benestante per il suo passato di conquiste e di colonizzazione.

A seconda delle prospettive, come sempre avviene per chi crede in un relativismo accattone, tutte queste ed altre ipotesi possono essere valide, ma nessuna è mai riuscita a centrare con rigore e precisione il nocciolo di questo tanto discusso movimento epocale.

La globalizzazione, intesa come spostamento massivo di uomini, c’è sempre stata. C’è stata la globalizzazione romana, con l’aquila imperiale che dominava oriente e occidente e quella greca, con l’espansione nel sud della nostra penisola. Queste due, per indicare quelle più note e, per molti versi, quelle più incisive e radicate (il Cristianesimo è un discorso a parte) sono quelle che hanno influenzato i secoli passati. Gli obiettivi di entrambe erano ben definiti: imporre una legge ed una visione del mondo a tutta quella parte ancora arretrata e primitiva delle popolazioni straniere, e diffondere pensieri e culture a chi ancora era prigioniero di concezioni selvagge ed elementari dell’uomo, della società e della natura. In altre parole, le globalizzazioni sopra indicate avevano come mete la civilizzazione della terra, la trasformazione del caos in cosmo, l’esportazione della bellezza in sostituzione alla deformità primordiale, l’imposizione dell’ordine armonico contro la confusione anodina, la prescrizione di una legge e di una forma superiori rispetto all’anarchia indistinta degli impulsi primordiali. Era la lotta della civiltà contro la barbarie, e la volontà dell’uomo differenziato contro la passività indifferente dell’uomo primitivo.

Quella attuale, invece, è tutto fuorché un fenomeno di civiltà, da qualsiasi prospettiva venga considerato.

Da Occidente verso Oriente, dietro alla mascherata dell’esportazione della democrazia – e già su questo intendere la civiltà sarebbe da discutere – c’è un potere anonimo, o comunque indecifrabile, che agisce per fini monetari, determinando una totale perdita di controllo dell’azione geopolitica da parte delle nazioni interessate. Come ha fatto notare Guillaume Faye: “La potenza territoriale non è più interpretata altro che come strumento della sicurezza dei traffici (…) o mantenimento dei mercati per piazzare i prodotti dell’economia mercantile”. Il fenomeno in atto è un’arma – questa sì – di distruzione di massa, per devastare ogni forma di specificità e far convogliare i bisogni primari dei popoli al consumo più rapido e indifferenziato di ogni bene superficiale. I residui della sinistra liberale sono stati abbagliati da questa efficacia internazionalista, ben più riuscita e radicale della loro antica utopia comunista, e si affannano a giustificare l’impossibile: una fallimentare e documentatamene falsa globalizzazione del benessere e della felicità planetaria. 

Dietro alla loro cecità, c’è pure una buona dose di stupidità, non disgiunta da un’altrettanto devastante malafede. Il cosmopolitismo tanto decantato, che si realizza attraverso la colonizzazione dell’Europa, dimostra la prima disfunzione nel pensiero che si possa rendere animata di culture e di tradizioni una semplice macchina tecno-economica che ha proprio come obiettivo l’azzeramento di ogni specificità per funzionare meglio nella sua opera di livellamento integrazionista. Svela la seconda anomalia nel far passare l’idea che il benessere materiale possa diffondersi a tutte le lande del pianeta quando gli stessi territori, considerati poveri e in realtà ricchissimi di prodotti naturali, sono ostaggi da secoli di una endemica incapacità autoctona, e i cosiddetti migranti altro non sono che soggetti parassitari di una velleitaria opulenza nostrana. Manifesta la terza meschinità con le battaglie per la cittadinanza e il diritto di voto agli stranieri, scoprendo finalmente le carte, per chi le vuole e le sa leggere: manodopera a costo infimo per i diseredati della terra da parte del capitale industriale e formazione di un nuovo proletariato da buttare in una fallimentare, ma pur sempre pericolosa, lotta di classe.

I più facinorosi, e quelli con l’intelligenza più perfida dei no-global, come Antonio Negri, straparlano di “globalizzazione dei diritti”, senza riferirsi minimamente a quei doveri e a quelle responsabilità che ai primi sono indissolubilmente legati.

In questo senso, continuare a usufruire del termine generico e confusivo di “globalizzazione” e delle sue conseguenze per inquadrare il fenomeno in atto è fuorviante e mistificatorio; è un semplice esercizio di dialettica demagogica che non porta a nessun chiarimento né, tanto meno, a nessuna ipotesi di azione per fronteggiarlo.

Come per ogni problema complesso, l’unica modalità di analisi e di azione è individuare e circoscrivere singole linee di forza (o di debolezza), pur mantenendo la cornice sistemica della questione. Nel caso in esame è bene approfondire e denunciare alcuni vettori del disastro. La funzione dell’economia, già accennata, che attraverso la corruzione degli abitanti del sud del pianeta, con l’induzione di bisogni consumistici, li spinge verso un Eldorado inesistente, procurando una democratica ed egualitaria povertà. La complicazione demografica che vede un Occidente più sterile ma concentrato sul lusso ed un Oriente proletarizzato che usa la natalità come conquista del numero rispetto alla qualità della vita. La funzione delle agenzie umanitarie, le quali fanno leva sul risentimento delle popolazioni in transito, esaltano il cosmopolitismo della bontà ed eccitano artatamente il senso di colpa negli accoglienti.

Il senso di identità, che viene diluito in una generica appartenenza territoriale, negando il senso di abitare la propria storia. Il valore dello Stato, passato da creatore di visioni e di destini ad agenzia sociale con finalità distributive di diritti, con compiti terapeutici di soddisfazione di bisogni e di cure. E si dovrebbe ulteriormente spezzettare questo fenomeno-simbolo per smascherare le strategie legate al traffico della droga e al commercio delle armi, alla mistificazione monoculturale, al rischio delle guerre civili interetniche e via via elencando.

Settorializzare, denunciare e colpire: i tre procedimenti coordinati per poter sganciarsi da questa trappola di distruzione suicida.

Tratto da “Polaris – la rivista n.4 – GABBIE GLOBALI” – acquista qui la tua copia

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