Economia & Finanza

LA SUPERCASTA – Lobby finanziaria e interessi popolari

Nel mondo della finanza e dei suoi beneficiari sono impiegati forse qualche milione di persone; sappiamo che tutti gli altri sono oltre 6 miliardi. I benefici dell’attività finanziaria sono circoscritti esclusivamente a chi vi lavora dentro o accanto: tutti gli altri ne sono esclusi.

Detto in soldoni, da una oltre un decennio non stiamo accumulando alcunché a titolo di pensione in vista del momento, sempre più vicino, in cui il brillante sistema economico in cui abbiamo la fortuna di vivere ci espellerà dai suoi ranghi attivi. Non lavorando nel settore finanziario, come sosterremo il nostro reddito in quel momento se la pensione accumulata è quasi nulla? 

E’ in corso una guerra di trincea fra la lobby della finanza ed i rappresentati popolari, cioè i governi, per riformare il sistema.

di Vittorio De Pedys – Già banchiere d’investimento. Docente universitario in Italia e all’Estero

Si cercherà qui di illustrare le ragioni concettuali per le quali la finanza internazionale, in particolare quella degli ultimi due decenni, ha assunto caratteristiche così estreme da diventare perniciosa per il resto del mondo.

Intendiamoci, non si scopre certo oggi l’acqua calda, dicendo che la finanza serve sostanzialmente i propri interessi, a scapito di quelli di tutti gli altri. È stato sempre così, fin dai tempi dei cambiavalute; tale dimensione è solo diventata sempre più vasta e la sua influenza sempre più pervasiva col passare dei secoli e con il sofisticarsi degli strumenti usati sui mercati. Peraltro in qualsiasi testo o manuale di economia dei corsi del primo anno sotto la voce “finanza” viene spiegata la funzione del denaro con la teoria classica della utilità della moneta come depositario di valore e facilitatore degli scambi, nonché della necessità economica degli intermediari (banche, investment banks, fondi, ecc) come quei soggetti economici che assolvono alla vitale funzione di connessione fra fornitori di capitale in eccedenza (i risparmiatori privati , in genere) ed utilizzatori di capitale ( le aziende e lo Stato) che lo necessitano per investimenti.

Tutto ciò presuppone un meccanismo virtuoso o almeno non dannoso, nel quale, seppure in maniera diseguale, tutti gli attori traggono un beneficio. La inedita gravità della recente crisi economica ci sembra scardinare alla radice i concetti di cui sopra, che sono alla base dell’economia capitalista. Mai si era visto, ad esempio, che una gravissima crisi finanziaria avesse le dimensioni per gettare in recessione l’intero sistema economico occidentale. Normalmente era ben successo il contrario, con profonde crisi economiche (si pensi al 1929) che avevano come ovvi corollari dei crolli borsistici. Ma nel 2007 è venuto a compiersi un fatto veramente mai visto, laddove la inestricabile interconnessione e la pervasiva compenetrazione fra economia reale e finanza ha avuto il risultato di trascinare nel baratro del dissesto finanziario i maggiori intermediari statunitense anche l’intero occidente.

Sono le dimensioni relative dei due ambiti, reale e finanziario, ad aver cambiato tutto; un solo dato: un quarto di secolo fa esisteva per ogni dollaro di attività reale (una fabbrica, un oggetto, una cosa insomma) anche un dollaro di carta che quel bene rappresentava e poteva esser scambiato su mercati finanziari domestici o internazionali (azioni , obbligazioni, ecc). Nell’ultimo scorcio del sinistro decennio che si sta chiudendo invece, per ogni dollaro di attività reale sono venuti ad esistenza almeno 7 dollari di carta (oggi si chiamano in vari modi come cartolarizzazioni, derivati, indici, ecc). Non si è usato il termine “venuti ad esistenza” a caso, ma perché gli attivi finanziari in questione sono stati letteralmente creati dal nulla, col loro carico di profitti (per il gruppo degli investment bankers) e di rischi (per tutti gli altri) . Secondo alcuni calcoli di McKinsey (1), il GDP cioè l’insieme di beni e servizi prodotti nel mondo nel 2007 è stato di 56.000 miliardi di dollari; l’ammontare degli attivi finanziari (carta rappresentativa di beni) alla stessa data è stato di 343.000 miliardi di dollari.

Appare evidente come oggi sia la finanza, ovverossia “la carta”, ad avere le dimensioni ed il peso da guidare gli avvenimenti economici, e non più la crescita del prodotto lordo, la produttività od altre variabili reali. L’aver tanto insistito ed esplicitamente premiato la “innovatività e creatività” nel campo finanziario ha avuto, quasi come una nemesi, il risultato di aver quasi ucciso il cavallo che la trasporta. Come certi parassiti che sfruttano il corpo ospitante fino alla morte, convinti di poter poi passare ad un altro. Ci siamo andati molto vicino, signori. 

Il mondo, fino alla presente crisi, si poteva grosso modo suddividere in due gruppi : quelli che lavorano nella finanza, ovvero ne beneficiano, e tutti gli altri. Nel mondo della finanza e dei suoi beneficiari sono impiegati forse qualche milione di persone; sappiamo che tutti gli altri sono oltre 6 miliardi. I benefici dell’attività finanziaria sono circoscritti esclusivamente a chi vi lavora dentro o accanto: tutti gli altri ne sono esclusi. Nell’ultimo secolo si è verificata progressivamente una concentrazione di potere economico, politico e finanziario nelle mani di chi dispone del capitale; eppure oggi il capitale, che era una risorsa scarsa un secolo fa, non è più cosi’ difficile da trovare. Al contrario l’espansione della massa monetaria stampata dalle banche centrali contribuisce a tenere il prezzo del capitale, cioè i tassi d’interesse, a livelli molto bassi da circa un quarto di secolo. Ecco allora che il problema diventa non come reperire il capitale, ma come farlo fruttare per remunerarlo.

Tale problema in verità è storicamente recente in quanto in varie civiltà tradizionali, non interessate alla crescita del capitale finanziario, il ricavare denaro dal denaro è considerato illegale o comunque immorale. Nell’India dei Veda alle classi superiori dei brahamana e degli kshatryia tale attività era preclusa; nell’antica Roma era considerata non nobile e non adatta ai patrizi (2); nel Medioevo la Chiesa vietò del tutto il prestito del denaro ad interesse ai cristiani osservanti e tale divieto lasciò nelle sole mani degli Ebrei l’esercizio della finanza. Una originale interpretazione di Ezra Pound sul tema dell’usura spiega la nascita del Monte dei Paschi di Siena (ammassi dei pascoli) come risposta “popolare” alla potenza della Banca d’Inghilterra, che già nel 15 ° secolo dettava leggi usurarie. Ancor oggi nei paesi musulmani, la legge coranica vieta del tutto la percezione dell’interesse (3)

Si badi bene: il problema del rendimento (rectius, della mancanza di rendimento ) del capitale, purtroppo, non è un divertissment di qualche milione di persone che ne beneficia. Al contrario riguarda tutti noi, le nostre pensioni, i nostri magri risparmi investiti in fondi comuni o titoli di Stato. Si dia uno sguardo ai principali indici borsistici dal 1998 ad oggi: essi si trovano a livelli pressoché immutati. Ciò significa che da almeno una dozzina d’anni, mentre il PIL mondiale è comunque aumentato, il rendimento del capitale investito in borsa è stato nullo, con buona pace della nostra pensione e delle trattenuta in busta paga sotto la medesima voce .

Detto in soldoni, da una oltre un decennio NON stiamo accumulando alcunché a titolo di pensione in vista del momento, sempre più vicino, in cui il brillante sistema economico in cui abbiamo la fortuna di vivere ci espellerà dai suoi ranghi attivi. Non lavorando nel settore finanziario, come sosterremo il nostro reddito in quel momento se la pensione accumulata è quasi nulla? È chiaro che qualcosa si è rotto nelle relazioni di lungo periodo fra finanza ed economia.

Proviamo a mettere sullo stesso grafico un secolo di storia finanziaria e tracciamo la crescita dal 1900 al 2010 delle due principali classi di attivo in cui tutti investono i loro risparmi : azioni e titoli di Stato. Dal 1900 fino al 1998 aver investito in azioni ha significato aver sistematicamente ottenuto un rendimento medio di circa 7-8 punti percentuali annui superiore a quello dei titoli governativi. Logico, spiega la teoria classica, in quanto investire in azioni significa accettare un rischio maggiore per il proprio capitale rispetto ai titoli pubblici e tale rischio è giusto che attragga una remunerazione maggiore. Ecco perché gli esperti hanno sempre consigliato in maniera “disinteressata” alle giovani generazioni di investire i loro risparmi in borsa, in virtù del fatto che nel lungo periodo la performance è storicamente maggiore. Ma , come visto qui sopra, dal 1998 le cose hanno cominciato a cambiare in peggio, e , mentre il rischio corso dall’investitore è rimasto alto, la sua remunerazione è crollata, dissociandosene. Tale nuova tendenza è tuttora in corso e non dà segni di inversione o ritorno alla “normalità”.

Riassumiamo gli elementi emersi di recente: 

1. una classe di persone non troppo numerosa (chiamiamoli per semplicità i banchieri di investimento) ed i loro “clientes” che ha assunto una importanza assolutamente fuori di ogni possibile relazione con l’utilità sociale del loro mestiere. Anzi si osa dire qui che tale tipo di lavoro è diventato dannoso per l’umanità.

2. un settore, quello genericamente definibile finanziario, che ha la capacità di far creder a tutti coloro i quali non vi lavorano dentro che esso è indispensabile alla vita del mondo, quando è piuttosto vero il contrario. Basti seguire la mole di giornali, televisioni, programmi, professori, , esperti, che dibattono quotidianamente tali temi 24 ore su 24 . Utilità? Zero. 

3. danno dentro il danno, l’attenzione è focalizzata sempre e solo su temi di brevissimo termine (ad es. cosa ha fatto il mercato oggi?, oppure sono salite le Fiat ieri? Oppure le banche centrali alzeranno i tassi la settimana prossima?) e quasi mai sui grandi temi e le grandi tendenze che veramente impattano la vita di tutti i cittadini, come si è ad esempio evidenziato sopra.  

4. le dimensioni dei fenomeni finanziari sono ormai tali da influenzare direttamente la situazione economica del mondo. Corollario inevitabile di tale “cartolarizzazione “ del pianeta è che la volatilità, cioè i rischi che corriamo per i nostri risparmi , è enormemente aumentata, a scapito dei nostri rendimenti. I titoli si stato rendono il 2% circa all’anno, le azioni tra meno 10% e più 10%. Il nostro futuro pensionistico è compromesso, grazie alle acrobazie di chi è incentivato a giocare con soldi non suoi partite sempre più rischiose nelle quali al massimo, se le cose dovessero andar proprio male, potrebbe perdere il suo bonus annuale, laddove noi perdiamo tutto.

Le prospettive future, nel grande regno del capitale, non sono rosee. Neppure una crisi di dimensioni senza precedenti come la attuale sta suggerendo ai governi di attuare misure veramente drastiche di ridimensionamento del fenomeno patologico della finanza fine a se stessa. Al contrario si stanno cercando rimedi “tecnici” sui tavoli “concertati” con tutti gli “esperti” della materia. Nulla di più sostanzialmente inutile. Basti vedere che topolini stanno partorendo le citate montagne in termini di nuova regolamentazione dei sistemi finanziari e delle banche. Il filo conduttore di questa rivista è “guerre di posizione” e tale titolo benissimo si attaglia alla guerra di trincea in corso fra la lobby della finanza ed i rappresentati popolari, cioè i governi, per riformare il sistema. Ocorre dire che, allo stato, le lobby sembrano difendersi molto bene, in termini di terreno ceduto. Sulle nuove norme per le banche in discussioni sui tavoli tecnici citati, ci viene in mente il seguente passaggio che tristemente riproduciamo : 

“Questa legge produrrà effetti massimamente favorevoli per la Fratellanza bancaria di tutto il mondo… I pochi che possono comprendere il sistema o saranno interessati al proprio vantaggio o saranno alle dipendenze dei primi, tanto che da quella parte non vi è da attendersi alcuna opposizione; mentre d’altro canto il grosso mucchio di quelli intellettualmente incapaci di riconoscere quale gigantesco beneficio il capitale ricaverà da questo sistema porterà il suo fardello senza protestare e forse non sospetterà mai che il sistema è contro i suoi interessi”.

Stralcio della lettera inviata dai fratelli Rotschild ai loro corrispondenti in Wall Street, Ickleheimer, Morton & Wandergould il 25 giugno 1863 dopo l’emissione del National Bank Act.

Servono idee radicalmente diverse, affinché si faccia qualcosa di utile alla crescita economica ed al benessere dei cittadini, chiamati sempre a pagare il conto. Ne presenteremo alcune nelle prossime edizioni. Con quanta amara nostalgia rileggo le note di un professore atipico del dopoguerra, lo scomparso economista Federico Caffè, col quale mi laureai col massimo dei voti ma non senza aspri contrasti; in tempi non sospetti (anni ’80) egli invitava educatamente ma senza mezzi termini gli studenti a non presentarsi all’esame di politica economica avendo letto solo Milano Finanza o Mondo Economico ma piuttosto a fare qualche seria riflessione sul deficit di crescita economica dell’occidente e del terzo mondo. Impegno per la crescita, sempre; tempo per la finanza, poco. Parole vere ieri come oggi. 

Ad essere onesti bisogna riconoscere che in Italia se non altro il conto pagato alla crisi dai cittadini è stato molto meno salato che quello degli Stati da cui provengono da sempre interessate lezioni di comportamento: gli anglosassoni. E questo in virtù proprio di un minor grado di finanziarizzazione dell’economia di cui possiamo andare giustamente fieri. Un residuo di nostra saggezza contadina ci impedirebbe di chiedere un mutuo per il 120% del valore di una casa di scarso pregio, senza avere neppure un centesimo da versare e tantomeno un lavoro sicuro. Un altro dei nostri punti di forza è che parliamo poco inglese e capiamo poco di finanza. Che gli Dei veglino affinchè le cose restino così e nella Saturnia tellus si studi più latino e meno inglese e finanza a scuola.     

1. Mckinsey global institute global financial assets database; Bloomberg

2. Corre l’obbligo menzionare almeno una poco nota eccezione: il “mobilissimo” cesaricida Bruto, dipinto dai partiti anticesariani e dagli intellettuali di tutti i tempi come l’incarnazione delle virtù repubblicane prische della sua insigne famiglia, non si vergognava di pretendere interessidel 40% l’anno sui capitali imprestati ai suoi debitori greci.

3. Ogni legge ha il suo inganno, per cui troviamo che attualmente tra i maggiori investitori istituzionali del mondo figurino quasi tutti i fondi sovrani dei paesi arabi produttori di petrolio, che li utilizzano con fini politico-finanziari per il riciclo sui mercati di tali ingenti surplus di bilancia dei pagamenti.       

Tratto da “Polaris – la rivista n.3 – GUERRE DI POSIZIONE” – acquista qui la tua copia

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