Antropologia Sociale

IL PUGNO D’ARGILLA E LE NUOVE FRONTIERE – La città europea nel mutamento epocale

Da tempo molti quartieri  si sono trasformati in nuove frontiere per stranieri extraeuropei alla ricerca di ciò che difficilmente le nostre città possono offrire: lavoro e integrazione sociale. Dopo aver lavorato saltuariamente in nero e abitato per pochi mesi in locali fatiscenti, in molti casi subaffittati da altri stranieri, gli immigrati abbandonano la città e sono subito sostituiti da nuovi arrivati, in un continuo fluire che ha un effetto dirompente sul tessuto urbano e sociale.

È difficile immaginare come sarà la città europea del futuro. Essa potrebbe implodere nelle sue ferite, in quelle frontiere interne presuntuosamente sottovalutate dalla casta politica in disfacimento che, per ora, la sta amministrando, cedendo sotto i colpi di un assedio inesorabile. In un diverso scenario potrebbe prevalere una nuova valorizzazione del territorio extraurbano e dei centri storici che permetterebbe alle vecchie metropoli industriali di sopravvivere come centri amministrativi, universitari, di innovazione e di ricerca.

Ma questa ipotesi presuppone la rinascita del senso politico aristotelico, che sembra ancora lontana.

di Pietro FalagianiCollaboratore universitario presso la cattedra di Estetica dello Spettacolo dell’Università degli Studi di Milano, produttore esecutivo musicale

In un tranquillo pomeriggio pre-elettorale può accadere di imbattersi in uno scenario insolito, più simile al set di un film di guerra che alla realtà di tutti i giorni, in cui i militari, in tenuta anti-sommossa, sono molto più numerosi della popolazione civile. Stiamo percorrendo una delle vie più importanti di una grande città del nord, raccordo principale tra il centro storico e le conurbazioni post-industriali che si stanno trasformando in quartieri residenziali o universitari.  Siamo nel luogo in cui, a seconda dei punti di vista, si realizza la convivenza multietnica o, al contrario, se ne manifesta il fallimento in modo esemplare. Da tempo quartieri come questo si sono trasformati in nuove frontiere per stranieri extraeuropei alla ricerca di ciò che difficilmente le nostre città possono offrire: lavoro e integrazione sociale. Dopo aver lavorato saltuariamente in nero e abitato per pochi mesi in locali fatiscenti, in molti casi subaffittati da altri stranieri, gli immigrati abbandonano la città e sono subito sostituiti da nuovi arrivati, in un continuo fluire che ha un effetto dirompente sul tessuto urbano e sociale. La risposta dei nostri rappresentanti politici a questo fenomeno è disarmante nella sua semplicità: inscenare una sfilata di mezzi militari e uomini in divisa prima delle elezioni, sostituire le insegne dei negozi arabi e cinesi con altre in italiano a scrutini conclusi, proclamando il trionfo del decoro urbano. E’ la tattica del pugno d’argilla: far presa sui deboli per poi sgretolarsi al primo contatto con il mutamento epocale, e ha il solo obiettivo di evitare le elezioni anticipate e permettere la spartizione dei guadagni di iniziative come Expo 2015. Per la prima volta nella storia europea, lo sviluppo delle metropoli non ha nessuna direzione. 

Il passaggio alla rappresentatitivà moderna, fondata sull’opinione pubblica e sulla democrazia parlamentare che dovrebbe rispecchiarla, ha origine nella dissoluzione di ciò che Habermas chiama carattere pubblico-rappresentativo. In un passo di Storia e critica dell’opinione pubblica il filosofo tedesco afferma, infatti, che “quando il Signore territoriale raduna intorno a sé i Signori laici ed ecclesiastici non si tratta di un’assemblea di delegati che rappresenta qualcun altro. Essi sono il Land. Attributi personali del carattere pubblico-rappresentativo sono le insegne,  l’habitus, il gestus e la retorica”. Il dominio politico dell’opinione pubblica borghese è il fondamento della nuova metropoli industriale: con l’affermarsi della democrazia rappresentativa moderna, dalla fine del Settecento, una classe nutrita dai giornali, che non svolge alcuna attività specifica oltre a mercanteggiare i consensi, si pone alla guida di un nuovo modello di sviluppo.

La realizzazione dell’individuo nella città, intesa come corpo sociale organico proiettato in una visione del mondo saldamente strategica, è all’origine dell’identità europea. In un celebre passo della  Politica, Aristotele afferma che “se tutte le associazioni tendono a qualche bene, a più forte ragione vi deve tendere quella che è sovrana fra tutte, e comprende tutte le altre: questa è quella che viene chiamata città e associazione politica. L’associazione di più famiglie per il raggiungimento di un’utilità più larga è il villaggio. L’associazione di più villaggi è la città. Chiamiamo natura di una cosa la sua condizione all’ultimo stadio del suo svolgimento. La città è dunque un fatto naturale, e l’uomo è per natura un animale politico. Se ognuno non basta a se stesso, sarà rispetto alla città nella stessa condizione della parte col tutto”. La città greca comprende e accoglie tra le sue mura la popolazione rurale, in essa gli ambienti pubblici prevalgono su quelli privati. Quella romana si estende nell’ampio spazio dell’impero, ordinando il paesaggio in una vastissima rete di insediamenti legati da grandi opere viarie e agrarie.

Dalla lunga fase di decadenza del territorio romanizzato emerge una nuova città che aderisce al paesaggio geografico su cui sorge, perdendo così la connotazione di una rete estesamente organica. L’unicità del territorio che circonda le mura cittadine è la chiave per comprenderla: al di fuori di esse non vi è più la sacralità pagana della selva, ma una natura che, secondo l’interpretazione cristiana, è creata per l’uomo e deve essere addomesticata. L’associazione di allevamento e agricoltura determina un forte aumento demografico e, nel contesto dell’Europa ormai policentrica, l’arte e l’architettura cittadine si allontanano dall’imperturbabilità del mondo classico, dall’apertura e dalla luminosità delle città greche e romane, per accogliere l’ombra, la difformità, gli spazi angusti, i volumi che l’occhio non può più cogliere con un unico sguardo ma che sono frammentati e disegnati da sottili lame di luce. Ogni città, cinta dalle mura, diventa un’entità autonoma che sa parlare all’uomo e al mondo, umile per il suo isolamento e orgogliosa per la sua universalità. 

L’affermazione del bello visivo, che porta l’uomo al centro della natura e la ricerca della natura nel cuore dell’uomo, a partire dal XIV secolo apre la via a una nuova stagione: compaiono i primi paesaggi indipendenti dalla narrazione e Petrarca, che dopo un’ascensione del 1336 sul monte Ventoux, “spinto unicamente dal desiderio di vedere un luogo famoso per la sua altezza”, ci fornisce il primo resoconto escursionistico, così descrive gli spettacoli pubblici veneziani del 1363: “tutti i possibili punti di osservazione erano ricolmi di spettatori. Nulla era più piacevole per la gente della gioia che si vedeva sui volti di tutti.” L’ambizione della città principesca trasfigurerà il tessuto urbano dal Quattrocento, incrinando la continuità tardogotica con l’organicità progettuale della nuova cultura artistica  teorizzata e realizzata da Alberti e Filarete. La tensione visiva si estenderà dai grandi interventi prospettici, a partire dal secondo Cinquecento, fino ai giardini seicenteschi, caratterizzati dalla ricerca del bello mimetico che imita l’irregolarità della natura, ma già appare chiaro, come afferma Jaspers, che, da Copernico e Galileo in poi, conoscere non significa più ritrarre il mondo ma scoprire le leggi che lo governano. Si avvicina, ormai, la grande stagione della tecnica.  

Dal 1789, con la progressiva affermazione dell’opinione pubblica borghese, la città europea è segnata dalla sovrapposizione caotica e conflittuale di interessi pubblici e privati. La società industriale realizza uno sviluppo in cui il mutamento è affidato al profitto, spesso celato dietro la maschera rassicurante del progresso, che domina la volontà dell’uomo. Letterati e pittori descrivono lo shock della folla convulsa, sovrastata da un ritmo che non ha nulla di umano. La metropoli è caratterizzata dal paesaggio industriale descritto da Dickens e raffigurato nelle incisioni di Gustave Doré, e nella prima metà dell’Ottocento la popolazione cittadina aumenta anche di quattro volte. Owen e Fourier provano a ideare nuove forme di insediamento auspicando un’armonia sociale già profondamente rimpianta. Haussmann, prefetto di Parigi tra il 1853 e il 1869, apre la grande fase dei lavori pubblici che, per migliorare le condizioni della vita cittadina, finirà col distruggere i centri antichi, snaturando il tessuto urbano con una pianificazione priva di identità che si diffonderà in tutta Europa.  

Il modello concentrativo, basato sull’accumulazione di forza-lavoro a basso costo nelle periferie, si è imposto fino agli anni Settanta del Novecento. Esso ha diffuso le ideologie subdole del consumismo e dell’edonismo, che hanno finito per alienare l’individuo da ogni forma di radicamento nel territorio urbano, spingendolo verso la ricerca di stili di vita che, nel susseguirsi delle crisi e nel sorgere di nuove contraddizioni economiche, sono diventati una vera e propria corsa verso il nulla. Oggi questo modello, in crisi nell’Europa delle metropoli congestionate e improduttive, si impone in Cina, il cui sviluppo è stato ritardato di un cinquantennio, e attrae nelle grandi città industriali le popolazioni contadine occupando quasi un milione di nuovi operai al mese. Secondo alcuni studi scientifici, l’industrializzazione incontrollata dell’Asia metterebbe in dubbio la sopravvivenza dell’intero ecosistema e, sostenendosi su questo argomento, le democrazie occidentali, che hanno sviluppato il proprio tessuto industriale senza ostacoli per oltre un secolo, si arrogano, oggi, il diritto di chiedere alla Cina di frenare il suo sviluppo, mostrando tutta la loro fragilità politica, economica e culturale. Con queste premesse, è difficile immaginare come sarà la città europea del futuro. Essa potrebbe implodere nelle sue ferite, in quelle frontiere interne presuntuosamente sottovalutate dalla casta politica in disfacimento che, per ora, la sta amministrando, cedendo sotto i colpi di un assedio inesorabile. In un diverso scenario potrebbe prevalere una nuova valorizzazione del territorio extraurbano e dei centri storici che permetterebbe alle vecchie metropoli industriali di sopravvivere come poli amministrativi, universitari, di innovazione e di ricerca. Ma questa ipotesi presuppone la rinascita del senso politico aristotelico, che sembra ancora lontana.

Tratto da “Polaris – la rivista n.2 – STRADE D’EUROPA” – acquista qui la tua copia

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