Antropologia Sociale

TUTTI PAZZI – La follia condivisa della contemporaneità

A ragione, si può parlare di follia contemporanea, perché: “La follia si genera dal rifiuto del disagio della Civiltà, mentre la nevrosi invece è una malattia del disagio della Civiltà” .

Se si volesse tentare un’esemplificazione dei due estremi di negazione della realtà malata si potrebbero paragonare i comportamenti di figure tipo: l’uomo in carriera (manager, yuppie, politicante, operatore finanziario…) assolutamente integrato nel sistema, ligio alle regole sociali e consono ai dettami della moda, e il deviante (tossicomane, bulimico, alcolista, stupratore…) totalmente escluso, incapace di rispettare qualunque norma e inadeguato al minimo autocontrollo e alla più semplice regola. 

di Adriano SegatoriPsichiatra psicoterapeuta

Che si viva in maniera folle e disordinata non sembra essere una considerazione eccessiva, considerando lo sviluppo esponenziale dei disturbi psichici, delle denuncie di malesseri più o meno eclatanti, dell’espansione delle sostanze stupefacenti e delle condotte a rischio nei giovani. I dati statistici sono a disposizione di chiunque e gli interventi allarmistici fanno la felicità dei politici in carriera e degli specialisti a caccia di un fiorente mercato.

Un grande psicoanalista come James Hillman – creatore della psicologia archetipica – smascherava questo fenomeno molti anni fa: “Oggi la patologia la si incontra nella psiche della politica e della medicina, nella lingua e nel design, nel cibo che mangiamo. Oggi la malattia è <<là fuori>>. […] I nuovi sintomi sono la frammentazione, la settorializzazione, l’iperspecializzazione, la depressione, la perdita di energia, l’uso di linguaggi settoriali e la violenza. Abbiamo edifici anoressici, un mercato paranoide, una tecnologia maniacale”.

Il disagio è diffuso in maniera pervasiva, e le manifestazioni più evidenti dello stesso si diversificano nei vari paesi del mondo a seconda delle specifiche culture e dei distinti stili di vita.

Nel primo e unico intervento in Italia – precisamente nel 1972 all’Università Statale di Milano – Jacques Lacan espose per la prima volta la sua teoria sulla causa del male della modernità, definendola in modo riassuntivo come “il discorso del capitalista”. Al di là del linguaggio rigoroso e approfondito dell’analista francese, che ai non addetti ai lavori può sembrare contorto e cervellotico, la sua interpretazione della malattia sociale in corso – e aggravatasi nella metastatizzazione durante gli ultimi anni – è in realtà molto chiara e più che condivisibile.

Il capitalismo, o meglio ancora l’apparato ideologico che supporta ed allarga questa visione del mondo, non è solo un metodo di intendere l’economia ed una modalità per affrontare il mercato, ma una vera e propria distorsione del soggetto, della sua personalità, della sua struttura psichica. Il capitale, e la finanza transnazionale e anonima che ne è la linfa vitale, attraverso la precarizzazione del lavoro, la liquidazione dei legami comunitari, la riduzione del soggetto a individuo, l’enfatizzazione dell’avere e del rappresentare sulla priorità dell’essere, ha ridotto l’uomo ad un elemento materiale, facilmente sostituibile nella catena dell’efficienza del sistema, agevolmente adattabile ai cambiamenti strutturali dello stesso e, cosa molto più importante e interessante per l’apparato, maggiormente influenzabile dai dispositivi della propaganda.

Per ottenere questi risultati non ha usato metodi violenti e di forte impatto emotivo, che avrebbero potuto creare una condizione di conflitto palese e un consapevole fronte di resistenza, ma ha applicato la tecnica dell’erosione di ogni certezza, del logoramento silenzioso e impercettibile dell’identità, della disgregazione dello stesso apparato psichico individuale e collettivo.

Il capitalismo ha giocato di fino, utilizzando una debolezza implicita nell’animo umano, un suo paradosso conflittuale. Ognuno di noi sente l’urgenza di essere affrancato dal rischio della vita, dalla paura dell’incertezza, dall’arcaico timore della morte violenta – come insegna Hobbes nel suo Leviatano –, e per porre rimedio a questa condizione esistenziale si affida all’ordine, al confine, alla protezione del sistema a cui delega la vita stessa. D’altra parte, ognuno di noi manifesta anche una pressante istanza alla libertà, di conquista, di esagerazione: movimenti che danno un senso al percorso vitale e un significato più ampio di decisione e di scelta personale. L’equilibrio, per quanto precario, deriva dalla giusta armonia tra le due istanze, nel compromesso tra frustrazione e gratificazione.

Allora come si è mosso il capitalismo? Agendo sulla coscienza di ognuno, con una strategia a lungo termine e con modalità subliminali. Per un verso ha esautorato l’Io dalla sua funzione di rappresentare la realtà, dal suo ruolo di ragione, permettendo di accettare in maniera acritica la realtà stessa proposta senza il filtro di un esame consapevole. Per un altro ha ridotto ai minimi termini il Super-Io, quella istanza preposta proprio a definire il limite implicito nella realtà, il senso del divieto, che specialisticamente parlando era delegato al Padre come rappresentante della Legge, nel senso più ampio di acquisizione del senso del dovere e della responsabilità. Infine, ha permesso lo straripamento dell’Es, ha concesso l’espressione di ogni voglia e l’appagamento istantaneo di qualsivoglia passione.

Il risultato ultimo di questa indotta patologia sociale è una enorme mascherata pseudoidentitaria nella quale ognuno riproduce esattamente ciò che gli altri e il sistema vogliono che lui sia; una quotidiana finzione nei rapporti interpersonali e nella relazione con se stesso. Questa medesima maschera trova un senso a mantenersi con il ripiegamento su di sé, con quelle forme di narcisismo diffuso che fanno la gioia e la ricchezza del mercato, con i suoi continui quanto futili bisogni indotti. E per consolidare il tutto, il cinismo più indifferente ha ridotto ogni rapporto a contratto, trasformando l’antica pietà e carità comunitaria in un miserabile solidarismo societario. 

La più grande illusione riuscita è quella di fare credere all’uomo dell’ultramodernità di essere libero, emancipato e anticonformista, quando nella realtà dei fatti si tratta soltanto di una pseudopadronanza – come la definisce Massimo Recalcati –, di una enorme e incontrollata alienazione che deriva dall’incapacità di leggere tra le righe dei comunicati trionfalistici del potere e di avere la consapevolezza della rete nella quale ogni singolo è anesteticamente invischiato.

Mentre nell’altro secolo, e più precisamente prima del fatidico sessantotto e della rivoluzione dei costumi, il disagio della civiltà – così lo definiva Freud – era caratterizzato dagli aspetti repressivi dell’educazione e della morale, con l’emergere della nevrosi, nel nostro tempo il disagio è esattamente l’opposto: l’autorizzazione allo scatenamento delle forze più basse e più grossolane che sono costanti in ognuno di noi. 

Per questo motivo, a ragione, si può parlare di follia contemporanea, perché: “La follia si genera dal rifiuto del disagio della Civiltà, mentre la nevrosi invece è una malattia del disagio della Civiltà” (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio, Raffaello Cortina, Milano 2010).

Se si volesse tentare un’esemplificazione dei due estremi di negazione della realtà malata si potrebbero paragonare i comportamenti di figure tipo: l’uomo in carriera (manager, yuppie, politicante, operatore finanziario…) assolutamente integrato nel sistema, ligio alle regole sociali e consono ai dettami della moda, e il deviante (tossicomane, bulimico, alcolista, stupratore…) totalmente escluso, incapace di rispettare qualunque norma e inadeguato al minimo autocontrollo e alla più semplice regola. 

È questo l’altro grande paradosso, anche se poco visibile nella sua immediatezza. Entrambi vivono perfettamente la follia dell’ipermodernità: il primo nella negazione omologata della sua malattia, come ogni buon psicotico che si rispetti; il secondo nella sua negazione alienata attraverso il semplice passaggio all’atto delle voglie, come ogni psicopatico di riguardo. Tutti e due incapaci di porsi in una condizione di cambiamento del sistema, ma perfettamente adattati, mansuetamente o dannosamente omologati in un conformismo tanto distruttivo quanto compiacente.

Il discorso del capitalista ha così compiuto la sua operazione, creando ad arte una situazione particolare dal punto di vista psicologico, una “estinzione dell’inconscio” che si manifesta nella forma inconsapevole, addomesticata ed automatica dell’efficientismo mercantile oppure nella forma altrettanto istintiva e spontanea, però crudele e pericolosa della pulsione distruttiva.

Nessuno dei due è responsabilmente consapevole della falsa realtà in cui vive, né tanto meno è capace di cambiarla: tutti servi di un padrone che, da qualche parte, se la sta ridendo.

Tratto da “Polaris – la rivista n.2 – STRADE D’EUROPA” – acquista qui la tua copia

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