Antropologia Sociale

L’OSSESSIONE PREVENTIVA – Tutto è prevenuto e sorvegliato

Sembra, a prima vista, che un enorme maternalismo statale si sia preso a cuore la salute fisica e psichica dei propri cittadini.

Quasi che la vita stessa sia diventata un rischio soltanto negli ultimi decenni, come se prima fosse stata un percorso sicuro e beato, un trascorrere idilliaco dalla culla alla bara. 

Se da un lato assistiamo ad una campagna allarmistica di fronte a determinati fatti presentati come altamente rischiosi per l’umanità, dall’altro si ridimensionano fenomeni molto più devastanti per il singolo e per la comunità di appartenenza. 

Si rincorrono affannosamente soluzioni per il mondo, mentre ogni piccola aggregazione umana viene a soffrire per una mancanza di senso di sé. 

di Adriano SegatoriPsichiatra psicoterapeuta

Non c’è angolo della vita privata e dispositivo della vita pubblica che non siano sottoposti in maniera pervasiva al controllo metodico degli apparati del Sistema. Al di là dei grandi occhi permanenti che osservano e registrano ogni nostro movimento sui marciapiedi, agli incroci e nelle piazze delle più piccole città, un sofisticato ed insinuante congegno di propaganda avverte, allarma e ammonisce contro tutti i pericoli esistenti nella realtà circostante. Dal fumo al sesso, dall’alcol alla velocità, dallo stress al cancro: ogni nostra azione viene passata al vaglio dei fattori di rischio e delle possibili ricadute patologiche. Sembra, a prima vista, che un enorme maternalismo statale si sia preso a cuore la salute fisica e psichica dei propri cittadini. Non passa giorno che la televisione non ci bombardi con spot pubblicitari sulla necessità della prevenzione di qualche malattia, sui pericoli della guida, sull’emergenza dell’afa, delle inondazioni, del buco dell’ozono, della salita dei mari e della liquefazione dei ghiacciai. Immani tragedie vengono annunciate per l’arrivo di qualche nuova influenza, mentre ogni decesso sparso nel pianeta scatena turbe di ricercatori alla caccia del vaccino salvavita. Non parliamo poi della censura verso un qualunque stigma, un mantra che soddisfa e seda qualunque coscienza sentimentale e democratica: contro l’omofobia, contro l’ironia, contro l’handicap, contro il linguaggio derisorio, contro lo stesso pensiero non conforme. Tutto deve essere prevenuto e sorvegliato: la malattia, il disastro ambientale, l’intolleranza sociale, la morte stessa. Sembra quasi che la vita stessa sia diventata un rischio soltanto negli ultimi decenni, come se prima fosse stata un percorso sicuro e beato, un trascorrere idilliaco dalla culla alla bara.

Ulrich Beck in La società del rischio. Verso una seconda modernità (Carocci, Roma, 1992) ha definito questa conformazione societaria come “una comunità dell’ansia”, in cui si è verificato un paradosso insospettabile: a mano a mano che si sono organizzati e perfezionati gli apparati di controllo e di prevenzione, sono simmetricamente aumentati i problemi e i mali che nell’intenzione primaria avrebbero dovuti essere risolti. Una vera e propria eterogenesi dei fini, una evocazione negativa di ciò che si intendeva far scomparire con un buon proponimento. Siamo in piena epoca della prevenzione che “tenta di controllare il futuro, di determinarlo, di renderlo (più) sicuro. L’ossessione preventiva sembra non prevedere il fato, il destino. Se ciò che succede è sempre colpa di qualcuno, allora il destino non ha alcun ruolo” (Tamar Pitch, La società della prevenzione, Carocci, Roma 2006), e dell’istruzione permanente, che vuole catalogare pensieri, parole e azioni all’interno di una griglia di correttezza e di una accettazione passiva di ogni prescrizione del sistema.

Noi – che non abbiamo buttato il cervello all’ammasso – ci chiediamo a chi giova questa induzione della paura e, d’altro canto, anche chi trae beneficio dalla minimizzazione di altrettante preoccupazioni. Perché se da un lato assistiamo ad una campagna allarmistica di fronte a determinati fatti presentati come altamente rischiosi per l’umanità, dall’altro si ridimensionano fenomeni molto più devastanti per il singolo e per la comunità di appartenenza (dilagare di sostanze tossiche, indifferenziazione sessuale, invasione allogena, disgregazione del nucleo familiare ecc.). Si rincorrono affannosamente soluzioni per il mondo, mentre ogni piccola aggregazione umana viene a soffrire per una mancanza di senso di sé. 

Un’importante motivazione di questo approccio propagandistico perverso ai problemi è l’impotenza connaturata a questo Sistema. Il Sistema – inteso nella sua accezione di organizzazione tecno-economica, meccanica e atemporale, senza quella componente essenziale che Ludwig Klages chiama correttamente anima – è privo di una qualsiasi forma, di una qualsivoglia trascendenza. Orfano di quelle idee-forza che si fondano su una memoria ancestrale e si proiettano in un destino condiviso, questo apparato è costretto a confrontarsi quotidianamente con sempre nuove e pressanti difficoltà. Non avendo un indirizzo superiore al quale affidarsi – come ad esempio ad un principio riconosciuto di Autorità –, esso è costretto ad esercitare un Potere dimezzato, confuso tra istanze di accudimento e di soddisfazione, e necessità di disciplina e di punizione. A questo serve l’uso spregiudicato della paura. Attraverso la sua incentivazione la gente scivola verso una volontaria riduzione degli spazi di libertà, e il Sistema scatena una campagna propagandistica sulla sicurezza giustificando la riduzione di questi spazi. E l’impotenza è dimostrata dalla plateale indecisione. Non c’è difficoltà, non c’è inconveniente, non c’è umana sventura che possa dirsi affrontata e superata. Tutto viene rinviato con alti proclami e con vuote parole d’ordine. Potrà pure sembrare un gioco di parole, ma nei fatti il Sistema ha creato un ambiente umano caratterizzato da individui sfibrati e deleganti i quali, attraverso l’esercizio del voto, premia dei rappresentanti altrettanto inadeguati che, di conseguenza, non hanno alcuna possibilità di decisione. Viviamo in un limbo indecisionista nel quale piccoli gruppi riescono a mettere in scacco la maggioranza delle persone. 

Del resto, la possibilità di soluzione di ogni problema ruota attorno all’unica opzione credibile: la decisione. Come ebbe a scrivere Claudio Bonvecchio: “(…) la politica come tattica, contrattazione, chiacchiera e assenza di responsabilità [sancisce] la piena vittoria dell’individualismo borghese e della società che ne è la matrice” (Il politico impossibile, Giappichelli, Torino 1990), e la sua impotenza si manifesta con maggiore evidenza proprio nel momento della crisi. Il gioco è abbastanza semplice. Si è creata e si alimenta la paura in quel dispositivo condizionato e condizionante che si chiama opinione pubblica. Questa esige sicurezza e tutela anche a costo della sedazione delle sue istanze più sane e vitali: quindi non vuole scelte di rischio e di cambiamento. Il potere approfitta di questa voglia masochistica di tranquillità per gestire il quotidiano collettivo senza risolutezza e quello personale con il massimo del profitto. In questo modo ognuno può vilmente giustificare la scelta di non decidere. Il riassunto elettorale di questo procedimento fu evidente negli anni settanta-ottanta del secolo scorso quando, di fronte al fenomeno artatamente strumentalizzato dei cosiddetti “opposti estremismi”, il Sistema aveva coniato lo slogan: “Meglio i ladri che gli assassini”.

Non c’è da aspettarsi nulla dai tenutari di questo marchingegno, e neppure da coloro che condividono la sua impostazione sociale. Il futuro è in mano al singolo e alla comunità di spirito che saprà creare attorno a sé. Contro l’indifferenza, la rassegnazione e la delega, l’uomo deve liberarsi dalla paura e riconquistare la capacità di difendersi. Il controllo globale giova solo al sistema – dal punto di vista politico ed economico – che lo attiva con seduzione pervasiva. In questo senso, l’accettazione del rischio è il primo passo verso la libertà: per una nuova morale, una nuova coscienza, una nuova forma. La libertà è volontà di vita, non passività esistenziale. Di fronte alla paura indotta, alla voglia di sicurezza ad ogni costo, alla ricerca di una salute fittizia e consolatoria, l’unica azione possibile è l’attivazione di un responsabile e risoluto desiderio. Quel desiderio che diventa stimolo a rifiutare sia la fuga nell’individualismo egoista sia la distrazione nella sedazione massificata, e che si concretizza nella creazione comunitaria di un volontariato competente che deve stipulare un patto con il Potere.

In questi termini si gioca la funzione del volontariato sociale. Da un lato, nella fattiva opera di costruzione di una nuova dinamica di rapporti interpersonali che non accetta deleghe e non dà sussistenza, ma che addestra ognuno ad una responsabilità personale e ad un percorso di consapevolezza dei propri bisogni e delle modalità per soddisfarli. Dall’altro, un confronto con il Sistema che non è antagonismo sterile e infantile, e neppure il più pericoloso inglobamento nella riconoscenza, ma una contrattazione matura, concreta ed efficace sulla realtà condivisa. 

Tratto da “Polaris – la rivista n.1 – LA PRIMA VERA” – acquista qui la tua copia

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