Riflessioni

CREDERE L’IMPOSSIBILE – Populismo e liberaldemocrazia: lo stato di salute e i limiti dei due soggetti

L’unica via è l’opzione di sintesi, che colloca il populismo nell’accezione di vettore del cambiamento anziché come sintesi di società ideale.

Accettare infatti il principio di maggioranza come destinazione finale della storia non sarebbe altro che una versione estremizzata della visione liberale.

Il rischio maggiore del populismo è dunque il suo bloccaggio in questa sorta di limbo paludoso, collocandosi come sorta di “fazione destra” del liberalismo stesso.

di Marco Malaguti – Direttore responsabile della rivista online ProgettoPrometeo

Democrazia e populismo sono oggi due temi e concetti estremamente dibattuti nelle arene politiche e mediatiche. Entrambi i concetti sono posti l’uno contro l’altra in una sorta di combattimento gladiatorio senza esclusione di colpi, presentandoci la lotta tra i due sistemi in una visione deformata da una lente assolutamente manichea. Ma i due principi sono davvero così separati come crediamo, o come vogliono farci credere? 

La Democrazia come antipolitica

Partiamo da un assioma: l’uomo democratico, nel senso di attivista e praticante di quello che oggi è il sistema politico dominante, è il vero antipolitico, colui che non si vuole occupare di quello che per i Romani era il dovere del negotium. Gli è stato insegnato che la politica è una cosa pericolosa, che può potenzialmente scatenare guerre, persecuzioni, cataclismi di ogni genere, e quindi essa va delegata ad una casta illuminata di professionisti. Non è un caso infatti che l’attuale sistema politico europeo ponga le proprie basi etiche proprio sui sensi di colpa dei popoli. Il concetto è che “Se vi occupate della politica, con le vostre genuine passioni, i vostri amori e i vostri drammi, finirete per scatenare nuovamente guerre mondiali e ricomparirebbero i campi di concentramento“. L’uomo europeo viene dunque continuamente frustrato e presentato come un pericoloso uomo passionale capace di scatenare guerre mondiali appena si decide a voler prendere una qualsivoglia decisione epocale sul proprio futuro.

La democrazia ha praticamente inglobato tutte le idee, a parte quelle anti-democratiche, riducendole sostanzialmente a gusci vuoti. Si può discutere di tutto, a patto che però non si voglia mettere in dubbio lo status quo. Peraltro, la stessa cosa accade ad esempio nella teocrazia iraniana, il terrore dell’Occidente, dove si vota, si discute su argomenti di svariato interesse, a patto di non mettere in dubbio la legittimità della teocrazia stessa.

Come tutti i sistemi che si basano sul senso di colpa, la democrazia liberale è dunque un sistema che può potenzialmente durare per millenni. La sua capacità proteiforme di correlare l’indole conservatrice delle masse con il suo stato quasi maoista di “rivoluzione permanente” è senz’altro sconcertante.

Per dirla con Slavoj Žižek, indubbiamente il capitalismo è il sistema più rivoluzionario che sia mai stato concepito, dal momento che con il suo rendere tutto quanto volatile, fatto già notato da Marx, esso si rivoluziona dall’interno continuamente. Un chiarissimo esempio della capacità auto-rivoluzionaria della liberal-democrazia capitalista è quello degli Stati Uniti, che sono sempre rimasti fedeli alle proprie vocazioni ultra-liberiste ed antistatali; ciononostante è visibile a tutti la differenza ideologica tra gli Stati Uniti della prima parte del Novecento, ossia gli Stati Uniti delle sedie elettriche, del puritanesimo redivivo, delle famigerate Jim Crow Laws contro i neri del sud, e invece gli Stati Uniti dell’era Obama, che supportano i diritti umani, gli omosessuali e l’islamismo salafita in medio-oriente. Tutte queste contraddizioni sono sopravvissute senza che il filo conduttore e al contempo il nucleo del sistema liberale statunitense, vale a dire il connubio tra il liberismo ed un’attitudine spiccatamente guerrafondaia, venisse anche solo marginalmente intaccato. Qualsiasi sistema cade vittima delle proprie contraddizioni, il fatto che gli Stati Uniti sopravvivano nonostante queste contraddizioni ci mette di fronte all’evidenza: essi sono stati progettati esattamente così, le contraddizioni sono la sua forza. Il sistema è dovunque ed allo stesso tempo da nessuna parte.

È dunque impossibile essere autentici rivoluzionari oggi se non si accetta la natura dinamica dell’avversario che gli uomini liberi si chiamano ad affrontare. Il problema dei rivoluzionari di oggi dunque, dopo aver deciso di essere realmente tali, è quello di fare politica, il che implica per forza un riavvicinamento dell’uomo occidentale all’idea totale di politica, quella cioè che considera non solo il voto, ma anche, e soprattutto ogni atto della propria vita, come un atto politico. 

Maggioranza non plebiscitaria

Se dunque il sistema attuale è al contempo conservatore e rivoluzionario, come si deve porre colui che non si riconosce nello status quo? È assai difficile, per non dire impossibile, trovare risposte corrette a questa domanda. Soprattutto se si vuole rimanere nell’ambito della dicotomia conservazione-rivoluzione. La risposta, secondo le tradizionali correnti di pensiero politico novecentesche potrebbe essere: “comunista” o “fascista” o altre diciture più o meno pittoresche o folkloristiche. Anche queste categorie sono sbagliate poiché, come diremo dopo, sono funzionali allo status quo in funzione oppositiva e dunque legittimante. Anche stalinismo, maoismo e nazifascismo sono stati fagocitate dal proteiformismo democratico-rappresentativo, l’unica cosa che esso ancora non ha fagocitato è il corpo fisico del popolo: poiché filosoficamente la democrazia è incapace di uscire dal mondo dell’immaginifico per tradursi nel brutale mondo reale. Il corpo del popolo è dunque ciò che rimane al popolo in sé. La risposta alla domanda di prima dunque non è “comunista” o “fascista”, bensì “populista”.

Prima di intraprendere una qualsiasi guerra, lo stratega deve porsi la seguente domanda: “di quante forze dispone il nemico?”. Poniamo che lo stratega in questione sia il populista rivoluzionario che lotta contro la società liberal capitalista. Prima ancora delle forze militari di cui dispone il nemico, il rivoluzionario deve chiedersi “di quanto consenso dispone il nemico?”. Quale può essere la risposta? Anche leggendo l’interrogativo in un modo democratico, vale a dire quello che considera il voto come il termometro politico per antonomasia, il sistema di potere gode senz’altro di un consenso maggioritario, ma non plebiscitario. La sempre presente astensione, peraltro oggi in crescita, dimostra che il sistema democratico è tutt’altro che sano dal punto di vista del consenso reale. Se consideriamo che il momento del voto è una vera e propria liturgia democratica, dalla sua scarsa attrattiva possiamo tastare il polso del consenso al sistema, esattamente come dai banchi vuoti durante la messa domenicale possiamo intuire il reale peso della Chiesa Cattolica di oggi. Sono dati incoraggianti per il rivoluzionario, il quale deve fare propria la massima del politologo Gaetano Mosca, “cento che agiscano di concerto avranno sempre ragione di mille che agiscano per proprio conto“.

A dispetto di quanto creda la maggior parte degli antagonisti odierni, non è necessario avere la maggioranza assoluta per attuare una rivoluzione. Per vari motivi: il primo è che, usando il metro di Mosca, chi sostiene oggi lo status quo non agisce certamente “di concerto”, ma privilegia egoisticamente i propri singoli interessi, il secondo è che il fatto che la liceità di un processo rivoluzionario abbisogni dell’imprimatur della maggioranza assoluta della popolazione è di per sé un’idea democratica, il terzo motivo è che la maggioranza, se proprio la si vuole conquistare, non può agire in maniera propositiva da sola, ma ricerca sempre un gruppo ristretto di persone dinamiche e coraggiose a cui accodarsi. Essa non è conscia del potere reale della sua maggioranza numerica, paradossalmente viviamo dunque in un momento storico nel quale il rivoluzionario pensa, suo malgrado, in termini democratici, mentre le masse, senza saperlo, ragionano in termini totalitari ed elitisti.

È noto, valga da esempio, ciò che viene impartito come insegnamento base in tutti i reparti di polizia anti-sommossa del mondo, cioè che durante una protesta iniziata pacificamente, la maggior parte delle persone assiste, ed una minoranza massimalista dà inizio alla violenza. Se questa minoranza risulta credibile e risoluta, anche la massa pacifica si unisce a questa minoranza, se essa non risulta convincente o, in qualche modo, è messa a tacere, la massa si dissolve nonostante la sua schiacciante superiorità numerica sia nei confronti dei massimalisti sia nei confronti delle forze dell’ordine. Tutte le forze dell’ordine antisommossa del mondo dunque vengono addestrate in modo da riconoscere al primo segnale i membri della “élite massimalista” all’interno di una folla, ed a prelevarli prima che il loro potenziale rivoluzionario possa contagiare la massa passiva. 

Minoranze decisive

Più in sintesi: per attuare un progetto rivoluzionario, oggi come ieri, non è affatto necessario essere la maggioranza, quanto piuttosto si richiede grande determinazione e fede nei propri obiettivi. L’esempio della Rivoluzione d’Ottobre è lampante, la storia della Rivoluzione Comunista è infatti l’epopea di non più di trecentomila bolscevichi che, con una fede cieca nei propri ideali, ed al contempo l’imponente patrimonio filosofico marxista-leninista al proprio fianco, riuscirono ad avere ragione di un paese di oltre cento milioni di abitanti. Poche camicie nere riuscirono, in Italia, a sottomettere al loro disegno rivoluzionario, un paese di oltre quaranta milioni di abitanti e gli esempi potrebbero continuare. A differenza del nazionalsocialismo, che sconfisse la democrazia al suo tavolo verde giocando secondo le sue stesse regole, e del fascismo, che sostanzialmente uccise la democrazia con il suo stesso consenso, Lenin riuscì nell’impresa più difficile, vale a dire sconfiggere le forze, assai più consolidate, della controrivoluzione russa, anch’esse apertamente totalitarie e dunque, mille volte più potenti di qualsiasi decreto di un Von Schleicher, di un Giolitti o di un Facta. Non vi è dubbio sul fatto che oggi, non trovandoci di fronte ad una democrazia autentica (come era Weimar), quanto piuttosto ad un totalitarismo camuffato, dobbiamo prendere a considerare la Rivoluzione d’Ottobre come il modello a cui aspirare, per quanto concerne la disciplina e la motivazione rivoluzionaria, per cambiare lo status quo.

Le lotte del sessantotto dimostrano che un messaggio di tipo marxista (ma anche, semplicemente, una prassi) non è capace di fare breccia nelle mura realmente democratiche, quanto piuttosto esso può insinuarsi e prevalere più facilmente in un sistema totalitario. Non è un caso che, storicamente, il comunismo abbia avuto fortuna in quei luoghi (Russia, Cina, Indocina e, per un certo periodo, paesi arabi, seppure nella forma annacquata del baathismo) dove prima di esso abbiano prevalso regimi a carattere assolutistico o comunque totalitario. Nelle democrazie reali (non in quelle totalitarie odierne) della prima parte del novecento sono stati invece i fascismi a trionfare. Ancora oggi, nella Russia di Putin, il comunismo di Gennadj Zjuganov è molto presente nella società russa, mentre il comunismo autentico è pressoché scomparso dallo scenario politico occidentale, a meno che non si considerino autenticamente comuniste le farsesche formazioni politiche dei Bertinotti, dei Ferrando e delle Stefanoni che così ben conosciamo. 

La tecnocrazia non ha soldati politici

Abbiamo dunque osservato il consenso che il sistema politico attuale gode misurandolo con il suo metro ideologico-fideistico, ossia la partecipazione alle urne e la consistenza numerica. Osserviamo ora il consenso al sistema dal punto di vista rivoluzionario, vale a dire dal punto di vista della milizia politica e della reale presenza della democrazia nelle vite private e nei sentimenti delle persone che vivono oggi nei paesi democratico-capitalisti. Sia che osserviamo le cose da sinistra, secondo la concezione comunista dell’uomo come soldato politico, sia che le osserviamo da destra secondo la massima di Degrelle “Vita est Militia”, gli equilibri non giocano a favore dello status quo, e lo faranno sempre meno. Le rivoluzioni si attuano, prima di tutto, con i soldati politici, coloro che, come abbiamo detto, trasformano ogni atto della propria vita, o quantomeno si sforzano di farlo, in un atto di militanza politica.

Malgrado l’assoluta marginalità dei movimenti antagonisti fascisti e comunisti nello scenario politico di oggi, si troveranno con assoluta certezza molte più persone disposte ad affrontare reclusione e morte in nome del fascismo o del comunismo che non piuttosto in nome del tecnicismo finanziario che ci governa. I soldati politici del sistema sono assai rari e, per conto mio, sono da relegarsi nell’ambito del patologico. La gigantesca babele tecno-finanziaria che ci governa oggi ha moltissimi mercenari, ma pochi, pochissimi soldati. Dal punto di vista della milizia politica, le forze rivoluzionarie detengono già la superiorità numerica. Il punto è piuttosto se esse decideranno di usare tale superiorità con i canoni perdenti del vecchio secolo o piuttosto secondo una nuova logica, quella populista. Dov’è dunque la forza dell’attuale democrazia? Com’è possibile che essa resista nonostante la sua palese inferiorità? Esistono varie risposte a questa domanda, a mio avviso tutte contenenti una verità. La prima risposta è che, fino a quando le forze rivoluzionarie non si decidono a mettersi realmente in gioco, anche una compagine di mercenari sbracati può tenere in pugno un Paese.

Credere “l’impossibile”

Per quanto un sistema possa essere filosoficamente e strutturalmente precario, esso può anche non cadere senza l’influsso di una forza rivoluzionaria o di un aggressione esterna. Per quanto fosse precario l’universo sovietico, è probabile che sarebbe ancora in piedi se non fosse stato per l’aggressione più o meno velata nei suoi confronti di Ronald Reagan. L’intuizione di Reagan fu, a quel tempo, quella di credere l’impossibile, vale a dire che il sistema sovietico potesse cadere, cosa fino ad allora considerata, appunto, impossibile. Dal momento che Reagan fu messo a conoscenza della reale debolezza del sistema sovietico egli capì che abbatterlo era possibile, e cominciò dunque a crederci. L’impossibile divenne quindi possibile ed il sistema sovietico, incapace di controbattere alla corsa agli armamenti americana collassò a causa del suo ostinato tentativo di emulare i guerrafondai occidentali.

Il resto è storia recente, colui che demolisce il dogma dell’invincibilità del proprio avversario, ha già fatto un passo importante verso la Rivoluzione. Furono le debolezze e la dissolutezza della corte francese, e la conoscenza di queste da parte degli intellettuali prima, e del popolo poi a rendere possibile l’impossibile, cioè che non solo il potere di Luigi XVI non era invincibile (era anzi, debolissimo), ma anche che l’intero supporto ideologico dell’assolutismo, vale a dire la legittimazione di un siffatto parruccone da parte di Dio, non poteva avere alcuna ragion d’essere. Da quel momento in poi, il momento che Zižek chiama “momento di rottura”, la caduta del regime, quale che sia, può solo venire posticipata, ma non evitata. Burke sostiene che la condicio sine qua non dell’affermazione del Male è “che i buoni non facciano nulla“.

Pur soprassedendo su ciò che Burke intenda come “buoni”, l’affermazione rimane valida, una delle condizioni principali che permette la sopravvivenza dell’attuale democrazia è il fatto che i rivoluzionari non facciano nulla. Perchè i rivoluzionari non fanno nulla? Risposta: perché credono nel mito dell’invincibilità della democrazia. Credono nel possibile, anziché nell’impossibile. Sostanzialmente essi stessi credono alla vulgata di Fukuyama, secondo la quale, in una concezione lineare del tempo di matrice agostiniana, la democrazia parlamentare altro non è che “la Città di Dio” alla quale tende naturalmente lo sviluppo, ed infine la conclusione, di ogni processo storico e politico (secondo Fukuyama la “città di Dio” si è già realizzata, Agostino se non altro, non era altrettanto ingenuo). A stimolo del lettore, si può affermare che una delle sfide principali di un’autentica filosofia rivoluzionaria sia quella di riappropriarsi di un concetto di temporalità differente da quello lineare che oggi va per la maggiore. Liberarsi di questa visione lineare e conclusivistica che deriva da Sant’Agostino è la prima chiave per demolire il dogma dell’onnipotenza democratico-liberale, il quale è incentrato prima di tutto sulla sua inevitabilità e di conseguenza sulla irreversibilità della democrazia parlamentare. 

Una sintesi di superamento

Il nocciolo della questione populista sta dunque proprio qui: ad un certo punto dello sviluppo storico, più o meno la fase nella quale ci troviamo, il populismo deve optare per una sintesi di superamento hegeliano tra le due polarità che lo hanno generato. Il populismo in sostanza deve mutare forma, se non vuole rimanere bloccato nella sua istanza legittimatrice. Cosa significa questo? Se Hegel parlava di “immane potenza del negativo”, nel senso che ogni cosa che esiste ne evoca al contempo una negazione, è chiaro che un blocco, da parte dei patrioti, sulle posizioni populiste, non potrà che evocare naturaliter la reazione eguale e contraria da parte delle élites corrotte che governano l’Occidente.

L’unica via di fuga in sostanza è l’opzione di sintesi, che colloca il populismo nell’accezione di vettore del cambiamento anziché come sintesi di società ideale. Accettare infatti il principio di maggioranza come destinazione finale della storia non sarebbe altro che una versione estremizzata della visione liberale. Il rischio maggiore del populismo è dunque il suo bloccaggio in questa sorta di limbo paludoso, collocandosi come sorta di “fazione destra” del liberalismo stesso. A ben vedere, non sono poche le formazioni, di destra e di sinistra, che dal lato populista della battaglia accusano il sistema liberale di non essere sufficientemente tale. Se dunque la battaglia assume la connotazione di vendetta risentita contro le “promesse tradite” anziché contro il nemico giurato liberale da superare in ottica di sintesi, il presupposto della rivoluzione cade completamente, condannandoci a perdere il timone del passaggio storico, che potrà avvenire, e avverrà, senza di noi.

Nella mistica del soldato politico, e nella mistica dell’autentico sovranista e populista occorrerà tenere conto, d’ora in avanti, che il nemico primo da affrontare è il democratico-liberale in noi. L’accettazione del valore vettoriale del populismo, in sostituzione della rinunciataria visione di esso in prospettiva finalistica della storia (una storia privata di accezioni eroiche, spirituali e prometeiche), sarà la chiave di volta per la creazione e l’attuazione di un autentico pensiero rivoluzionario del domani.

Tratto da “Polaris – la rivista n.22 – POPOLI SOVRANI” – acquista qui la tua copia


CS POLARIS

Polarità - Assalto culturale - Autonomie. Il primo Think Thank italiano al servizio della comunità nazionale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Language