Riflessioni

PERCHÉ SE MORTE LI VINSE NON LI VINCA L’OBLIO – I sacrari militari e i monumenti ai Caduti

Nel lungo viaggio mistico da Aquileia a Roma si poté vedere la bara del Milite Ignoto, montata su una carrozza di treno aperta, indurre al suo passaggio ali di popolo ad inginocchiarsi come davanti a un nume, a una divina spoglia protettrice. 

Simili liturgie di sacralizzazione appartenevano, con ogni evidenza, ad una cultura pagana che seppe rinnovarsi con immutato vigore non solo tra minoranze colte, ma soprattutto nel popolo, in una specie di riemersione dal profondo di una pietà che riappariva intatta da tempi antichissimi.

di Maria Giovanna Depalma Giornalista

“Una società che non conserva il culto dei morti fra i suoi valori spirituali più preziosi, non merita di sopravvivere”  così Ugo Foscolo ne I Sepolcri parlava della necessità sociale e spirituale del rapporto tra i vivi e i morti, di quella continuità ideale tra passato e presente su cui plasmare il futuro bagaglio valoriale e culturale della società, del popolo, della Nazione.

Nel XX secolo il culto degli eroi, caduti per la Patria, ha conosciuto la sostanza di una vera religione pagana, rinata inopinatamente tra le maglie della società profana di massa, ed ebbe la sua massima espressione a partire dal primo dopoguerra. 

Dopo la Prima Guerra Mondiale – un conflitto industriale e moderno – in virtù delle enormi perdite subite dagli eserciti europei, si sviluppò la mistica della mors triumphalis commemorata con sacrari e monumenti, cenotafi e bracieri votivi, passando attraverso i solenni onori cerimoniali e le monumentali tombe. Tra il 1919 e il 1942 si affermò il concetto che il culto dei caduti non era solo un fenomeno riguardante il sentimento, la memoria, il ricordo, l’intento commemorativo e celebrativo ad esso sottinteso, ma un processo generale e massivo che ha investito le istituzioni governative tanto quanto l’opinione pubblica, declinato sia nell’ambito legislativo che in quello storico, artistico, sociologico e divenuto specchio della storia e della cultura di un’epoca.

L’architettura sacra dedicata ai soldati morti fu il primo capitolo di questa rinascita del culto degli eroi in epoca moderna. Questi spazi, come scrisse G. L. Mosse, «non lasciavano alcun dubbio sul fatto che i morti in guerra erano non soltanto compagni d’arme, ma anche, e soprattutto, membri della Nazione piuttosto che individui».

Perciò nel primo dopoguerra le istituzioni furono a lungo impegnate in una lenta e difficile operazione di conta dei 680 mila caduti italiani. Al ritorno delle salme nelle città di origine, si pose innanzitutto il problema della loro collocazione.  

L’edificazione dei sacrari

È in questa prima fase caratterizzata da un forte sentimento popolare “pro-monumento”, che sorse l’esigenza da parte delle amministrazioni comunali di adottare dei provvedimenti per la costruzione di sacrari e luoghi della memoria volti ad accogliere e commemorare i propri figli.

I primi riferimenti normativi noti risalgono ai regi decreti del 13 aprile e del 19 maggio 1919 con i quali venne istituita una “Commissione per onorare la memoria dei soldati d’Italia e dei Paesi alleati morti in guerra” presso il Ministero dell’Interno, avviando un processo di istituzionalizzazione della tutela della memoria storica, in opposizione al dramma del conflitto.

Nel 1920 con D.L. del 29 gennaio venne affidato l’incarico al Ministero della Guerra (Direzione Centrale di Sanità Militare) di procedere alla raccolta e alla sepoltura dei morti. Nel 1922 il R.D.L. n. 1386 del 29 ottobre dichiarò monumenti “alcune zone tra le più cospicue per fasti di gloria del teatro di guerra 1915-1918”: Pasubio, Grappa, Sabotino, S. Michele sui quali verranno inaugurati,  a metà degli anni ’30, i maggiori Sacrari militari italiani.

Nel 1935 terminarono anche i lavori all’Altare della Patria, tempio laico consacrato all’Italia e sacello del Milite Ignoto. Peraltro, la figura materna in questi contesti, era una costante: la madre del soldato, in particolare, divenne la santificazione del sacrificio come offerta dolorosa, ma serena della propria carne. Il suolo della nascita e il sangue versato dal combattente per difenderlo divennero due realtà inscindibili fino al costante abbinamento con la figura della madre, generalmente associata alla madre-patria ripetendo come una litania il tema della terra che accoglie pietosa le spoglie dei suoi figli. In questa religione dell’eroe, il culto del Milite Ignoto si integrava perfettamente in edifici pensati tutti in stretto contatto con la figura materna. Fu, ad esempio, la madre di un caduto nella Grande Guerra a scegliere la bara del soldato ignoto da deporre nel sacrario del Vittoriano, dopo un lungo viaggio mistico da Aquileia a Roma: si poté vedere la bara, montata su una carrozza di treno aperta, indurre al suo passaggio ali di popolo ad inginocchiarsi come davanti a un nume, a una divina spoglia protettrice.

Simili liturgie di sacralizzazione appartenevano, con ogni evidenza, ad una cultura pagana che seppe rinnovarsi con immutato vigore non solo tra minoranze colte, ma soprattutto nel popolo, in una specie di riemersione dal profondo di una pietà che riappariva intatta da tempi antichissimi. Un sentimento scaturito dal “basso” che traeva origine proprio dalla condivisione del dolore, che attraversava tutti i ceti sociali e univa famiglie intere. 

La sacralizzazione del Caduto

Fu certo il trauma violento provocato dal contatto con le dimensioni gigantesche della guerra e della carneficina, a provocare questo risveglio collettivo della devozione verso l’eroe, la guerra e la morte in combattimento. La sacralizzazione del caduto in battaglia rappresentò un omaggio al valore comunitario dell’offerta, fu una controtendenza rispetto all’individualismo crescente della società moderna, e riproponeva temi e modi appartenenti agli antichi culti pagani dell’eroe e del guerriero che in Grecia, a Roma e nella società germanica erano al centro del solidarismo di comunità.

L’amore del soldato per la propria madre, costantemente associata alla Patria, rimandava direttamente all’arcaica filiazione tra Uomo e Nascita, tra Eroe e Suolo, bagnando il quale col proprio sangue si celebrava il mistico sposalizio tra il popolo e la sua terra. Noi, in Italia, abbiamo avuto casi, un tempo famosi – oggi completamente dimenticati – di poeti-soldati che fecero del loro legame con la madre, in quanto simbolo della Patria, il significato più interno della loro offerta volontaria al combattimento e all’olocausto.

Si prenda Giosuè Borsi, poeta e drammaturgo, arruolatosi volontario e caduto al fronte nel 1915, la cui opera fu tutta un inno religioso al sacrificio e al rapporto di viscerale intimità con una madre trasfigurata nel destino. La figura materna venne da lui mitizzata con accenti di una religiosità nazionalista, che enfatizzava i simboli dell’identità andando molto oltre i normali toni del languore filiale o del semplice sentimentalismo patriottico. La salma di Borsi, ritrovata con indosso una copia della Divina Commedia lacera e inzuppata di sangue, parve riassumere, come meglio non si sarebbe potuto, il significato di prodigio eloquente, legato al dono della vita offerto per un’antica comunità di alta cultura, esaltando con tutti i crismi della sacralità il destino trasfigurante dell’eroe. Borsi, animato da un amor di Patria che definiva «sacro e furibondo», fu il tipico rappresentante di quella centuria di ferro costituita dai soldati volontari caduti in guerra, la cui memoria il Fascismo fece propria nel ventennio, inserendola nell’ideologia dell’eroismo e dell’azione guerriera, in qualità di aristocrazia scelta del popolo. 

La sposa-terra

È la terra stessa nel suo insieme, come dimora del popolo da difendere ad ogni costo, ad esser vista sotto la forma della sposa e amante, muta, fedele e paziente, adorna di ogni virtù. Allora sarà il soldato caduto a faccia in giù, con la bocca riversa a contatto con la terra, come in un ultimo bacio di passione, a rappresentare plasticamente l’arcaicissimo tema dell’unione fisica tra l’eroe, che versa il suo sangue, e la sposa-terra, il cui grembo è irrorato come in un atto di sacra fecondazione: seme di sangue, secondo la mistica tellurica pagana legata alla fecondità e alla genealogia, quale fu ripresa anche da Tertulliano (1).

Il proprio sacrificio come fatto nel nome mitizzato di una civiltà superiore a cui  tendere fino alla fine, espressione di quella gioventù che si distinse per onore e coraggio.

1. https://www.centrostudilaruna.it/il-culto-moderno-degli-eroi.html

Tratto da “Polaris – la rivista n.21 – L’ITALIA DELLE TRINCEE” – acquista qui la tua copia

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