Nel diritto internazionale il discorso non si pone in termini di organicità comunitaria, bensì come gioco su un campo rappresentato da un assetto di forze nel quale la forma cede irrimediabilmente alla sostanza.
Ecco, allora perché chi detiene il monopolio della forza ha tutto l’interesse a mantenere in vita un sistema che non costituisce certo un argine, quanto piuttosto un eccezionale strumento ausiliario di giustificazione formale alla propria visione dei rapporti e delle relazioni, della ‘normalità’ e delle eccezioni.
di Marco Zenesini – Impiegato, studente e cultore di scienze giuridiche e politiche
La Baronessa Rosalyn Higgins, già Presidente della Corte Internazionale di Giustizia, apriva il suo corso di Diritto internazionale presso l’Accademia dell’Aja con una perentoria affermazione: ‘International law is not rules. It is a normative system’. Il diritto internazionale non è un insieme di regole, ma un sistema normativo. Un processo continuo di quelle che l’eminente giurista britannica qualifica come ‘decisioni autoritative’.
Rosalyn Higgins è una delle più autorevoli esponenti della Scuola di New Haven, sviluppatasi all’interno della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Yale, e tra i cui alunni più noti figura l’ex Presidente degli Stati Uniti, oltre che consorte dell’attuale Segretario di Stato, Bill Clinton.
Si potrebbe affermare che poche definizioni del diritto internazionale siano state, come questa, più aderenti alla realtà oggettiva. Soprattutto, perché essa consacra implicitamente l’irrisolvibile assenza, all’interno dell’ordinamento internazionale, di una delle fondamentali attività sovrane che possano darsi in un sistema giuridico non eteronomo, ossia la coercibilità. Nel diritto internazionale, infatti, all’adozione di un atto non consegue l’automatico assoggettamento dei consociati, in particolare di quanti non abbiano preso parte all’elaborazione ed alla deliberazione dell’atto stesso. Né si può disporre di organi di polizia deputati a provvedere alla sua applicazione effettiva. I termini della questione divengono, quindi, necessariamente politici, nel senso di una traslazione del concetto di ‘politica di potenza’ come elaborato da Carl Schmitt, con la differenza che il discorso non si pone in termini di organicità comunitaria, bensì come gioco su un campo rappresentato da un assetto di forze nel quale la forma cede irrimediabilmente alla sostanza.
Ecco, allora, che diventa agevole comprendere perché, a differenza di quanto sostiene certa vulgata, chi detiene il monopolio della forza abbia tutto l’interesse a mantenere in vita un sistema che non costituisce certo un argine, quanto piuttosto un eccezionale strumento ausiliario di giustificazione formale alla propria visione dei rapporti e delle relazioni, della ‘normalità’ e delle eccezioni.
Il diritto internazionale contemporaneo nasce dalla fine del Secondo conflitto mondiale, come tentativo di stabilizzare, più correttamente si potrebbe dire ‘normalizzare’, il consesso degli Stati, in modo da evitare l’emergere di forze che potessero in qualche modo costituire un ostacolo all’affermazione definitiva delle potenze vincitrici; e si può dire che il tentativo fosse riuscito, visto che anche quelle realtà che, pur avendo condiviso gli eventi bellici, si erano poste su un piano di formale alterità e contrapposizione sociale, economica e politica non hanno mai messo in discussione la loro appartenenza al nuovo ordine. Gli stessi aspri scontri verificatisi nel corso degli anni, nell’ambito delle Nazioni Unite, non hanno mai, nemmeno per ipotesi, prospettato un cambiamento radicale della situazione.
I detentori della forza, quindi, si sono trovati a godere di una duplice legittimazione: da un lato, come soggetti depositari del sacrale prestigio della vittoria su chi rappresentava la negazione dell’ordine che, poi, si sarebbe stabilito; dall’altro, come ideatori e realizzatori di un sistema che ha concesso, ben può dirsi, a tutti, di rasserenarsi, in quanto portatore di una rassicurante sensazione di dominante normatività sulla base di un’eguale considerazione nei confronti di ciascun soggetto dell’ordinamento internazionale.
Tutto ciò non fà che rendere ancora più erronea la percezione della realtà da parte di chi continua a vedere il diritto internazionale come vittima effettiva delle manifestazioni di potenza da parte di chi è in grado di esprimerle. In ogni occasione, quando si tratta di trovare un motivo per legittimare la condanna di iniziative unilaterali, il primo riferimento operato è quello relativo alle ‘ferite’ inflitte alle norme internazionali. Eppure, basterebbe poco per capire che poco rileva il danno inflitto a qualcosa che, in questo senso, non può reagire. Perché chi detiene la forza al momento, cioè gli Stati Uniti e chiunque, secondo il cosiddetto principio di bandwagoning (quello, cioè, del carro del vincitore), vi aderisce senza troppi problemi, può permettersi di combinare la necessità con la normalità, l’eccezione con la prassi, giungendo a dichiarare un’unilateralità che viene rispolverata ogni volta che la cogenza politica lo richieda.
Cambiare il sistema? Ipotesi irreale ed errata. Perché sarà il sistema stesso che si adatterà a cambiamenti che si verificheranno in altra sfera. Ed in tal senso c’è solo un’ipotesi plausibile: l’emergere di forze non contingenti e non eterodirette, capaci di giocare la partita sull’unico terreno possibile, ossia quello del conflitto tra realtà. Intese come unione tra Stati ed istituzioni regionali, nel momento in cui queste potranno definitivamente saldarsi ed operare.
Nessuno s’illuda, come spesso accade: ci vorrà molto tempo. In ogni caso, chi nell’85, avrebbe pensato che di lì a pochi anni le carte geografiche appese nelle aule scolastiche avrebbero presentato tali e tanti mutamenti epocali?
Tratto da “Polaris – la rivista n.1 – LA PRIMA VERA” – acquista qui la tua copia