Riflessioni

La vicenda dell’Europa tra integrazioni forzose e guerre mondiali (1800-1945)

1. Nel percorso proposto nei precedenti interventi occorre richiamare l’attenzione sull’aggettivo “forzoso” nel titolo di questo intervento. L’Europa non è , più di quanto lo siano gli Stati-nazione sorti nell’età moderna, un ché di “naturale”, non ha un’ “essenza”, ma è l’esito di una costruzione a livello diplomatico che ha unificato, sul piano commerciale, storie diverse, culture diverse e sanguinosamente contrapposte sino alla fine del diciottesimo secolo, se ha un senso parlare di una “Repubblica delle lettere” (che parla soprattutto la lingua francese), come in età pre-Riforma aveva un senso parlare Respublica Christiana (per quanto venata da correnti ereticali), non ha senso parlare di un’”essenza” europea; e non tanto perché l’Europa non costituisca un’entità etnica (nessuna realtà politica e non soltanto europea, in tempi storici, ha mai costituito un’unità etnica), ma perché essa non costituisce un’unità culturale se non al prezzo di forzature teoriche o di forzature diplomatico-militari. Se riconosciamo nella parola “Europa” il luogo geografico in cui si sono intrecciate distinte e, non di rado, antagonistiche realtà culturali in un autentico mosaico etnico-religioso, nonché disegni di governo subcontinentale, dall’Impero medievale ai nazionalismi culturali ed etnici della seconda metà dell’Ottocento, non ci è facile negare che le diverse e anche opposte teorizzazioni dell’Europa riescano a cogliere singoli aspetti di questa complessità, ma li enfatizzino oltre i limiti della ragionevolezza. Non va trascurato, infatti che, tra le aree geopolitiche del mondo, l’ “Europa” è, se non la più conflittuale (dalla fine del Medio-Evo fino al 1945), almeno una delle più conflittuali; dunque, dato l’impatto sugli Stati-nazione dell’industrializzazione non si può non guardare al sub-continente europeo, se non da un angolo visuale di diplomazia e, specificamente, di diplomazia economica.

Dati i limiti delle presenti considerazioni (e l’enorme bibliografia in merito) non si può non rilevare che le immagini teoriche di una “unità” europea tendano a svilupparsi dopo le guerre rivoluzionarie della Francia 1792-1815) e attraverso il diffondersi dell’industrializzazione. Diplomazia e strutture produttive capitalistiche costituiscono gli indici generali che permettono una lettura unitaria, tanto dei progetti politici (teorici) europei, quanto delle reali dinamiche di cui la storia europea consta a partire dal 1792. Si è tentato di individuare nella “libertà” il tratto identificativo del sub-continente, magari evocando l’immagine ideale delle guerre greche contro i Persiani; si dimentica che questa libertà dei cittadini consisteva in un regime economico schiavistico, nella guerra pressoché continua fra le città greche e nelle guerre civili all’interno di ogni città greca (le famose stàseis); anche ammettendo che questo (la libertà di ogni città) sia il tratto distintivo, esso non milita a favore di una unità politica che si è realizzata soltanto quando con la forza (economica non meno che militare) si sono create entità più ampie (l’impero di Alessandro Magno), magari per opera di realtà “extra-elleniche” (i Macedoni o i Romani) variamente stabili (l’impero di Alessandro tramonta nella frammentazione del regno dei Diadochi dopo il 322; l’impero romano cessa di esistere a Occidente nel 476 d. C., l’impero romano d’Oriente vive, riducendosi nel corso dei secoli territorialmente, fino al 1453, quando è travolto dallo sviluppo territoriale dell’impero dei Turchi Ottomani). D’altro lato si è ripetutamente indicato nel Cristianesimo il tratto unificante, sul piano dei codici simbolici, dell’Europa. Ma il Cristianesimo (a prescindere dalle sue varianti ricche di contenuto politico a partire dal XVI secolo), come l’Islam (anch’esso ricco di varianti confessionali di grande peso politico), è universale e male si adatta a qualificare una entità che, per ampia che sia o voglia essere, non coincide con il mondo (un ordine mondiale è il punto d’approdo del Cristianesimo e dell’Islam, fin dal Medio-Evo). Le reviviscenze del “mito indo-europeo”, al di là della loro relativamente recente strumentalizzazione in chiave pangermanistica1 che ne hanno fatto uno strumento di conquista in una sorta di “guerra ideologica” negli anni Trenta del Novecento e al di là della loro effettiva strumentalizzazione in chiave di “suprematismo bianco” (vera e propria dinamite sociale in un sub-continente, come quello europeo, da secoli multietnico e multiculturale) si configurano come operazioni di archeologia intellettuale lontane dalla realtà dei rapporti di forza geoeconomici e geopolitici e lontane dal garantire la formazione di un soggetto politico subcontinentale socialmente e politicamente unitario e stabile (se quello che ci si propone è contribuire a istituire uno Stato subcontinentale).

Quali indicazioni possono venire dalla storia dell’idea di Europa? Esistono strumento scientifici di prim’ordine in merito (si va da Federico Chabod2 al recente lavoro di Quirico e Malandrino3), ma vale la pena di rilevare in un’ottica meramente pragmatica le più influenti (influenti sui politici) teorizzazioni.

2. Si è rilevato che l’espressione “Stati Uniti d’Europa” accomuna pensatori assai diversi: da Claude-Henri de Saint Simon a Carlo Cattaneo, da Otto Bauer e Karl Renner a Luigi Einaudi, da Richard Coudenhove Kalergi a Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, a Jean Monnet4: si va, dunque dal socialismo tecnocratico, al federalismo democratico, al socialismo riformista, al federalismo liberale, al modello confederale, al federalismo democratico all’integrazione economica come via alla federazione europea. Si potrebbe dire che, tra il 1814 (anno della pubblicazione del saggio di Saint-Simon) e il 1950 (anno in cui fu delineato il “piano Schuman” che sarebbe stato la base della CECA) emerse un’esigenza trasversale sul piano ideologico a fronte di uno sviluppo economico capitalistico nell’Europa centro-settentrionale che tendeva a creare un sistema, integrato, pur se altamente conflittuale, denominabile “economia europea”. Emerse in chi? Due soltanto sono i politici ‘pratici’: Luigi Einaudi (che fu presidente della Repubblica Italiana dal 1948 al 1955) e Jean Monnet (che delineò la struttura complessiva della CECA); ma soltanto Monnet fu impegnato in modo decisivo nella costruzione europea che fu, come già detto, un’articolazione commerciale integrata dell’area egemonica statunitense. Lo si scrive, qui, per fare una constatazione che può essere intesa come una critica soltanto da chi ha deciso, in via preliminare, che gli Stati Uniti d’America fossero (e, magari, siano ancora) il “Regno del Bene.” Secondo l’angolo visuale qui utilizzato, i criteri morali (“bene”, “male”) hanno ‘cittadinanza’ nella storia politica e istituzionale soltanto come strumenti di “guerra psicologica”, sono usati, dunque, come armi ‘immateriali’; quello che l’indagine politica descrive è la lotta fra complessi istituzionali che governano risorse economiche e i loro sistemi di gestione interna della stabilità sociale.

3. Si può sostenere che i momenti politicamente forti – in senso oggettivo- in cui l’Europa è stata una unità sono, nel secolo diciannovesimo, la formazione dell’impero napoleonico, attraverso l’uso politico della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino (come strumenti per creare quinte colonne, dividendo le opinioni pubbliche in “filo-francesi” e “antifrancesi”) e la Santa Alleanza come strumento militare anti-napoleonico con l’utilizzo della teoria della legittimità del potere sovrano. Se, da un punto di vista socio-economico, l’impero napoleonico fu l’impero del “Terzo Stato” (capitalisti e produttori), il sistema della Santa Alleanza cercò di inglobare nella logica dell’Antico Regime il Terzo Stato liberato in larga parte dell’Europa dalle guerre rivoluzionarie francesi e dal progressivo diffondersi dell’industrializzazione (nell’Europa del Centro-Nord). Se l’impero napoleonico fu travolto dalle coalizioni che furono diplomaticamente protagonista del Congresso di Vienna, il sistema della Santa Alleanza fu travolto dallo sviluppo dell’economia capitalistica e dall’affermarsi di spinte a ordinamenti politici liberali e da tendenzialità democratiche (il cui punto di approdo fu il complesso movimento socialista, in parte legato alla diffusione del “socialismo scientifico”, in parte legato alla diffusione del “socialismo anarchico”); spinte liberali e tendenzialità democratiche che, innestandosi sullo sviluppo dei capitalismi nazionali, contribuirono a delineare la classica antitesi ideologica della seconda metà del secolo XIX, l’antitesi fra nazionalismo e socialismo (comunque intesi).

Questo complesso agglomerato di forze portò le progettualità riguardanti l’Europa ad avere un ruolo sempre più marginale; ideologicamente, l’Europa non ha niente a che vedere con il nazionalismo (politico, alla francese, oppure etnico, alla tedesca, che esso fosse), né con l’Internazionalismo socialista. Sempre sul piano ideologico, a partire dal 1870, i nazionalismi evolvevano in imperialismi5, seguendo la logica dell’economia capitalistica; una logica sulla quale si infransero le convinzioni settecentesche sull’effetto pacificatore del “dolce commercio” nei rapporti internazionali (Montesquieu, Kant) nel 1914, con lo scoppio della Prima Guerra mondiale che evidenziò la stretta connessione fra sviluppo capitalistico e guerra (preannunciato, nel 1913, da Werner Sombart nel libro Guerra e capitalismo6).

4. Le idee viaggiano sulle gambe degli esseri umani; e gli esseri umani sono parti di sistemi di produzione e distribuzione della ricchezza, sono parti di rapporti sociali di produzione, soltanto nella fantasia è possibile strapparsi da queste connessioni: a questo punto si ragiona sulla geografia come se fosse indefinitamente plasmabile trascurando che la geografia e geografia politica, i territori geografici sono abitati da esseri umani raccolti in sistemi produttivi e istituzionali che esprimono determinate classi politiche che rispondono ai loro ‘mandanti’ del loro operato. Dalla metà del XIX secolo i mandanti sono sempre più le organizzazioni del credito, per lo meno, nei settori più sviluppati: senza credito non c’è produzione all’altezza della concorrenza, senza credito non ci sono quelle misure di welfare che sostanziano la compattezza dei corpi statal-nazionali. Le concatenazioni del credito creano connessioni transnazionali che favoriscono alleanze diplomatiche. E, in questo quadro primeggiano i second comers della Seconda rivoluzione industriale: la neonata Germania (1871) e gli Stati Uniti d’America, accanto all’Impero britannico. Come si vede, lo spazio concreto per una visione politica dell’unità europea non c’è.

Sennonché, la Germania, uscita sconfitta dalla Prima Guerra mondiale, travolta, poi, dalla crisi finanziaria del 1929 si orienta in una direzione che potremmo dire “post-napoleonica”: dopo l’arrivo al potere della N.S.D.A.P., dopo l’uscita dalla Società delle Nazioni (istituita dalle potenze vincitrici della guerra del 1914-1918 nel gennaio del 1920 per iniziativa statunitense, ma a guida inglese e francese) nel 1934, prende lentamente corpo il piano di una unificazione dell’Europa a guida germanica; nell’ideologia l’unificazione degli “indo-europei” (il mito della “razza ariana”), strumento potentemente suggestivo di destabilizzazione del nazionalismo culturale-giuridico di scuola francese, nella pratica la subordinazione dell’Europa centro-occidentale al governo tedesco; un piano che si configura dopo l’inizio della Seconda Guerra mondiale e che è attestato dai colloqui di Hitler annotati da Bormann a partire dal 19417. L’Italia fascista si è associata al piano del “nuovo ordine europeo” (il cui primo atto è l’invasione dell’Austria) dopo che la Società delle Nazioni ha varato le sanzioni in conseguenza dell’aggressione italiana all’Etiopia in un contesto di guerra imperialistica” (l’Italia come “terzo incomodo” nel condominio imperialistico inglese e francese).

5. Nell’arco di poco più di un secolo si è passati dall’Europa unita sotto la Francia all’Europa unita sotto la Germania, dall’estensione dei Diritti dell’uomo e del cittadino a tutti i territori occupati, all’estensione delle leggi razziali di Norimberga ai territori occupati, dal diritto come specchio della specie al diritto come specchio della razza. Poco importa il fondamento scientifico delle due concezioni giuridiche entrambe caratterizzate in senso normativo, programmatico: nella politica conta la potenza della suggestione delle masse; è chiaro che come ogni cittadino dell’impero napoleonico poteva considerarsi, solo giuridicamente, su di un piano di parità con ogni altro cittadino dell’impero, così anche l’ultimo dei tedeschi poteva considerarsi come parte della “razza superiore” se la sua genealogia glielo permetteva; si tratta di due forme di democrazia radicale che mettono capo a un Führerprinzip (ben noto alla sociologia politica e alla teoria politica degli anni Venti e Trenta del XX secolo8) e che compattano i cittadini come esseri umani secondo leggi fissate dagli ideologi ‘bonapartisti’, oppure, nella Germania del Terzo Reich, come appartenenti a una medesima “unità etnica” fissata dalla legge e dagli ideologi del Partito.

Non siamo di fronte a niente di più (e a niente di meno) che a due forme iperboliche di nazionalismo: la prima ben più “comprendente” della seconda; e, concretamente, a una Europa francese e a una Europa tedesca. Una ripetizione, in grande, dei processi di integrazione degli Stati europei tra la fine del Medio-Evo e la prima età moderna.

La fine della Seconda Guerra mondiale azzera concretamente tutti i nazionalismi europei, non soltanto quello tedesco e quello italiano. L’Europa è, a quel tempo, un cumulo di macerie, se si fa eccezione per Spagna, Portogallo e Svizzera tenutisi fuori del conflitto. I nazionalismi sono forme in cui i borghesi, giunti a un certo livello di potenza produttiva, cooptano i proletari in politiche di potenza; un nazionalismo delle rovine e delle macerie, ammesso che sia possibile al di là dei sogni di pochi ideologi, è irrilevante sul piano dei rapporti di forza. Sul piano concreto due sono i vincitori della guerra contro Germania, Italia e Giappone: Stati Uniti d’America e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, di cui ben a ragione Adriano Romualdi9 ha sottolineato la potenza dei miti internazionalistici poggiati sulla potenza industriale. L’Europa viene divisa, sostanzialmente secondo la linea di incontro tra le forze statunitensi e inglesi da un lato e le forze russe dall’altro; c’è, dunque, un’Europa a Ovest di Berlino e un’Europa a Est di Berlino, Berlino stessa è divisa in quattro zone di occupazione (inglese, francese, americana e russa). Tempestive le iniziative per far ripartire l’economia europea attraverso l’integrazione dei- nell’immediato miseri- mercati: per l’Europa a Ovest di Berlino è varato lo European Recovery Program (ERP) con decreto istitutivo firmato dal presidente degli Stati Uniti d’America Truman il 3 aprile 1948 che aveva già annunciato, in un discorso al Congresso tenuto il 12 marzo 1947, la politica di contenimento del possibile espansionismo russo (di questa politica era parte fondamentale lo ERP). Il 25 gennaio 1949 è varato, per l’Europa a est di Berlino, il COMECON, strumento di integrazione dei mercati dei paesi controllati dalla Russia, dopo che, il 16 aprile 1948 era stata istituita l’Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea (OECE). Com’è noto l’OECE fu istituita per coordinare la distribuzione degli aiuti di cui consisteva l’ERP. Quest’ultimo aprì un mercato assai promettente per i beni statunitensi, creando una rete di partners commerciali più deboli (e/o più indebitati). Tra i compiti dell’OECE era previsto quello di stimolare gli scambi reciproci riducendo progressivamente le tariffe doganali e gli altri ostacoli allo sviluppo degli scambi tra gli Stati europei.

6. È importante rilevare che l’OCSE formalizza la distinzione di due livelli di gestione della politica commerciale: un livello sovrastatale (l’ERP, gestito dall’OECE, è stato fissato dalla potenza occupante / alleata, dipende dai punti di vista) e un livello degli Stati membri (gli Stati occupati / alleati). L’OECE provvede a realizzare l’integrazione dei mercati intervenendo soltanto laddove gli Stati membri non siano in grado di conseguire, da soli, gli obiettivi dell’integrazione dei mercati. Garante, in ultima istanza, del buon funzionamento di questo dispositivo sarà l’apparato militare della North Atlantic Treaty Organization (N.A.T.O.) il cui patto istitutivo è firmato a Washington il 4 aprile 1949 (dodici gli Stati membri, di cui Belgio, Danimarca, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito sono paesi geograficamente europei); oggi le basi militari N.A.T.O. in Europa sono circa 240. Il 9 maggio 1955 la Germania Occidentale aderisce alla N.A.T.O.; fino al 1949, la Germania aveva cessato di essere uno Stato per essere, ovviamente, zona di occupazione; la repubblica democratica federale è stata proclamata, con il permesso delle potenze vincitrici, il 23 maggio 1949, quattro anni dopo la fine della guerra e quattro anni dopo un percorso di rieducazione liberaldemocratica gestito dalle potenze vincitrici. La Germania Est (Repubblica democratica tedesca) fu fondata il 7 ottobre 1949 per iniziativa russa. Il 14 maggio 1955, come risposta all’adesione alla N.A.T.O. della Germania Occidentale, si costituisce il Patto di Varsavia che raccoglie gli Stati che fanno parte dello spazio egemonico russo (nello spazio europeo: Polonia, Repubblica Ceca, Romania, Repubblica slovacca, Bulgaria, Albania). Non è difficile cogliere le simmetrie della “Guerra Fredda”, i delicati equilibri diplomatici tra i vincitori della Seconda Guerra mondiale che si libravano sopra cospicui rapporti commerciali fra i due blocchi10, equilibri che soltanto questi buoni rapporti impedirono di trasformare la “Terza Guerra mondiale” da conflitto a bassissima intensità e per interposta persona, a conflitto diretto, potenzialmente termonucleare11. A integrazione dei mercati si risponde con integrazione dei mercati, a creazione di blocco militare si risponde con creazione di blocco militare. L’Europa è in parte statunitense, in parte russa, questa è l’unica constatazione che si possa fare.

La storia dell’integrazione europea è parte della storia dell’area egemonica statunitense nel subcontinente europeo, accresciutasi in seguito all’implosione del blocco russo e alla esplosione della Repubblica Federale Jugoslava.

Il principio che, fin dalla C.E.C.A. governa i meccanismi di integrazione12 è un principio tipico degli ordinamenti federali, il principio di sussidiarietà, esplicitato soltanto con il Trattato di Maastricht (1992), ma operante fin dai tempi dell’OECE; alla sua dinamica corrisponde, sostanzialmente, la meccanica di partecipazione degli Stati membri dell’UE alla N.A.T.O.

Da qui conviene partire per interrogarsi concretamente sulle possibilità di uno Stato Federale Europeo o, se si preferisce, degli “Stati Uniti d’Europa”. Concretamente: esistono, oggi, interessi europei, vale a dire specificamente, anche se non esclusivamente europei, che possano stimolare la formazione di uno stato federale? La storia dell’integrazione europea, fra il 1951 e oggi, è stata davvero soltanto, o anche soltanto prevalentemente, un insieme di assestamenti interni all’area egemonica statunitense?

1 Se ne può vedere un profilo critico, seppure simpatetico, in Adriano Romualdi, Introduzione a Hand F.K. Günther, Religiosità indoeuropea, Edizioni di Ar, Padova, 1970.

2 Cfr. F. Chabod, L’idea di Europa, Laterza, Roma-Bari, 1995, rist. 2024.

3 Cfr. Corrado Malandrino-Stefano Quirico, L’idea d’Europa, Carocci, Roma, 2020.

4 Cfr. Corrado Malandrino, Il federalismo. Storia, idee, modelli, Carocci, Roma, 1998,

5 Evoluzione studiata da Robert Michels, Prolegomena sul patriottismo (1929), tr. it. Sansoni, Firenze, 1933, rist. Edizioni di Ar, Padova, 2011 e Italien von heute. Politische und wirtschäftliche Kulturgeschichte von 1860 bis 1930, Zürich-Leipzig 1930.

6 Cfr. Werner Sombart, Guerra e capitalismo (1913), tr. it. di M. Brancato, a cura di Roberta Iannone, Mimesis, Milano, 2015

7 Cfr. Adolf Hitler, Idee sul destino del mondo, tr. it. Edizioni di Ar, Padova, 1981-2013.

8 Cfr. Max Weber, La politica come professione (1918), tr. it. di Antonio Giolitti in id. Il lavoro intellettuale come professione, Torino, Einaudi, 1966; Carl Schmitt, Teologia politica (1922) e Il concetto del Politico (1927), tr. it. di Gianfranco Miglio e Pierangelo Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972.

9 Cfr. Adriano Romualdi, La Destra e la crisi del nazionalismo, Il Settimo Sigilli, Roma, 1973.

10 Cfr. Charles Levinson, Vodka-Cola. La finta guerra fredda (1978), introduzione di Enrico Nistri, Iduna, Milano, 2020, soprattutto Parte I.

11 Sulla natura di questo rischio si vedano le opposte valutazioni di Clemente Graziani, La guerra rivoluzionaria, “Quaderni di “Ordine Nuovo”” n. 1, soprattutto pp. 3-7; Bertrand Russell, Common Sense and Nuclear Warfare, Schuster, London, 1959, tr. it. di Adriana Pellegrini con il titolo Prima dell’Apocalisse, Longanesi, Milano, 1959.

12 Cfr. Francesco Ingravalle, La sussidiarietà nei trattati e nelle istituzioni politiche dell’UE, Dipartimento di Politiche Pubbliche e Scelte Collettive POLIS, Alessandria, working Paper n. 55, October 2005.

Francesco Ingravalle

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