Circoli viziosi
È noto a tutti che Aristotele da Stagira (quarto secolo a.C.) abbia il merito di aver fondato la logica d’Occidente, tracciando una netta linea di demarcazione fra l’argomentazione scientifica, l’unica valida ed oggettiva, e altre forme di espressione, più deboli, opinabili e contingenti, le quali afferiscono ad altri domini del reale, quali l’etica, la politica, la retorica e la poetica.
Il filosofo dimostra che, sebbene ogni affermazione che voglia dotarsi di senso debba obbedire a tre princìpi fondamentali (di identità, di non contraddizione e del terzo escluso), soltanto il sillogismo corretto abbia la caratteristica della verità. Fermo restando che siano rispettate le sue regole. Tale argomentazione vede la presenza di due premesse e di una conclusione coerentemente dedotta da quelle.
Facciamo un semplice esempio:
Premessa maggiore: Tutte le città italiane sono europee
Premessa minore: Venezia è una città italiana
Conclusione: Venezia è una città europea
Un discorso generale sul sillogismo ci porterebbe troppo lontano. Per il momento ci sembra necessario sottolineare che Aristotele, pensando soprattutto alla caustica arte dialettica dei Sofisti, maestri e tecnici del linguaggio inteso come vera e propria arma per sconfiggere il nemico, indipendentemente dai contenuti, mette in guardia dall’uso improprio della catena sillogistica, e quindi da esiti fallaci dell’argomentazione stessa.
Facciamo qualche esempio. Partenza da premesse solo apparentemente vere; uso di termini ambigui; uso, come base di un’argomentazione, di ciò che si vorrebbe dimostrare (si tratta della “petitio principii” o circolo vizioso). È evidente, secondo il filosofo di Stagira, che se le premesse sono arbitrarie o solo postulate, quindi non “vere”, ogni tipo di conclusione è plausibile. Per cui vi sono molte concatenazioni logiche che sembrano argomentate, però connotabili quali “paralogismi”, in altri termini quali ragionamenti non validi, ma con apparenza di validità.
Osserviamo, a tal proposito, il seguente (pseudo)sillogismo:
- Gli Alleati hanno vinto la guerra
- Quelli che vincono la guerra hanno ragione
- Gli Alleati hanno ragione
Abbiamo motivo di ritenere, come altre volte sostenuto, che l’attuale “narrazione”, come si usa dire, del cosiddetto Occidente abbia proprio le caratteristiche del “paralogismo” eretto a sistema e, quindi, della dimensione retorica e sofistica, volta non alla ricerca del Vero, ma alla persuasione, indipendentemente dai contenuti. E questo riguarda sia il mondo dell’informazione, sia quello della comunicazione politica. Ad emergere non è una logica oggettivamente condivisibile, ma un certo tipo di linguaggio o, meglio, di tecnica linguistica che è doveroso accettare, quasi per atto di fede: e questo vanifica ogni tipo possibile di confutazione.
Ma torniamo alle origini. Ancor prima di Aristotele, il sofista e avvocato di successo Gorgia da Lentini (V-IV secolo a.C.) sosteneva che qualunque cosa si potesse “dimostrare” attraverso un uso accorto della parola. Anche le tesi più assurde, a partire dal presupposto che il piano linguistico è distinto e separato sia da quello dell’essere, sia da quello del pensiero.
Celebri le tesi gorgiane sul Non Essere, che ci indicano come un uso “tecnico” della parola possa sostenere, in modo formalmente plausibile, anche la tesi più estrema, quella dell’identità fra essere e nulla:
Nulla è;
Anche se fosse, non sarebbe pensabile;
Anche se fosse pensabile, non lo si potrebbe comunicare.
La sfera del linguaggio, per ovvia conseguenza, è qualcosa che vale esclusivamente all’interno del suo perimetro: è del tutto autonoma ed autoreferenziale. Per cui la parola, se opportunamente utilizzata, viene ad assumere una posizione dominante. È in grado di distruggere opinioni comunemente accettate, di suscitare emozioni, di spingere ad un’azione. Colui che domina la parola, detenendone l’arte, può far essere ciò che non è, così come può ridurre a nulla ciò che è.
Soltanto due esempi, fra i moltissimi che si potrebbero addurre, relativi alla nostra epoca. Compare spesso l’uso del termine “patriarcato”, secondo una particolarissima e tendenziosa accezione (supremazia del maschio; atti di oppressione e violenza estrema sulle donne). È agevole notare come ciò rientri in una narrazione, che si vorrebbe dominante, che, oltre tutto, semplifica di molto un grave problema sociale di criminalità e/o di psicopatologia di un certo tipo umano debole, informe, privo di forza interiore e di centro.
La parola, dunque, può far essere ciò che non è in atto, ammesso che sia mai esistito, almeno in quelle forme…
E può far non essere ciò che è. Pensiamo alla negazione del termine “razza”, il cui significato attiene alla scienza biologica e riguarda semplicemente sistemi di classificazione di individui. Ora, chi sostiene l’esistenza di razze è, per necessità, un succube di perverse e diaboliche ideologie. Quindi, le razze non esistono: sono state inventate per turpi finalità.
Il discorso su “patriarcato” e “razza” avrebbe bisogno di un’analisi molto approfondita. In questa sede ci siamo voluti occupare di questioni formali, per cercare di individuare la tendenza “sofistica” del tempo nostro. Certo, per ovvi rapporti di forza, è velleitario cercare di contrastare la corrente dominante, che agisce da continuo e forviante rumore di fondo, e che volutamente ostacola quella che un tempo si definiva, in filosofia, la ricerca del vero.
Suggeriamo, almeno in termini di provvisorietà, quell’atteggiamento spirituale legato al pensiero dell’antico Scetticismo: la sospensione del giudizio (Epokè), cioè il non dare assenso a quanto viene detto soltanto perché è ciò che un altro soggetto vuole instillarci, in modo talvolta subdolo e blando, talaltra con violenta imposizione, rendendoci schiavi inconsapevoli e non artefici del nostro destino.
di Giuseppe Scalici