Riflessioni

FINI E CONFINI – Una concezione profondamente europea contrastata dall’ideologia no border

La formula magica della resistenza e della lotta europea si articola nella comprensione della dicotomia, solo apparentemente disarmonica, tipicamente europea, della messa a terra di un confine ed al contempo del suo superamento con il consenso delle gerarchie divine e degli arconti delle nazioni. 

Nella comprensione dell’armonia tra la sacralità dell’atto romuleo di fondazione dell’Urbe e l’antico rito sacerdotale romano della dichiarazione di guerra, compiuto dal collegio sacerdotale dei Fetiales, dopo aver ottenuto i dovuti auspici, proprio superando il confine sacro mediante il lancio di un giavellotto sacro consacrato a Bellona. 

Confine dunque come disciplina interiore, come rispetto dagli schemi orientati ed ordinati dell’esistenza rispetto ad un travalicamento di essi in maniera casuale e desiderante. Confini concepiti come gradini da scalare, od appigli da agguantare, per l’evoluzione e l’ascesi, tanto dell’individuo quanto delle nazioni e dell’Impero. 

di Marco Malaguti – Direttore responsabile della rivista online Prometeo

Nel XXI secolo, la politica, già consegnata ad una sfera meramente ideologica ed utopistica dalle tre teorie politiche, Liberalismo, Comunismo e Fascismo, che caratterizzarono il secolo precedente, è andata sempre più virtualizzandosi, legando sé stessa al concetto di “politica per immagini” tipica del mondo anglosassone; nonostante questo, il nostro approccio alla realtà, che si è profondamente inzuppato in questa modalità immaginaria di concepire la politica, ha perso di vista l’archetipo del Simbolo, che pure così tanto è legato al concetto di immagine.

Nonostante la modernità sappia astutamente confondere le acque su cosa sia Simbolo e cosa sia immagine, l’universo simbolico europeo è ancora attorno a noi, nelle strade e nei cieli, senza che la maggior parte degli europei se ne renda conto.


Le colonne d’Ercole

Durante le manifestazioni nazionaliste contro la secessione della Catalogna e durante le proteste, sempre nazionaliste, contro la rimozione delle salme di Francisco Franco e Josè Primo de Rivera dal mausoleo della Valle de los Caìdos, abbiamo visto simboli potentissimi garrire il cielo iberico, ma pochi spagnoli, e pochissimi europei intuiscono la potenza ed il significato dello stemma collocato al centro della bandiera spagnola. Come tutti i simboli araldici, esso parla da sé, in un linguaggio ieratico ed immediato come una lama dei tarocchi o come un antico geroglifico egizio.
Accanto alle araldiche tradizionali di Castiglia, Navarra, Leòn ed Aragona, e del sultanato nasride di Granada, stanno due alte colonne, in capo alle quali sono poggiate due corone.

Possiamo ragionevolmente dubitare del fatto che la maggior parte degli europei conosca il significato araldico dello stemma nazionale spagnolo, ma è bene esplicitare che le due colonne rappresentano le Colonne d’Ercole. Alla base di queste, troviamo tre piccole onde blu, che rappresentano gli oceani, mentre in capo ad ogni colonna, sul capitello, troviamo due corone. A destra la corona reale spagnola, a sinistra la corona del Sacro Romano Impero, presente sia nelle bandiere dell’impero stesso, nonché nella vecchia bandiera imperiale austro-ungarica. Avvolti attorno alle due colonne, stanno due drappi colorati di rosso, il colore di Marte, sulle quali campeggia la scritta dorata “PLVS VLTRA”, che potremmo tradurre con “andare oltre” o “superare ogni limite”.

Il motto in questione, fu aggiunto all’araldica iberica nientemeno che dall’imperatore Carlo V d’Asburgo, il grande restauratore dell’ideale imperiale europeo. Mentre la mitologia classica ci tramanda come Ercole avesse scolpito “NEC PLVS VLTRA”, ovvero “non oltre”, Carlo V stravolse –ma solo apparentemente – il significato del motto. Le colonne, simbolo dei confini del mondo conosciuto, erano sormontate dalla corona, emblema imperiale dell’Auctoritas, che verticalmente, dal capitello, scende fino alle basi della colonna, le quali affondano negli abissi oceanici. La potestà imperiale, dunque, controlla saldamente gli oceani ed il Θάλασσα schmittiano.

Il Mito, radice europea del Sacro, aveva dunque posto molto bene in luce la sacralità del confine delle Colonne d’Ercole. “Nessuno vada oltre”, raccomandò l’eroe, poi asceso, agli uomini che sarebbero venuti dopo di lui. È qui d’uopo smontare i pregiudizi, spesso di origine cinematografica, che vedevano la società tardo-medievale come chiusa alle esplorazioni e terrorizzata all’idea di superare i propri limiti. Le mitiche “colonne” erano già state superate dai navigatori portoghesi da settant’anni: le Azzorre, le Canarie, Madeira e Capo Verde, così come le coste atlantiche dell’Africa Centrale erano già note agli europei quando Colombo puntò la prua delle caravelle verso il Mar dei Caraibi. La società tardo-medioevale esplorava gli oceani, senza che i suoi sovrani o le gerarchie ecclesiastiche avessero molto da dire in proposito.

Carlo V, il restauratore dell’Impero, sancì, con un atto che oserei dire futurista, l’inversione del paradigma erculeo. Fu dunque empio? Abbiamo già visto che il superamento del “sacro confine” era già una consolidata realtà quando egli ascese al trono, e sappiamo anche che le stesse civiltà antiche navigarono più volte oltre il limite dello Stretto di Gibilterra. L’imperatore pose sulle colonne la Corona Imperiale. Il Plus Ultra, l’andare oltre, significa dunque che sì, è possibile andare oltre il confine, ma tale atto deve sempre essere subordinato alla discesa verticale del permesso e dell’investitura del Rex (Carlo deteneva anche il titolo di Re d’Italia, e la sua incoronazione avvenne a Bologna, mediante l’antica corona ferrea longobarda), a sua volta investito della sua autorità dalla Grazia divina.

Il superamento del confine dunque non si concepisce, nella mistica imperiale europea, come una “liberazione da”, secondo il noto assioma modernizzante di John Stuart Mill, quanto piuttosto come un atto, sacralmente e civilmente sancito dall’Atto di Potestas dell’Imperatore che, in quanto estensore di norme, emetteva un atto sotto la formale tutela di Giove. 

Monti e mari

A fronte di questa lettura esoterica del concetto di confine incastonato nell’araldica iberica, ne troviamo un più marcatamente politico, essoterico, ovvero l’atto futurista di Carlo V che ribalta il paradigma antico. Riemerge, in questo atto, l’antico dharma indo-ario del superamento di sé, del superamento dei confini, l’anima prometeica degli Europei che non esitano a sfidare gli Dei, pur di accendere i fuochi sacrificali con i quali proprio con gli Dei si riconcilieranno, in una trama già predefinita da un disegno ancora superiore.

L’antico rito sacrificale vedico dell’Aśvamedha, dedicato alla delimitazione dei confini è forse la più antica e dettagliata fonte che testimonia l’importanza cardinale del concetto di Limes nella cultura ario-europea fin dalle sue più remote origini. Il rito, che ritrova documentati parallelismi nell’antica Persia ed a Roma, consisteva nel sacrificio di uno stallone, animale che in Grecia era sacro a Poseidone, a riprova del rapporto esoterico profondo che intercorre tra la sfera dei confini e quella dei mari e degli oceani. La stessa storia romana comincia, il 21 Aprile del 753 a.C., con la delimitazione di un confine.

L’intera storia dell’Europa, per come la conosciamo oggi, la sua idea compiuta di Impero, nasce con una delimitazione, con una discriminazione tra chi è dentro e chi, invece, è fuori. Dunque non solo le colonne d’Ercole erano, lo abbiamo visto tramite le corone, sotto la protezione del Cielo, ma anche i confini terrestri. I passi montani, ne abbiamo varie evidenze, in quanto luogo fisico di passaggio tra valli diverse che conducono a mari diversi, erano veri e propri luoghi di passaggio tra “mondi”. Erano confini e dunque, in quanto tali, sacri a tutti gli effetti, anche se i due versanti erano posti entrambi sotto la sovranità imperiale.

Oltre a Terminus, deità a tutela precipua dei limiti e dei confini, era Giove stesso il nume tutelare dei passi. Conclamato custode delle cime innevate dei monti, il re degli Dei era anche colui che autorizzava o negava il passaggio tra i monti. Innumerevoli resti di templi e depositi votivi consacrati a Giove sono stati trovati in molti passi delle Alpi, e la linguistica alpina testimonia ancora la funzione sacrale del passo e delle vette. Le cime, in lingua friulana, sono tutt’ora indicate con il termine Jôf , collegato alla radice etimologica di Giove, mentre il termine Jouf, nella lingue ladine del Trentino e dell’Alto Adige, indica il passo.

A fronte di tali considerazioni e di una lettura anche simbolica della Storia, non deve sorprenderci che il luogo dove miticamente si suppone fossero le Colonne d’Ercole, sia oggi, come è noto, sotto un’abusiva sovranità della talassocrazia britannica. Meno noto è, invece, il monumento, collocato dagli stessi britannici, proprio a Gibilterra, in un rione denominato “Cancello degli Ebrei”. Il monumento britannico, agevolmente visitabile, mostra le due colonne d’Ercole, le quali però non appaiono integre e sormontate da corone imperiali, come nell’armoriale spagnolo, bensì appaiono troncate a metà, distrutte. Tra le due, una grande placca di metallo dorato mostra un planisfero, con sopra la grande scritta “The Modern World” (sic). Su questo planisfero possiamo vedere come, da Gibilterra, alcune righe senza significato apparente, come raggi di un astro, si diramino verso punti ben precisi del globo, tra i quali troviamo New York, Mosca e Tokyo. Sotto a tale planisfero, una semplice targa ricorda ai visitatori come Gibilterra sia oggi “un importante scalo turistico e finanziario”. 

Così come lo stemma araldico di Carlo V spiega, sapendolo leggere, tutto quanto c’è da sapere sul concetto imperiale continentale delle potenze imperiali terrestri dell’Europa, il monumento britannico di Gibilterra ci dice tutto riguardo alla concezione talassocratica dei confini. Non solo questi ultimi non debbono essere soggetti ad alcuna corona (la corona inglese non è presente né sul monumento, né sulla bandiera di Gibilterra, né nella stessa Union Jack), ma non dovrebbero neppure esistere tout court. Il simbolo sacro del confine, la colonna di Ercole, è tronca, il confine è stato abbattuto. Non esiste più. Al suo posto abbiamo invece un planisfero denominato “mondo moderno”, irradiato dai raggi che si promanano dal luogo del sacrilegio che, ci spiegano gli inglesi,  “è un importante scalo turistico e finanziario”.

Mistiche contrapposte

Alla mistica del confine, di antichissima e radicata origine indo-aria, si contrappone dunque la mistica del senza confini (no borders), di matrice talassocratica, liberale e frammassonica, ben rappresentata dalla nota canzone “Imagine” di John Lennon, vero e proprio carmen consacrato ai numi della dissoluzione.

Le concezioni europee ed atlantiche del confine sono, come tutte le cose, strutturate su più livelli. Il concetto di confine vale, naturalmente, non solo per i continenti, le nazioni, o le valli, ma anche per le proprietà (l’antica Runa germanica Othala significa lo spazio sacro e delimitato della Domus e della Famiglia), e per gli individui. La stessa teleologia liberale prende origine dal concetto di individuo, seppur non per mettere “a terra” ed al contempo fare ascendere quest’ultimo, ma per liquefarlo del Mare Magnum dell’indistinto.

La concezione liberale del confine dunque batte perennemente in difesa; in quanto pura negazione dell’esistente non riesce a costruire nulla che non sia una mera disgregazione di ciò che già esiste. Un principio entropico, se vogliamo, necessario alla manifestazione, ma al contempo da combattere senza tregua. Così come le battaglie si aprono come un soffietto su tutti i livelli dell’esistenza, compreso quello celeste, così anche la battaglia per i confini interiori segue il medesimo brogliaccio. I confini che la mistica europea intende valorizzare, ma anche superare in senso ascensorio, la contro-mistica liberale deve distruggerli. Ecco dunque che le sfaccettature dell’animo, le differenze etniche e culturali, persino i nomi di Dio (Asmāʾ llāhi al-ḥusnā, nella tradizione coranica), devono confluire in un magma indistinto: il famoso motto massonico “E pluribus Unum”, presente – guarda caso – nell’armoriale ufficiale degli Stati Uniti d’America, nonché  – ovviamente – sulle banconote del Dollaro, significa questo.

La formula magica della resistenza e della lotta europea si articola dunque nella comprensione della dicotomia, solo apparentemente disarmonica, tipicamente europea, della messa a terra di un confine ed al contempo del suo superamento con il consenso delle gerarchie divine e degli arconti delle nazioni; nella comprensione dell’armonia tra la sacralità dell’atto romuleo di fondazione dell’Urbe e l’antico rito sacerdotale romano della dichiarazione di guerra, compiuto dal collegio sacerdotale dei Fetiales, dopo aver ottenuto i dovuti auspici, proprio superando il confine sacro mediante il lancio di un giavellotto sacro consacrato a Bellona. In quest’ultimo rito ritorna, ancora, il significato esoterico del PLVS VLTRA di Carlo V d’Asburgo.

 Confine dunque come disciplina interiore, come rispetto dagli schemi orientati ed ordinati dell’esistenza rispetto ad un travalicamento di essi in maniera casuale e desiderante. Confini concepiti come gradini da scalare, od appigli da agguantare, per l’evoluzione e l’ascesi, tanto dell’individuo quanto delle nazioni e dell’Impero.

Non sorprende che la divinità romana tutelare dei confini, Terminus, abbia dato origine al termine italiano “termine”, che significa anche “fine”, nel senso di obbiettivo e di compiutezza storica. Ritorna qui la manifestazione e realizzazione hegeliana dello Spirito Assoluto, un concetto di “fine della storia” totalmente antitetico a quello, peraltro smentito dalla Storia stessa, del teorico liberal-liberista Francis Fukuyama, declinato in una realizzazione ordinata di un ideale imperiale, piuttosto che nella riproposizione di una società animalesca votata al consumo perenne dei beni di lusso capitalistici.

La resistenza passa, oggi, dalla presa di coscienza di questi principi, elementari ai tempi dei nostri maggiori, oscuri ed arcani, invece, a molti nostri contemporanei. La riscoperta di un confine, la ri-sacralizzazione dei confini, esteriori ed interiori, è oggi primo atto di rivolta ed allo stesso tempo primo atto politico di una necessaria, ma inevitabile, restaurazione imperiale.

Tratto da “Polaris – la rivista n.21 – L’ITALIA DELLE TRINCEE” – acquista qui la tua copia

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