Antropologia Sociale

LA PAURA DELLA LIBERTÀ – Ma chi la vuole gratis dimostra di non meritarla

Se escludiamo il rischio, implicito e ineludibile in qualsivoglia azione di nostra volontà per elaborare e vincere una crisi da qualunque sorgente provenga, siamo inevitabilmente destinati al ruolo di servi beoti e passivi delle circostanze che ci accadono. 

Non c’è decisione autonoma, per quanto ponderata, che non abbia in sé l’incognita della sconfitta, ma la mancata riuscita non sarà mai un fallimento se la nostra azione, nella sua motivazione e nella sua condotta, sarà ineccepibile.

di Adriano Segatori – Psichiatra psicoterapeuta

Il grande Francesco Guicciardini, con il suo celebre “O Franza o Spagna, purché se magna”, aveva intuito già 500 anni fa che contro la gretta mentalità borghese dell’egoismo individualista c’era ben poco da fare. Il suo realismo politico è quello che si riscontra anche nel tempo che viviamo, con buona pace del povero Machiavelli che sognava grandi monarchie di dignità e di onore.

Pericolo e opportunità

Ci troviamo in una situazione di metastatica crisi, che attacca e sfibra ogni organo e apparato dello Stato, o del suo residuato più mediocre. “Crisi” è ormai un termine abusato, un mantra, come se il suo pronunciamento avesse in sé il carattere della soluzione, avesse il potere magico del dissolvimento di ogni problema. Questa condizione, invece, nella elevata e complessa mentalità orientale viene espressa in modo più articolato; l’ideogramma che la definisce è composto da due termini, contemporanei e inversamente sinergici: pericolo e opportunità.

Da una “crisi” si esce comunque cambiati: o in meglio o in peggio, dipende dalle risorse coinvolte. Certo è che non c’è guarigione, nel senso di ritorno ad uno stato benessere che, se fosse stato antecedente, non avrebbe per logica generato una crisi. Il resto sono solo fantasie infantili.

Nella condizione indicata, perciò, c’è il pericolo di una regressione, di una rassegnazione, di una delega ad “Altri” generici che ci possano alleviare il sentimento di oppressione che sentiamo. Ma c’è anche l’opportunità di prendere atto di essere vissuti per un tempo indefinito in una irrealtà, in un stato di cieca irresponsabilità, in un limbo imprevidente che ci ha fatto perdere i contorni del disastro in cui ci si è ad un certo punto risvegliati.

Questa considerazione complessiva vale per la vita del singolo, per la relazione di coppia, per il contesto famigliare e per quel dispositivo più ampio e variegato che si chiama società.

È questo il momento politico nel quale stiamo navigando, su una nave che ha per nocchiero un comandante che non ci ha chiesto il nostro parere sulla rotta da intraprendere né, tanto meno, se siamo d’accordo su un certo porto dentro il quale ormeggiare.

Abbiamo noi la capacità e il coraggio di riprenderci in mano il timone? Comportamento per altro previsto in caso di concreta e documentata follia del comandante.

La questione è spinosa, e per altro irrisolvibile attraverso vie dirette o facili scorciatoie. Il risultato auspicato non può neppure lontanamente essere pensato come esito di tattiche contingenti o di trucchi occasionali. Esso si rifà, necessariamente, ad una visione del mondo e, in maniera altrettanto indissolubile, a delle variabili personali – o comunitarie – che prescindono dalla volontà altrui.

Siamo disposti ad entrare nella logica del riscatto morale? Abbiamo la forza psichica, più che fisica, di sostenere l’impatto con la realtà? Il nostro carattere è sufficientemente formato per decidere del destino da creare?

Questi sono dubbi leciti, e purtroppo emergenti dall’analisi dei fatti.

Consapevolezza critica e disposizione al rischio

Consapevolezza critica è il dispositivo di ribaltamento del concreto, cioè esattamente il contrario all’idea dell’utopia alla quale ci ha abituati il sistema democratico-capitalista: un benessere inarrestabile e indefinito che sta implodendo a causa delle sue stesse azioni suicide e mistificanti. Essa non è l’idealizzazione di uno stato idilliaco da raggiungere, ma lo scontro concreto con una realtà che ci è stata offuscata dall’illusionismo dei demagoghi e dall’anestesia degli imbonitori delle coscienze. Essa è la creazione autentica di un destino condiviso e la partecipazione consapevole ad uno stesso cammino, non certo la gita euforica e allettante su un mezzo guidato da altri e verso mete predefinite.

Il problema non è da poco. Anni e anni di finto benessere e di virtuale felicità ci hanno portato ad esaurire – per mancata funzione – le nostre potenzialità. Il sistema ci ha reso schiavi dei bisogni perché – come ha lucidamente annotato Massimo Fini – il sistema capitalista “ha bisogno del bisogno, quindi lo crea”, e in sodale complicità la democrazia “ci ha reso la vita talmente cara che non c’è umiliazione che non siamo disposti a sopportare pur di non metterla a rischio”.

È evidente, con ciò, che se escludiamo il rischio, implicito e ineludibile in qualsivoglia azione di  nostra volontà per elaborare e vincere una crisi da qualunque sorgente provenga, siamo inevitabilmente destinati al ruolo di servi beoti e passivi delle circostanze che ci accadono. Non c’è decisione autonoma, per quanto ponderata, che non abbia in sé l’incognita della sconfitta, ma la mancata riuscita non sarà mai un fallimento se la nostra azione, nella sua motivazione e nella sua condotta, sarà ineccepibile.

L’impossibile si è avverato ed è risultato un incubo

Al tempo infelice e distruttivo della sinistra estrema – quella di ora è il cascame connivente di questo sistema che ha contribuito a generare – un motto era: “Siamo realisti, chiediamo l’impossibile”, e l’impossibile si è avverato, ed è risultato un incubo. Noi, invece, ribaltiamo questa inefficace e sterile illusione e impegniamoci nel ridimensionamento dell’impossibile e nell’esercizio del realismo. Ogni fuga in avanti, ogni eccesso di attivismo, ogni velleitaria agitazione non sarebbero che controproducenti.

La soluzione salvifica del capitalismo si è rivelata una truffa, e le pressanti omelie sul soddisfacimento dei bisogni degli strumenti infernali per ridurre l’uomo ad un marchingegno pulsionale, senza desideri né volontà propria. In concomitanza di ciò, la politica, il dispositivo che avrebbe dovuto tenere a freno la smania corrosiva capitalista ha ceduto le armi, lasciando il posto all’antipolitica – quella in Italia, di Monti e congrega, altro che Beppe Grillo e suoi giullari, irresponsabili agenti di questa manovra.

A questo punto, l’unica opportunità di rinascita è in mano a piccole élites, per dirla alla Larteguy, “refrattarie ad ogni tipo di propaganda”, lucide nell’elaborazione di una strategia e assolutamente spregiudicate nella scelta delle tattiche, autocontrollate negli istinti e sufficientemente impermeabili a facili seduzioni, che abbiano in sé identificata la vocazione alla libertà e superata la paura di conquistarla. La libertà: una grande parola oramai usurata, che implica desiderio, rischio e responsabilità e che, come ha ben puntualizzato Ernst Jünger, chi la pretende gratis dimostra di non meritarla.

Tratto da “Polaris – la rivista n.9 – CRISI: COMBATTERLA O SUBIRLA” – acquista qui la tua copia

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