Antropologia Sociale

DISINFORMAZIA – Da Temistocle agli avversari di Assad

False informazioni possono servire per drenare consenso nella pubblica opinione di casa propria e/o in quella altrui. E per indurre il nemico a commettere errori.

Tra ciò che è reale e la notizia diffusa c’è, invece, sempre un mediatore, il quale può essere libero o embedded, cioè al servizio di qualcuno. 

C’è anche il professionista corretto, che quando fa infotainment, vale a dire informazione-spettacolo, per tenere alta l’audience qualche “licenza” se la piglia a scapito del dato reale. 

di Giuseppe Spezzaferro – Giornalista

Erodoto racconta che la flotta persiana si infilò nella trappola di Salamina perché Temistocle le aveva fatto avere informazioni false relative alle mosse ateniesi. I fatti risalgono al 480 a.C. ma non fu quella la prima volta (basti pensare alla vicenda del Cavallo di Troia) nella quale fu usata l’arma della disinformazia (termine mutuato dal russo ai tempi della guerra fredda) e cioè la manipolazione di notizie. False informazioni possono servire per drenare consenso nella pubblica opinione di casa propria e/o in quella altrui; e per indurre il nemico a commettere errori. Napoleone fu geniale anche nella disinformazia: istituì una moderna centrale di stampa e propaganda (il “Bureau de l’opinion publique”) per “indirizzare” la pubblica opinione; inoltre per supportare al meglio la campagna d’Egitto fondò un giornale (s’era portato dietro una stamperia completa di tutto) che chiamò “Le Courier de l’Egipte”.

Un’antica e consolidata attività

La “lavorazione” delle notizie è, dunque, un’antica e consolidata attività. Il Potere ha sviluppato nel corso dei secoli un’ingegneria del consenso che funziona sia per tenere sotto controllo le tensioni sociali e accrescere la popolarità  sia per demonizzare avversari interni ed esterni.

La diffusione dei mezzi di informazione è per certi versi un baluardo di verità. Un fotoreporter, per esempio, non sempre riusciva a portare fuori dai confini il rullino con le immagini compromettenti per un Paese o per una casta; oggi non deve valicare la frontiera: spedisce foto e filmati via e-mail. L’armamentario della comunicazione è talmente variegato che anche la più occhiuta e feroce delle polizie non è in grado di controllare per intero la circolazione delle notizie. Quando riesce a farlo è perché entra in funzione un meccanismo (“gatekeeping”) del lavoro mediale messo in azione da un “gatekeeper”, cioè da un operatore che decide a sua scelta o a comando di lasciar filtrare o meno una notizia. La censura e/o la disinformazia funzionano grazie alla complicità del giornalista. Il fatto che ciascun cittadino del mondo informatizzato abbia facile accesso ai canali mediatici fa ritenere che quei canali si aprano direttamente sulla realtà. Tra ciò che è reale e la notizia diffusa c’è, invece, sempre un mediatore, il quale può essere libero o embedded, cioè al servizio di qualcuno. C’è anche il professionista corretto, che quando fa infotainment, vale a dire informazione-spettacolo, per tenere alta l’audience qualche “licenza” se la piglia a scapito del dato reale. 

La Conferenza di Bruxelles (11 settembre 2011) ha denunciato: «Diritti fondamentali sistematicamente violati; misure per la sorveglianza di massa mirate contro giornalisti e media; leggi che hanno minato quasi la metà degli standard minimi fissati nella Dichiarazione Onu del 1948 sui diritti umani; il giornalismo indipendente costretto a vivere in una pervasiva atmosfera di paranoia che porta a pericolosi livelli di autocensura». Ancora: «Nuove forme hi-tech di sorveglianza vengono attuate per monitorare l’attività dei giornalisti, con spie e agenti segreti attivi nelle redazioni, con telefoni e computer intercettati, con la registrazione degli spostamenti».

A Tel Aviv, i giornalisti più famosi d’Israele hanno organizzato (20 novembre 2011) una riunione da loro definita di “emergenza” per denunciare i pericoli che corre la libertà d’espressione. La polizia ha chiuso, in via preventiva, la stazione radio israelo-palestinese, “Kol ha-Shalom”, con la scusa di non avere tutti i permessi in ordine. Succede anche in Italia che la polizia usi un legittimo pretesto per bloccare un’attività sgradita al potere politico dominante. Shalom Kital, ex dirigente della televisione commerciale “Canale 2”, ha dichiarato che «in Israele la libertà di comunicazione è in pericolo». La televisione commerciale “Canale 10”, giudicata troppo aggressiva verso il governo ed il premier, Netanyahu, corre il rischio di chiusura. I giornalisti sono preoccupati che il combinato disposto di pressioni politiche ed economiche li ammorbidiscano. Sul quotidiano “Maariv”, Ben Caspit, noto commentatore, ha scritto: «Io stesso non sono più oggi quello di una volta».

Da Belgrado il 16 giugno 2011 l’assemblea della Federazione europea dei giornalisti (Efj) ha lanciato l’allarme per le terribili condizioni (minacce, ricatti, aggressioni e, a volte, l’assassinio) nelle quali versano i giornalisti nei Balcani occidentali e in altri Paesi europei. Thomas Hammarberg, commissario del Consiglio d’Europa, ha detto che sono in crescita i casi nei quali «grandi società acquistano testate giornalistiche e canali televisivi, senza però osservare sempre l’etica giornalistica». L’europarlamentare Tanja Fajon ha confermato che il giornalismo d’inchiesta incontra sempre più difficoltà nei paesi dei Balcani occidentali, anche se, ha aggiunto, «la libertà di stampa non è ideale neanche nei paesi dell’UE».

Serve il giornalista morbido

La disinformazia, dunque, ha bisogno del giornalista “morbido”. D’altro canto va sottolineato che le “bufale”, le false notizie, hanno una durata nel tempo in costante diminuzione. Ciò non significa che siano meno pericolose o che non raggiungano lo scopo. Una informazione fasulla può far crollare un titolo in borsa e, se anche dopo qualche ora arriva una circostanziata smentita, ormai il danno è stato fatto.

Dalla Siria attraversata da disordini della stessa natura (e origine) di quelli che hanno sconvolto il NordAfrica, a ottobre era arrivata una notizia sconvolgente. Una diciottenne di Homs, tale Zainab al-Hosni, era stata rapita, uccisa, mutilata, decapitata e scorticata dalla polizia segreta siriana. La fonte, Amnesty International, era più che autorevole e su Youtube erano state postate le immagini del funerale della ragazza. Ad ulteriore conferma, sempre su Youtube, il fratello di Zainab aveva raccontato la raccapricciante storia . Poi una ragazza si è presentata ad un’emittente televisiva dicendo di essere Zainab al-Hosni e chiamando la madre a testimoniarlo. 

Negli ultimi tempi sono state numerose le “bufale” che hanno per scenario la Siria. Sono stati contati più di 30mila video postati dagli avversari del regime di Damasco ed è estremamente difficile distinguere tra verità e finzione. Tanto più che Internet assicura l’anonimato, per cui, per esempio, anche un americano potrebbe postare un video dicendo di essere un attivista siriano. Ci sono video girati in Iraq che sono stati postati come fatti accaduti in Siria.

Da Stoccolma la direttrice delle pubbliche relazioni della  Ericsson, Helena Norrman, ha mandato a dire: «Nonostante le sanzioni del governo svedese, dell’Ue e dell’Onu faremo di tutto per continuare a vendere in Siria i nostri telefonini». 

Ed ha spiegato: «In Siria vivono 22 milioni di persone, più di 10 milioni hanno accesso ai servizi di telefonia mobile che la grande maggioranza delle persone utilizza per urgenze che nulla hanno a che vedere con il conflitto, come chiamare un dottore se qualcuno si sente male».

Il libero accesso a Internet ha come effetto collaterale la diffusione di false notizie e di immagini tarocche, ma è un prezzo che si paga volentieri in cambio della libertà di comunicazione. 

I Paesi del G8 riuniti a Deauville (27 maggio 2011) hanno definito il ruolo di internet come «strumento di libertà ed emancipazione politica». Nel testo approvato leggiamo: «La censura o restrizione arbitraria dell’accesso a internet è incompatibile con gli obblighi internazionali degli Stati e del tutto inaccettabile». Il contributo degli operatori dell’informazione è condicio sine qua non ma un’indagine di AstraRicerche per l’Ordine dei giornalisti del Veneto ha registrato che per il 60% i valori etici e deontologici sono del tutto o in gran parte disattesi. Il rettore dell’ateno scaligero, Alessandro Mazzucco, ha rimarcato: «Dall’indagine risulta che il problema primario sono le pressioni esercitate dall’esterno, ma anche il sensazionalismo è nemico del rigore professionale».

La disinformazia non è al momento seriamente minacciata.

Tratto da “Polaris – la rivista n.8 – GLOBAL OCTOPUS OPPURE NO?” – acquista qui la tua copia

CS POLARIS

Polarità - Assalto culturale - Autonomie. Il primo Think Thank italiano al servizio della comunità nazionale

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Language