Lotito il corporativista: ecco perché la “l. anti-Inter” è una genialata
L’iniziativa legislativa di Claudio Lotito, battezzata dalla polemica come “norma anti-Inter”, si ammanta di una virtù assoluta: la trasparenza. Il suo scopo dichiarato è chiarire l’origine dei capitali e la catena proprietaria dei club in mano a fondi esteri, imponendo obblighi di disclosure e l’apertura di una società in Italia per i soggetti rilevanti.
Il dispositivo sanzionatorio – multe salate, sospensione dei diritti di voto, penalità sportive – completa un quadro che, in superficie, sembra una crociata contro l’opacità finanziaria. Eppure, in questo tentativo di portare luce, si annida un’ombra lunga, quella del sospetto. Come scriveva Schopenhauer, «La verità passa attraverso tre fasi: prima viene ridicolizzata, poi viene violentemente opposta, infine viene accettata come evidente da sé».
Qui, la “verità” della trasparenza rischia di essere lo strumento di una battaglia che va ben oltre la chiarezza contabile e lascia perplessi taluni analisti miopi della complessità giuridica del testo
Lo Stato in campo
La proposta, infatti, non è un atto neutrale. Colpisce asimmetricamente determinati modelli proprietari, sollevando il dubbio che la regolazione non sia fine a se stessa, ma un mezzo per riequilibrare le forze in campo. Il calcio italiano, crocevia di identità tribalistiche e imponenti flussi finanziari, diventa così il palcoscenico di un conflitto più ampio.
In questo teatro, lo Stato non si limita a fare da spettatore, ma scende in campo come arbitro, non per applicare un regolamento universale, ma per modellare attivamente la partita.
È la logica dell’interventismo discrezionale, dove la norma non nasce da un principio astratto di giustizia, ma dalla necessità di mediare tra potentati economici.
A metà tra socialismo e statualismo
Definire questa mossa “socialista” è un fraintendimento profondo. Il socialismo autentico punta a un ribaltamento delle strutture di potere a favore dei subalterni.
Qui, al contrario, non si tutela l’ultimo anello della catena, ma si disciplinano i soggetti all’apice. Non è una lotta di classe, è una regolamentazione della competizione tra oligopoli. Questo approccio ha un sapore antico e tipicamente italiano: è corporativismo.
Il sistema, in questa visione, non deve essere rivoluzionato, ma preservato attraverso un equilibrio gestito dall’alto.
Lo Stato assume il ruolo di regista di un equilibrio di potere, controllando i nuovi attori globali per proteggere gli establishment consolidati. È una dinamica che ricorda il monito di John Stuart Mill: «Anche i tiranni hanno bisogno, per i loro fini, del consenso della società».
Un consenso che, in questo caso, si costruisce evocando il fantasma dell’opacità finanziaria per legittimare un intervento che, in realtà, serve a scrivere nuove regole del gioco per pochi eletti.
redazione
